ROMANICO
Il termine R. (franc. Roman; ingl. Romanesque; ted. Romanik) venne riferito per la prima volta all'arte medievale nel decennio 1810-1820, per indicare una fase storica priva, fino ad allora, di connotazione critica. Si voleva così individuare uno stile che precedeva le grandi cattedrali del Duecento e seguiva un periodo oscuro di architetture nate dopo il crollo dell'Impero romano, considerate ancora 'barbariche'.L'arco cronologico del R. venne collocato, dopo molte incertezze, tra la fine del sec. 10° e la prima metà del 12°, mentre al cinquantennio successivo vennero assegnate connotazioni diverse a seconda delle regioni europee. Il nuovo impiego del termine esprimeva già una valutazione del carattere percepito come fondamentale: una tenue continuità con l'arte di costruire di Roma antica. D'altra parte si poneva, come primo problema storiografico, la domanda circa le sue origini.Con radicale differenza rispetto ad altri periodi della storia dell'arte, il R. non nacque dalla crisi di uno stile precedente. L'orizzonte in cui si collocò la sua affermazione era certo segnato da una crisi profonda, ma non originata dall'esaurirsi e dal logoramento di una linea stilistica. Sono piuttosto le componenti storico-sociali di tale situazione a risultare decisive: il disfacimento dell'impero carolingio e del suo effimero sistema di governo, con la conseguente formazione della società feudale. A tale periodo, che precedette e preparò la comparsa del R., corrispose una fase critica in cui l'arte del costruire appariva nell'intera Europa drasticamente ridotta. La nascita del nuovo stile si configurò quindi, in primo luogo, come un fenomeno di ripresa edilizia su larga scala.Dal momento che la nozione di R. è frutto della cultura moderna, non è possibile trovare traccia nelle fonti medievali di una coscienza di tale stile. Negli anni intorno al Mille però era sensibile la consapevolezza di disporre di forze rinnovate per la pratica costruttiva, e di risorse in grado di concepire progetti di grande respiro che soltanto pochi decenni prima sarebbero stati impensabili. La testimonianza più chiara a proposito appare senza dubbio quella di Rodolfo il Glabro (Historiae), da tempo richiamata come atto di nascita del R., che in modo significativo riguarda soltanto l'architettura. In effetti difficilmente si potrà sopravvalutare il valore dell'immagine, efficacissima, di una candidam aecclesiarum vestem che ammantava il mondo intero, registrata all'anno 1003. È significativo che secondo Rodolfo il Glabro la ripresa non riguardi soltanto i grandi centri monastici ed episcopali, ma anche i minora villarum oratoria, le chiese delle campagne: un fatto che tutti gli studi sull'architettura degli anni intorno al Mille, condotti su base territoriale, hanno confermato.È questo un dato fondamentale del R.: fin dalla sua nascita l'architettura non fu un fenomeno di isole culturali, di centri signorili di committenza (come era stato in buona parte per la circoscritta rinascenza carolingia), ma una ripresa veramente generalizzata, che interessò la base come i vertici della società. Tale ripresa si verificò in un periodo sincronico, privilegiando quelle regioni che erano state toccate soltanto in un secondo tempo, e talvolta in modo marginale, dal dominio carolingio, come la Catalogna, l'Italia lombarda, la Sassonia. Per la sua stessa genesi, dunque, il R. fu un fenomeno tendente al particolarismo, alla policentricità, seguendo lo sviluppo e il declino, talvolta rapidissimo, dei suoi centri diffusori. In questo senso la dialettica tra caratteri costitutivi e innumerevoli varianti, se è ovviamente propria di ogni stile, assunse ora un aspetto quasi caotico, che soltanto verso la metà del sec. 12° tese a trovare forme di omologazione. L'individuazione dei caratteri costanti pertanto è un'impresa particolarmente ardua, che la storiografia si sforza da tempo di sintetizzare. Appare chiaro comunque che nel R., per la prima volta, l'Europa cristiana raggiunse un'unità stilistica effettiva, soprattutto in rapporto alla frammentazione e al particolarismo che avevano caratterizzato tutte le manifestazioni artistiche che oggi sono considerate 'preromaniche'.La riscoperta ottocentesca del R. annunciava una nuova consapevolezza storiografica, giunta a piena maturazione soltanto nel clima del romanticismo. Tale presa di coscienza fu un evento di grande importanza nella storia culturale europea, perché portò per la prima volta in aperta crisi l'idea, nata nell'Italia del Quattrocento, di un'unica architettura 'gotica', frutto delle invasioni barbariche, protratta come un caos indifferenziato fino alla riscoperta delle vere regole del costruire. 'Gotico' era un titolo massificante per l'arte di tutto il Medioevo. Era stato Vasari a imporre la lettura di maggiore successo, nel proemio alla parte relativa all'architettura delle Vite, accusando quelle fabbriche "ridicole" di aver funestato a lungo l'Europa, nella perdita di ogni contatto con i grandi modelli romani (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 22). Il primo "esser valente in quella età rozza" sarebbe stato Buscheto, architetto della cattedrale di Pisa, considerato a torto di origine greca (Vasari, Le Vite, II, 1967, pp. 26-27).La nozione di R. rompeva per la prima volta questi schemi ideologici rinascimentali e spingeva l'idea di 'Gotico' nell'arte del Duecento, formando una nuova periodizzazione tuttora in uso. Tentativi di riconoscere accenni di rinascenza nell'arte occidentale anteriore al Rinascimento in verità erano stati avanzati già nel sec. 15°, ma destinati per il momento a scarso successo critico. Soltanto nel Settecento, comunque, nel nuovo clima di illuministica revisione dei pregiudizi ereditati dalla tradizione, si guadagnavano gli strumenti per riconoscere l'autonomia di un periodo della storia dell'arte fino ad allora sostanzialmente ignorato.L'idea di un'arte romanica si fece strada così anteriormente alla coniazione del termine. Nella Francia di Luigi XIV sono da registrare i primi tentativi di sondare con maggiore profondità i secoli centrali del Medioevo. Félibien (1687), nonostante il modello palesemente vasariano, riservava uno spazio inedito al periodo che oggi è considerato romanico. Nasceva così la proposta innovativa di dividere l'età di mezzo in due parti: il gothique moderne, vicino all'attuale idea del Gotico, e il gothique ancien, che riuniva tutti i secoli anteriori al 13° e posteriori all'Antichità, ancora indefinibili secondo periodizzazioni più circoscritte. La distinzione di Félibien venne condivisa dagli autori più attenti all'età medievale ed è significativo che sia stata accolta, e ampiamente divulgata, nella voce Gothique redatta per l'Encyclopédie da Jaucourt (1757). Il quadro era ancora di netta condanna per le deviazioni del 'Gotico', prive di corretta ragione, ma la coscienza delle sue articolazioni interne era ormai acquisita. Con intenti diversi, legati al recupero della storia religiosa di Francia, la neonata congregazione benedettina dei Maurini riscopriva le grandezze del monachesimo medievale e stabiliva nella chiesa - romanica - di Saint-Germain-des-Prés a Parigi il centro di coordinamento delle nuove ricerche. Mabillon (1681) dava inizio allo studio moderno delle fonti medievali. Gli antichi chiostri benedettini venivano così riscoperti e valorizzati, e Montfaucon (1729-1733) varava l'ambizioso programma di raccogliere e studiare i monumenti della monarchia francese in un'opera dedicata a Luigi XV. Un primo criterio di classificazione artistica venne così elaborato sulla base storica delle casate reali che avevano dominato il paese dei Franchi, dai Merovingi, ai Carolingi, ai Capetingi, fino ai Borboni. Per inquadrare un periodo ancora oscuro sul piano delle forme, veniva stabilito un principio definibile di 'identificazione dinastica', destinato a conservarsi fino a oggi nel lessico artistico soltanto per l'età merovingia e carolingia.Alle ricerche storiche dei Benedettini di s. Mauro in Francia corrispondono in Italia quelle di Muratori, che offrì un contributo importante per l'età romanica (Muratori, 1739, col. 349) in rapporto ai maestri comacini, che venivano considerati i soli portatori di uno stile italiano anche nei secoli più oscuri del Medioevo, e collegati, sulla base di confronti documentari allora ritenuti validi, alla regione del lago di Como. Iniziava così la grande fortuna di questo mito dell'arte lombarda, al centro di lunghi dibattiti nel secolo successivo. D'altra parte Muratori negava con decisione che il Gotico nascesse in rapporto con i Goti. Più tardi, in un clima ormai decisamente neoclassico, Milizia (17852) accettava la distinzione di Félibien (1687) e articolava il Medioevo in architettura 'gotica antica' e 'gotica moderna'. La linea di demarcazione tra le due età veniva ora fissata al passaggio tra i secc. 10° e 11°, riconoscendo precise distinzioni stilistiche: la prima architettura era "mastina e greve", mentre nel periodo successivo nascevano "fabbriche leggierissime della più sorprendente sveltezza, e d'un ardire straordinario" (Milizia, 17852, p. 7). Il carattere di pesantezza e di imponenza del R. divenne ricorrente nella critica successiva.Sul finire del secolo in Germania le prime forme di cultura romantica aprirono nuovi orizzonti. Si delineò così la consapevolezza, da parte di autori diversi, che i popoli germanici al momento del loro stanziamento sulle ceneri dell'Impero romano fossero stati portatori di nuovi principi artistici, certamente barbari a confronto con l'arte classica, ma degni di considerazione perché indici della loro civiltà.L'interesse verso l'architettura delle popolazioni che al crollo dell'Impero romano avevano occupato le Isole Britanniche si era da tempo consolidato. In una monografia sulle antichità di Canterbury, Somner (1640) proponeva di attribuire ai Sassoni modeste architetture in legno, mentre soltanto i Normanni avrebbero introdotto, dopo la conquista (1066), l'uso della pietra. Nel corso del sec. 18° però si diffuse la convinzione che alcuni edifici del R. maturo, come la cattedrale di Oxford o il duomo di Winchester, fossero frutto dell'ingegno dei primi costruttori sassoni. L'ipotesi trovava larghi consensi, tra cui figurava quello, prestigioso, dell'architetto regio Christopher Wren (1632-1723). Ai conquistatori normanni si doveva la successiva introduzione di una nuova architettura, che già anticipava le novità gotiche, caratterizzata dal pointed arc, nata fuori dall'Inghilterra nel territorio francese (Ledwich, 1786). In epoca romantica questa tendenza prevalse e si enfatizzò la Saxon Architecture come un prodotto autentico della civiltà britannica. È significativo che nel 1810 il medievista John Carter considerasse legittimo parlare di 'stile sassone' anche per edifici posteriori alla conquista normanna, per la stessa ragione che consentiva di definire di 'stile greco' la Royal Opera House di Robert Smirke (1781-1867; Cocke, 1984). Sebbene nato in Inghilterra, il termine romanesque tardò quindi a imporsi, e la nomenclatura più seguita fu quella proposta da Rickman (1817), ancora basata sulla distinzione tra Early English e Norman Style.Una tendenza analoga si riscontra in Europa, mentre le guerre napoleoniche accendevano i nazionalismi. Sulla base di una ricorrente metafora etnica venivano identificate le costruzioni più antiche e attribuite alle popolazioni germaniche stanziatesi durante le invasioni. L'interesse era indirizzato a riscoprire i caratteri originari, nazionali, delle architetture: dei Germani negli stati tedeschi, dei Longobardi in Italia settentrionale, dei Visigoti in Spagna, degli Anglosassoni in Inghilterra.Negli stessi anni, Séroux d'Agincourt (1808-1823) raccoglieva il materiale per un bilancio delle arti nei secoli di mezzo. Per la prima volta si poteva disporre di una raccolta vastissima di opere e illustrazioni, suddivise per epoche, dove la quinta corrispondeva a un unico 'sistema gotico', esteso dall'11° al 15° secolo.I tempi erano ormai maturi per assegnare al 'gotico antico' una connotazione più adeguata. Il moderno concetto di R. comparve nel decennio 1810-1820, nel contesto di ricerche analoghe e indipendenti. In Inghilterra il primo a parlare di romanesque architecture fu William Gunn, mentre in Francia Charles-Alexis-Adrien de Gerville utilizzò l'espressione architecture romane nel 1818 (Rey, 1988; Waldeier Bizzarro, 1992, pp. 132-149). La nuova scelta terminologica annunciava una visione del R. modellata su quella linguistica: trasferita sul piano delle arti indicava una corruzione dell'età antica, in modo analogo a quanto era avvenuto nelle parlate romanze, derivate dal latino. Il termine romanesque era già usato dai glottologi inglesi del sec. 18° per indicare il dialetto 'romanesco', inteso come latino degradato. Si voleva identificare così un'arte che, nonostante la sua corruzione, aveva le sue radici nell'Antichità classica. Gli altri paesi europei adottarono presto il neologismo, ricalcato sulle diverse lingue.Nella prima metà dell'Ottocento fu la scuola archeologica francese a offrire il più importante contributo alle ricerche sullo stile appena codificato. Tale interesse si affermò certo nel clima romantico ormai diffuso, nel fascino acceso da François-René de Chateaubriand (1768-1848) e da Victor Hugo (1802-1885) per un sentimento religioso radicato nel passato medievale, ma secondo un orientamento che già guardava verso il positivismo e il rigore scientifico. Il R., ormai promosso nella sua cittadinanza tra le arti, era un mondo ancora sconosciuto, che doveva essere analizzato con strumenti adeguati. Il modello più valido di riferimento sembrava quello offerto dalle scienze della natura, che da tempo affinavano i propri metodi, trovando nei lavori del naturalista Carlo Linneo (1707-1778) il più moderno esempio di chiarezza e coerenza. Con una metodologia derivata dalla classificazione botanica, i ricercatori tentavano di individuare e distinguere scuole stilistiche nella grande varietà dei resti romanici. Per superare le infinite particolarità si poteva contare sul principio aureo di Linneo "varietates laevissimas non curat botanicus". Nascevano così in Normandia la Société Linéenne, che contava tra i suoi fondatori Arcisse de Caumont, e nel 1824 la Société des Antiquaires de l'Ouest, dotata di un periodico prestigioso, la Revue normande. Nel 1833, a partire da Caen, venivano istituiti congressi scientifici periodici. Lo studio di Caumont (1824) diffondeva il termine art roman e portava a maturazione un metodo destinato a divenire modello di analoghe iniziative editoriali in altri paesi. L'associazione diede i suoi frutti, stimolando la nascita della Société Française d'Archéologie, dotata di uno strumento bibliografico come il Bulletin monumental. Un nuovo strumento per analisi comparative e dimensionali era offerto dalla litografia, importata in questi anni dall'Inghilterra e utilizzata con sempre maggiore estensione nelle pubblicazioni di storia dell'arte.Le ricerche condotte in Normandia nella prima metà del secolo trovarono un punto di arrivo nell'articolo che Quicherat (1854) dedicò al concetto di R., sotto l'angolatura non dell'archeologo ma del linguista e del filologo, uscito dalla prestigiosa Ecole des Chartes. Sulla base dell'affermato parallelo con l'evoluzione glottologica, il R. non può essere considerato un semplice imbarbarimento dell'Antichità, altrimenti anche le lingue romanze non sarebbero che balbettanti degenerazioni. È in realtà uno stile di formazione e di passaggio. Si delinea così una definizione che tende all'equilibrio tra due opposti: l'architettura romanica è quella che ha cessato di essere romana, sebbene mantenga ancora molto del romano, e che non è ancora gotica, sebbene abbia già molto di gotico. L'idea riduttiva del R. come intermédiaire era ormai consacrata, e apriva la strada alla grande stagione del Gotico - e del Neogotico - pensato come vero stile nazionale nella Francia del secondo impero.In Italia il termine R. tardava a imporsi con significato univoco, e alcuni autori proponevano di parlare di stile 'romantico', inteso come "dialetto romano degenerato, o lingua romangia, o come per vezzo l'appellano taluni romantica" (Sacchi, Sacchi, 1828, p. 6). Un certo successo avrebbe ottenuto a fine secolo la designazione di 'romano-bizantino', caldeggiata soprattutto da Arborio Mella (1885), che identificava la nascita dello stile in un incontro tra influssi orientali e tradizione antica. La questione al centro dei dibattiti in Italia era quella longobarda, che riguardava non soltanto l'arte, ma il bilancio complessivo di un regno che aveva segnato profondamente la storia nazionale. Il concorso bandito dall'ateneo di Brescia nel 1826 chiedeva una valutazione sullo stato delle arti nell'Italia longobarda (Castelnuovo, 1967): la risposta di D. Sacchi e G. Sacchi (1828), legata al clima romantico, puntava nella direzione di enfatizzare la componente simbolica, mentre Cordero di S. Quintino (1829) risultava vincitore con un saggio pionieristico che analizzava con metodo archeologico, vicino alla scuola normanna di Caumont, le architetture più significative dell'età di mezzo. Come avveniva in Inghilterra nei confronti dei Sassoni, anche in Italia molti edifici dei sec. 11° e 12° venivano abitualmente attribuiti all'età dei Longobardi, e spetta a Cordero di S. Quintino il merito di aver avanzato solidi argomenti per stabilire che un monumento come S. Michele a Pavia non coincideva affatto con la costruzione voluta dal re Liutprando (712-744).Da parte inglese, nel dibattito sempre più vivo sul R. un contributo decisivo veniva da Hope (1835). La novità interpretativa consisteva ora nell'attribuire un ruolo determinante alla Lombard Architecture, un modo di costruire che, nato nell'Italia longobarda dei maestri comacini, avrebbe conquistato l'intera Europa, diffondendo un'arte nuova basata su canoni stilistici ricorrenti. Si trattava innanzitutto di elementi strutturali, identificati nell'arco a tutto sesto, nei sapienti rapporti tra superfici murarie e articolazioni regolari, nelle soluzioni dei pilastri e delle volte a crociera, nei sistemi decorativi fantasiosi e grotteschi. L'arte romanica trovava così nello stile lombardo un valido paradigma di riferimento e un'origine storica precisa, offrendo alla cultura anglosassone un nuovo motivo di interesse verso l'Italia, che raggiunse soltanto nei volumi di Porter (1915-1917) un coronamento definitivo. Pochi anni dopo le ricerche di Hope, Burckhardt (1855) proponeva al viaggiatore tedesco un percorso di Genuss, di godimento dell'arte italiana, attento anche alle opere medievali. Ciò che più interessava all'accademico di Basilea non era l'arte come fenomeno estetico, ma come indice di cultura: anche i secoli 'barbari' potevano offrire monumenti di grande fascino, frutto della civiltà italiana ai suoi inizi. Vengono così riscoperte le differenze locali del R., nelle sue articolazioni regionali caratterizzate dal diverso uso dei materiali edilizi, dalle chiese genovesi, collegate alla tradizione pisana, alle declinazioni estreme del bizantinismo nelle basiliche delle Venezie. Il R. italiano si rivelava più ricco rispetto a quello europeo, e alla Toscana spettava il grande primato, che già guardava verso il Rinascimento, di aver dato nuova vita all'impianto basilicale. Furono queste considerazioni di Kulturgeschichte che incisero profondamente negli sviluppi futuri della critica tedesca, e non soltanto in rapporto all'Italia.Le indagini sullo stile come prodotto di una cultura presupponevano naturalmente la riscoperta dei cantieri e dei sistemi organizzativi delle maestranze medievali. Il contributo più significativo a tale proposito veniva da Ruskin (1851-1852), che inaugurava una nuova esaltazione delle corporazioni. Tale rivalutazione, innanzitutto etica e religiosa, disprezzava apertamente l'avvento dell'arte rinascimentale, con l'idea individualista dell'artista-genio. L'anonimato dei maestri medievali non era che l'espressione della collettività del loro operare. Si apriva così un grande filone di ricerca, che portò alla scoperta dei segni lapidari e a grandi raccolte delle firme più antiche che gli architetti romanici avevano lasciato sui loro monumenti (Lefèvre-Pontalis, 1911; Mély, 1920-1921; du Colombier, 1953; Gimpel, 1958; Harvey, 1984).Nella seconda metà dell'Ottocento è il tema delle scuole regionali a guidare le ricerche. Nacquero nell'intera Europa associazioni votate allo studio delle antichità locali, in genere connesse con le accademie di scienze e di arti. Iniziò così un grande lavoro di ricognizione e catalogazione dei beni artistici e architettonici conservati nel territorio, dove un ruolo primario era assunto dagli stili medievali, in parallelo con il successo, sempre più diffuso, dei revivals storicisti. Si apriva anche l'epoca dei grandi interventi di restauro integrativo, finanziati con impegno crescente da parte degli Stati europei che identificavano nel patrimonio medievale un simbolo primario dell'idea di nazione. I restauri diretti dal giovane Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879) alla Madeleine a Vézelay, a partire dal 1840, riuscivano nella sfida di affrontare con criteri storici e mezzi tecnici aggiornati un monumento-simbolo del R. francese. La nascente scuola strutturalista segnava in Francia grandi risultati nell'analisi statica degli edifici storici, necessaria premessa a ogni restauro. Il clima positivista favoriva tale indirizzo, che alla fine del secolo trovò la migliore espressione nella storia dell'architettura di Choisy (1899), per il quale il vero fattore di metamorfosi di ogni stile non era da identificarsi nei caratteri formali, ma nell'innovazione di soluzioni costruttive, di natura prettamente strutturale.Si inaugura così una tendenza all'empirismo, particolarmente nel settore dell'architettura: più che indagare i significati della cattedrale, importa scoprire perché sta in piedi e comprendere le soluzioni innovative elaborate dagli architetti. Viene superata la visione ottocentesca che considerava le innovazioni strutturali frutto esclusivo del Gotico, e si riscoprono le ricerche in atto sui sistemi voltati già a partire dall'11° secolo. Nel Novecento la strada venne seguita da diversi autori, tutti collegati, come punto di partenza, alle analisi di Choisy (1899), da Porter (1915-1917), a Verzone (1942) fino a Kubach (1972).L'analisi delle strutture prestava anche un nuovo supporto per individuare, su solide basi, le scuole regionali del Romanico. Nel 1873 lo stesso Viollet-le-Duc (Eugène Viollet-le-Duc, 1996) aveva proposto all'Esposizione universale di Vienna una Carte des Monuments historiques de France che suddivideva l'intero territorio nazionale in aree stilistiche, dai confini ben determinati. Lo stile che in tutti i paesi europei meglio si adattava alla classificazione per régions monumentales era senza dubbio il R., per la sua diffusione capillare nelle campagne e nei centri minori, ma anche, e soprattutto, per essere quasi privo di protagonisti noti. L'esiguo numero di nomi dei magistri tramandato dalle fonti imponeva infatti soluzioni di catalogazione diverse da quelle legate alle singole personalità artistiche, seguite con successo per altri periodi della storia dell'arte. Il R. sembrava adattarsi in modo particolarissimo all'idea di una Kunstgeschichte ohne Namen teorizzata da Heinrich Wölfflin (1864-1945; Sciolla, 1995). Le principali ricerche condotte tra Ottocento e Novecento seguivano così senza nuove alternative la traccia dei percorsi regionali, e a tale modello non rinunciano le indagini più recenti. Anche nel più ricco panorama sul R. europeo concepito dai Benedettini di La Pierre-qui-Vire per il periodico Zodiaque, incerto tra rigore scientifico ed esigenze di turismo culturale, si continua a seguire un programma di edizione ripartito sulle regioni storiche, talvolta identificate in modo semplicistico con i dipartimenti amministrativi odierni. Il rischio per una lettura del R. in base al sistema delle scuole rimane quello di perdere di vista gli scambi sovraregionali e le grandi correnti di comunicazione dei modelli. È significativo che già Focillon (1938b) denunciasse l'idea delle scuole come un prodotto, ormai obsoleto, dell''archeologia dogmatica' ottocentesca.Intanto in Italia proseguiva il dibattito sui maestri comacini e sullo stile lombardo. Le ricerche di Boito (1880) contribuivano in modo considerevole alla riscoperta del Medioevo e all'affermazione di una 'scienza dei monumenti' che sostituisse le vaghe enfatizzazioni romantiche (Maderna, 1995; Zucconi, 1997). All'alba dell'unificazione nazionale, ottenne grande risonanza la proposta di Boito di vedere nello stile lombardo un punto di riferimento primario per la formazione di una nuova architettura, autenticamente italiana. Negli stessi anni Clericetti (1869) contribuiva ad alimentare il mito dei maestri comacini, ma soprattutto proponeva nuove letture del rapporto tra arte e società, dove l'architettura era 'specchio fedele' della storia dei popoli. A lui si devono idee innovative sul ruolo assunto dalla liturgia per la formazione delle opere medievali, e per l'arte lombarda un peso determinante si doveva riconoscere al rito ambrosiano, conseguenza di una lotta per la supremazia della Chiesa milanese. Si enunciava così il principio storiografico di porre in relazione il R., nei suoi aspetti regionali, con gli sviluppi autonomi del culto diocesano, un tema poi riscoperto dalla critica novecentesca. Spetta però a Cattaneo (1888) il merito di aver rivoluzionato alla radice le convinzioni tradizionali sull'architettura italiana, con un volume dedicato ai progressi del costruire dal sec. 6° al Mille, presto tradotto in diverse lingue. Entrava in crisi l'idea stessa di un Medioevo nazionale unitario, mentre si riscopriva la continuità con l'Antico e con il mondo bizantino, nella permanenza degli schemi basilicali.Il secolo si chiudeva in Italia con il contributo di Merzario (1893), che dava nuova forza al mito dei maestri comacini, nell'immaginaria continuità di una 'storia artistica di milleduecento anni', ininterrotta dai Longobardi al Neoclassicismo. Si può considerare questo saggio come l'estremo tentativo di mantenere in vita una visione romantica e appassionata del R., di fronte alle fredde analisi, sempre più rigorose, della scuola archeologica. E fu, di lì a poco, il bilancio di Venturi (1902) ad aprire una nuova fase, negando con decisione le fantasie sulla 'leggenda comacina'. Libera dalle strettoie nazionalistiche, dal gusto neomedievale e dall'interesse verso sistemi filosofici astratti, la storia di Venturi offriva per la prima volta una lettura equilibrata del R. italiano, basata sull'osservazione diretta delle opere, senza distinzione tra arti maggiori e minori, nel tentativo di comprendere la rete dei contatti stabiliti con l'Oltralpe. Pochi anni dopo l'allievo Toesca (1912) forniva gli argomenti per riscoprire le radici dell'arte lombarda. Il suo esame non era più centrato sulle architetture, come nella storiografia ottocentesca, ma spostava l'interesse verso le opere figurative, pittoriche e miniate, in gran parte inedite. Il R. lombardo guadagnava così una nuova portata storica, superando i confini del costruito.Sul finire del secolo è il grande sforzo di edizione delle fonti a rappresentare un evento rivoluzionario, guidato dall'autorità della scuola di Vienna. Schlosser (1896) inaugurava una svolta nella medievistica, concedendo al R. uno spazio privilegiato. In Francia i contributi più significativi si collocavano nell'ambito dell'Ecole des Chartes, e Mortet (1911) pubblicava il primo catalogo complessivo di fonti documentarie per i secc. 11° e 12°, un lavoro ancora oggi insostituibile, corredato di ampi commenti in nota e suddiviso per scansione cronologica. Un programma ancora più vasto era portato a termine più tardi da Lehmann-Brockhaus (1938) per la Germania, la Lotaringia e l'Italia, esteso dal regno di Enrico II (1002-1024) a quello di Federico Barbarossa (1152-1190). L'impresa seguiva un primo volume, di più ridotta estensione, dedicato al sec. 10° (Lehmann-Brockhaus, 1935). La scuola era esplicitamente quella di Albert Ilg e di Julius von Schlosser, ma sullo sfondo si riconosceva il modello dei prestigiosi Monumenta Germaniae Historica, che guardavano per l'edizione delle fonti medievali agli estesi confini dell'impero germanico, non senza un interesse politico-ideologico. Il lavoro di Lehmann-Brockhaus fu condotto con criteri rigorosi di classificazione filologica: le 3062 informazioni documentarie sono suddivise per genere artistico ed elencate in ordine topografico, offrendo in un volume finale un apparato ricchissimo di repertori. Dopo la seconda guerra mondiale Lehmann-Brockhaus (1955-1960) completò il suo impegno di edizione delle fonti artistiche con i volumi dedicati all'Inghilterra, al Galles e alla Scozia. Al temine di tali imprese, gli studiosi del R. potevano contare su un ricchissimo repertorio di Kunstliteratur, sempre aperto a nuove integrazioni, ma che copriva ormai gran parte del territorio europeo.All'inizio del Novecento entrò definitivamente in crisi quella visione idealistica degli stili che tanto aveva condizionato la storiografia del secolo precedente, e si tentarono nuove codificazioni e nuove linee interpretative. L'interesse tornò sul tema della nascita del R., ma con un taglio molto diverso da quello ottocentesco. Il dibattito si polarizzò tra i sostenitori delle origini orientali oppure nordiche dello stile. Già Corroyer (1888) aveva proposto di riconoscere nelle chiese siriane dei secc. 6° e 7° una fonte per l'architettura romanica. Nell'ambito della scuola viennese il dilemma fu posto con chiarezza da Strzygowski (1901), che presentava provocatoriamente il R. come l''arte orientale dell'Europa occidentale'. L'Armenia era la regione che avrebbe fornito le soluzioni costruttive e decorative più influenti per la nascita del nuovo stile. In Francia seguì questo filone Baltrušaitis (1931; 1934), puntando addirittura all'arte assira e sumera per riconoscere le origini dei motivi decorativi applicati dagli scultori dell'11° e 12° secolo. Le corrispondenze formali sembravano obbedire a logiche misteriose, indifferenti alle distanze di tempo e spazio. Studiare gli apparati ornamentali apparentemente privi di razionalità, le immagini iconografiche ricorrenti, il gusto per la deformazione e per il grottesco, significava tentare di offrire una spiegazione alternativa ai significati teologici, sulla base di regole compositive formali. Il principale limite di tali proposte rimane la difficoltà di fornire spiegazioni convincenti sui canali di contatto tra Oriente e Occidente, e gli appelli ai Visigoti, ai pellegrini o alle crociate hanno offerto, finora, pochi elementi di riscontro chiaramente documentati. Di grande successo nel periodo tra le due guerre, il tema degli influssi orientali ha conosciuto una certa stanchezza nella critica più recente, e le proposte di Strzygowski e Baltrušaitis attendono ancora di essere riprese e sottoposte a verifica con metodologie nuove.Mentre si sviluppavano le ricerche sugli esotismi dello stile, il tema delle origini del R. trovava una nuova sistemazione nella nascita del concetto di Preromanico (franc. Préroman; ingl. pre-Romanesque; ted. Vorromanik), delineando contestualmente il problema della prima arte romanica (franc. premier art roman; ingl. first romanesque; ted. Frühromanik). Si intendeva così identificare, e pertanto distinguere, le forme artistiche anteriori al sec. 10° da quelle propriamente originarie dello stile. Il protagonista di tale indirizzo fu Puig i Cadafalch, un uomo politico fortemente impegnato nel movimento indipendentista catalano, vicino nella progettazione al modernismo di Antoni Gaudí (1852-1926). Ne derivava un forte sentimento di continuità storica, che la critica troppo spesso non ha preso in adeguata considerazione. Dopo un primo quadro sul R. catalano (Puig i Cadafalch, de Falguera, Goday i Casals, 1911-1918), Puig i Cadafalch (1930) estendeva le sue indagini nel tentativo di riconoscere una 'geografia' del primo R., secondo caratteri omogenei diffusi in una grande fascia dell'Europa centro-meridionale, comprendente la Catalogna, la Provenza, la Svizzera, la Lorena, il Belgio, la Renania, le regioni danubiane, la Lombardia, fino al limite orientale della Dalmazia. L'idea di una fase soltanto preparatoria alla maturità del Gotico fu definitivamente superata, e la massima espansione dell'architettura romanica si riconobbe negli anni 950-1050, condividendo la tesi delle remote origini orientali, nelle regioni della Mesopotamia, della Siria e della Cappadocia. Il raggio delle ricerche diveniva così vastissimo, rompendo i confini delle scuole regionali e dei nazionalismi ottocenteschi. La fotografia, utilizzata in modo sistematico come elemento di confronto, diveniva ora supporto indispensabile. Con Puig i Cadafalch si definì meglio il metodo archeologico elaborato dagli eruditi normanni nel secolo precedente: i monumenti vennero collocati lungo una serie evolutiva, sulla base di analogie formali e strutturali, parallela alla serie cronologica di notizie fornite dai documenti; in un secondo tempo si cercarono le intersezioni tra le due serie e si stabilirono i capisaldi di riferimento. Al centro si trovava l'indagine comparativa, mentre era ormai possibile utilizzare un vasto repertorio di documenti, fornito dai programmi di pubblicazione delle fonti: l'archeologia si univa alla filologia.Nulla di simile era stato tentato fino ad allora per comprendere le origini del R. meridionale, a parte gli studi di Rivoira (1901; 1907) dedicati all'arte lombarda, veri saggi pionieristici, che introducevano in Italia una seria applicazione del metodo comparativo. La stessa strada venne seguita da Porter (1915-1917) nelle ricerche che tracciavano un nuovo quadro, tuttora ineguagliato, della Lombard Architecture. È significativo che, nella prefazione all'edizione francese del suo volume sulla prima arte romanica, Puig i Cadafalch ricordi che lo studioso americano aveva dichiarato di persona una profonda affinità di metodo, riconosciuta immediatamente. Nuove basi di confronto erano ormai stabilite, e anche il Preromanico diveniva oggetto di studi specifici: si registrano, tra Francia e Germania, le due grandi sintesi di Hubert (1938) e di Lehmann (1938). Il ruolo dell'Oriente usciva da queste indagini fortemente ridimensionato: era l'età carolingia a stabilire i modelli più innovativi, endogeni, per lo sviluppo delle arti, potenziando le componenti germaniche.Se Puig i Cadafalch e la sua scuola indirizzavano le ricerche verso l'area mediterranea, nell'Europa settentrionale veniva seguito un percorso parallelo di riscoperta del R. tedesco. Qui l'epoca aurorale venne riconosciuta nell'età ottoniana (Jantzen, 1947; Grodecki, 1958), secondo caratteri che mostrano scarse affinità con i monumenti contemporanei del Meridione. I contatti con la grande storia divengono più evidenti e l'idea di uno stile tedesco unitario per il secolo dell'anno Mille è riflesso nel nome dinastico concordemente applicato a questa fase, autentica erede dell'età dei Carolingi. Le origini della nuova architettura, posta come vuole Grodecki (1958) "au seuil de l'art roman", sono nelle terre del Nord e non in lontani esotismi mediterranei. Mentre nelle campagne catalane e lombarde, nelle valli del Rodano e della Saona, vennero riscoperti edifici di piccole dimensioni, scarsamente documentati e marcati dal tratto distintivo di teorie di archetti e lesene, al Nord fu l'architettura imperiale della Sassonia a imporre la grandiosità di una nuova Raumordnung. Si aprì così il problema dei contatti e degli scambi, in un'epoca in cui l'Italia e la Borgogna entravano nell'orbita tedesca e divenivano province dell'impero: un filone di ricerca ancora molto vivo nell'interesse contemporaneo.La scuola italiana entrava a pieno diritto nei nuovi indirizzi grazie a Verzone, formatosi come ingegnere, che nella sua opera intendeva recuperare la grande lezione di Porter e Puig i Cadafalch, ma anche di Cattaneo e di Rivoira, per riportare l'interesse sul costruito e sulle tecniche comparative. È sintomatico che il lavoro di Verzone (1942) abbracci lo stesso arco cronologico di quello considerato nell'opera di Cattaneo (1888), con l'intento di riprendere e aggiornare quelle ricerche, in base a metodi nuovi. Condizione a priori era stabilita non tanto nella fotografia quanto nel rilievo architettonico, attento agli aspetti archeologici, eseguito di persona dall'autore. Sostanzialmente estraneo alla cultura crociana allora dominante in Italia, Verzone affinava i suoi metodi in una serie di indagini condotte sul campo per alcune aree circoscritte, ricche di resti romanici fino ad allora poco considerati - inizialmente il Novarese e il Vercellese - condotte con attenzione estrema all'edificio nella sua tecnica costruttiva e nelle stratificazioni archeologiche. Tornare alla sostanza strutturale dell'architettura significava il superamento della sua visione come immagine formale, che negli anni Trenta tendeva a imporsi in molti autori. L'interesse si concentrava così sui caratteri empirici della ricerca, recuperando le solide radici della scuola ingegneristica francese, da Viollet-le-Duc a Choisy.Secondo un indirizzo diverso si colloca il contributo di Focillon (1931), approdato tardivamente al Medioevo, aggiornando una formazione rivolta verso altri temi. Lo studioso guardava ai secoli di mezzo nel quadro di una 'biologia delle forme', radicata nella cultura filosofico-letteraria francese e nell'eredità di Henri-Louis Bergson (1859-1941). Attratto dalle esuberanze dell'arte decorativa dei secc. 11° e 12°, egli elaborava una tesi carica di conseguenze: la vera novità del R. consisteva per lui in un rapporto originalissimo instaurato tra l'architettura e la scultura monumentale, un rapporto basato su un equilibrio dinamico. Al momento del suo apice, alla metà del sec. 12°, la scultura non si sviliva in ornamento aggiunto, ma offriva un'arte pensata nella fase di progettazione, in sincronia con l'edificio, realizzando una exacte convenance monumentale. Con l'avvento della statuaria gotica tale equilibrio si spezzò. La visione di Focillon, se pure non totalmente nuova, rappresentava per la lucidità esplicativa una vera svolta, pur rischiando di lasciare fuori da un bilancio del R. sviluppi importanti compresi nell'ambito scultoreo, come l'oreficeria liturgica. D'altra parte le sue ricerche introducevano nell'arte dei secoli 11° e 12° un metodo di analisi derivato dalla cultura tedesca - in particolare dalle ultime posizioni di Alois Riegl (1858-1905) - che interpretava la successione degli stili come un sistema di relazioni formali, rivolgendo l'attenzione al significante più che al significato.A questa visione del 'nuovo formalismo' si opponeva una lettura del sistema dei significati, in chiave di simboli e allegorie di natura religiosa, che trovava in Mâle (1922) il più autorevole sostenitore. La forma non era un fenomeno autonomo dalla storia della cultura, ma l'espressione figurativa di un significato: l'iconografia diventava così il punto di osservazione privilegiato per comprendere l'essenza spirituale dell'arte. Leggere tali sistemi di codici significava tracciare una storia dei rapporti tra le opere figurative e gli sviluppi del pensiero cristiano. Prosecuzioni più recenti si registrano in altri autori francesi (Davy, 1955; Beaujouan, 1961) e tedeschi nel settore dell'architettura (Bandmann, 1951). Un filone di ricerche, che risente oggi di un certo declino, tendeva pertanto a reinterpretare l'arte romanica sullo sfondo delle grandi correnti teologiche e filosofiche che attraversavano l'Europa, dando corpo alla nascente scolastica. Sulla medesima linea si colloca l'idea di Francastel (1942) di riconoscere un 'umanesimo romanico', che sarebbe alla base della rinascita artistica. In opposizione alla scuola di Focillon, la comprensione del R. non poteva basarsi su indagini puramente formali, ma sulla riscoperta - con una certa enfatizzazione - dei rapporti con la renaissance humaniste guidata da Cluny e dal movimento di riforma. Il R. guadagnava così il titolo di umanesimo, portatore anche di valori laici, riconosciuto come una tappa insostituibile nell'evoluzione dell'arte occidentale.Nel dopoguerra la bibliografia sul R. poté contare su grandi tentativi di sintesi, condotti con metodologie che ereditarono ben radicate differenze di orientamenti. Agli eccessi di letture troppo spirituali reagisce Schapiro (1977), difendendo nel R. i caratteri di vitalismo e di spontaneità, di fantasia individuale priva di contenuto religioso. Il risveglio di un sentimento estetico indipendente dal soggetto rappresentato, anche nell'arte ecclesiastica, sarebbe alla base della rinascita romanica. Le analisi puramente iconografiche appaiono devianti perché riducono l'arte a un codice di simboli. In Francia anche il tema sempre vivo delle scuole regionali ha trovato nuova forza in alcuni tentativi di sintesi, con i lavori di Crozet (1962) e di Barral i Altet (Le paysage monumental, 1987), che ha diretto, sempre su base topografica, un programma di ricognizione per gli anni intorno al Mille.La cultura anglosassone ha fornito un punto di riferimento primario con il volume sul R. affidato a Conant (1959). Molti temi cari alla storiografia britannica tornano qui alla ribalta: innanzitutto quello delle ripartizioni stilistiche. Conant formalizzò con metodo una nomenclatura che riconosceva le origini del R. nel mondo carolingio, sottolineando un processo di continuità storica: si parla così di carolingian Romanesque, seguito dal pre-Romanesque (che comprende le architetture irlandesi, anglosassoni e scandinave), e dal protoRomanesque (riservato alle Asturie, alla Spagna mozarabica, all'Italia lombarda e agli esarcati bizantini); il R. vero e proprio è poi suddiviso in first e mature Romanesque. In tale quadro un ruolo fondamentale fu attribuito a Cluny e alla sua scuola (che Conant aveva indagato a lungo dirigendo gli scavi archeologici in Borgogna), e ai percorsi delle vie di pellegrinaggio. Si tratta anche qui di un tema caro alla storiografia inglese, consacrato dai dieci volumi di Porter (1923) dedicati alla Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads. L'intervento successivo di Kubach (1972) può essere letto in parte come una critica alle posizioni di Conant. Lo studioso di Colonia, che curò dopo le devastazioni belliche i restauri di molte cattedrali tedesche, preferì seguire la via tradizionale del percorso per regioni, innestando però su questa traccia l'opposizione fondamentale tra chiesa voltata e chiesa a soffittatura lignea, secondo un duplice binario di classificazione. Un elemento prettamente tecnico, determinante per la statica dell'edificio, diviene così il termine guida per tutta la ricerca. Forti perplessità vennero avanzate contro l'ipotesi di una 'scuola cluniacense', mentre il ruolo delle vie di pellegrinaggio risultava drasticamente ridimensionato, sulla base della semplice considerazione che si conservano chiese romaniche sulla strada per Santiago de Compostela di aspetto interamente autonomo, e d'altra parte ne esistono altre, situate in diversi contesti, che richiamano da vicino quella di Santiago. Per queste teorie si sarebbe di fronte, secondo Kubach, a una delle 'leggende moderno-romantiche della storia'. Il dibattito a distanza tradiva orientamenti divergenti nella lettura del R., che si può dire rimangano vivi nella ricerca e continuino a dare frutti in entrambe le direzioni.La metafora linguistica da cui era nato il concetto di R. ha conosciuto nuova fortuna negli ultimi decenni. Mentre nel secolo scorso l'accento cadeva sul rapporto tra la formazione delle lingue romanze e l'architettura, ora è la scultura che richiama il parallelo, in particolare nella visione proposta da Salvini (1956). La plastica romanica sarebbe nata soltanto nei decenni intorno al 1100, senza continuità con quella ottoniana o bizantina, ma secondo uno sviluppo regionale che richiama quello contemporaneo delle lingue romanze, in una "ricca varietà di dialetti, diversi, ma simili nel loro tratto caratteristico di una lingua di popolo che va organizzandosi in lingua letteraria" (Salvini, 1956, p. 41). Il rapporto con i modelli classici sarebbe analogo a quello instaurato tra le parlate romanze, alla ricerca di dignità letteraria, e la fonte normativa del latino. Ancora una volta, la linguistica ha fornito una traccia per la lettura dei fenomeni artistici.Appare chiaro a questo punto che la nozione di R. è nata nella cultura occidentale in rapporto all'architettura, e l'arte del costruire rimane tuttora l'ambito primo da cui è necessario partire per tentare una sintesi dei caratteri stilistici. La pittura murale, la miniatura e le arti suntuarie sono rimaste - a torto o a ragione - sostanzialmente periferiche nei tentativi di definire questo stile, e soltanto la scultura monumentale ha assunto un ruolo rilevante nella definizione globale del R., ma non prima del termine del sec. 11°, quando già i nuovi caratteri costruttivi si erano da tempo formati.Negli ultimi decenni, a partire dalla critica di indirizzo marxista e dal contributo della Nuovelle histoire di Marc Bloch (1886-1944) e Lucien Febvre (1878-1956), un nuovo interesse si è sviluppato in rapporto ai caratteri sociali dell'arte. Per il R. questo ha significato una riscoperta del panorama storico in cui lo stile è nato, non tanto in rapporto all'histoire événementielle, alla successione di grandi eventi che da sempre avevano fornito la base per le letture cronologiche, ma piuttosto alla struttura sociale in cui si collocavano le imprese costruttive. Ciò ha consentito di riscoprire il R. come prodotto specifico della società feudale nel suo momento di massima espansione. Negli ultimi anni le ricerche si sono rivolte al tentativo di leggere, in maniera più rigorosa rispetto alle prime enunciazioni generali (Hauser, 1955), il ruolo determinante della committenza, laica ed ecclesiastica, nella formazione dei cantieri, e il lento processo di emancipazione delle maestranze e degli architetti come figure professionali autonome (Duby 1966; Warnke, 1976; Claussen, 1991; Tosco, 1997).Molto è stato fatto, grazie agli sviluppi più recenti delle indagini, in rapporto alle singole aree regionali, con il contributo in forte espansione degli scavi archeologici, che riservano uno spazio sempre maggiore anche ai secoli posteriori al Mille. Se la catalogazione e i metodi di datazione hanno compiuto progressi sostanziali, i grandi temi della storiografia del primo Novecento appaiono in declino. I conflitti tra formalismo, strutturalismo e spiritualismo, l'incontro tra Oriente e Occidente, le ipotesi sulle fonti originarie dello stile, non sono più alla ribalta, e un assennato empirismo di metodo storico prevale. Ciò di cui si sente il bisogno oggi è di nuovi tentativi di sintesi dei dati, e tra i più recenti figura quello di Vergnolle (1994), condotto con metodi coerenti e rigorosi per l'intera Francia. Ma è la rete di relazioni sovraregionali e soprattutto sovranazionali che deve essere ripresa, nell'intreccio dei rapporti tra forme artistiche differenti, sulla base dell'organizzazione dei cantieri. In tale prospettiva, l'idea stessa di uno stile romanico europeo può essere sempre considerata un'ipotesi da verificare.
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