romanzi arturiani
. I diversi romanzi narranti le vicende cavalleresche e amorose dei cavalieri della Tavola Rotonda presieduta da re Artù, furono probabilmente noti a D. nel testo originario, cioè nella lingua d'oil; infatti egli ricorda questa letteratura, in VE I X 2, fra i testi in prosa scritti in oitanico, con la nota espressione Arturi regis ambages pulcerrimae. Ambages aveva il duplice significato di " dubia locutio " (Uguccione da Pisa: cfr. Rajna, Arturi regis...) e di " andare errabondo " (cfr. Ovid. Her. VII 149): è probabile che D. volesse alludere tanto alla veste favolosa quanto alle vicende narrate, servendosi tuttavia di un'espressione in uso per tali romanzi, definiti (1313) narrationes ambagicae da Filippo di Bezières (cfr. Novati, p. 281 n. 8, ripreso dal Rajna [op. cit.], che conclude preferendo per ambages il termine " fantasie "). Quanto al pulcerrimae, unico aggettivo qualificativo che anima questa citazione di una così varia e importante letteratura, il Rajna ne riaffermava il valore come giudizio di stima, contrariamente al Novati. A meglio determinare che cosa D. conoscesse di tale letteratura e come la valutasse, servono gli altri " loci arturiani " delle opere dantesche.
Tristano (If V 67) chiude assieme a Paride la schiera delle anime lussuriose ch'amor di nostra vita dipartille: semplice nome, ma di forte risonanza evocativa, significativamente posto in coppia col più famoso innamorato dell'antichità, motivo non ignoto all'iconografia successiva (cfr. La peinture italienne des XIVe et XVe siècles, Museo Nazionale di Cracovia 1961, 56-57; e E. Gabrici - E. Levi, Lo Steri di Palermo e le sue pitture, Milano, s.d.).
Al romanzo Mort Artu rinviano la perifrasi relativa a Mordret (If XXXII 61-62) e il ricordo della conversione a vita religiosa di Lancillotto, là dove - Cv IV XXVIII 7-8 - si sottolinea l'opportunità, in età avanzata, di ritirarsi dal mondo: Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido Montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele de le mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo.
In ambedue i casi i personaggi romanzeschi sono introdotti accanto a personaggi storici con funzione esemplare: lo scellerato Mordret è il primo ricordato nella denuncia di Camicione de' Pazzi, a illuminare l'enormità del tradimento dei fratelli Alberti; Lancillotto compare non più come l'innamorato valoroso, bensì come il savio che si stacca dal suo luminoso ma fallace passato.
Si noti, a conferma di una conoscenza non superficiale della Mort Artu da parte di D., il concentrarsi della morte di Mordret in immagine visiva, secondo un particolare ricordato dal romanzo: " et li rois... le fiert... et li met par mi le cors le fer de son glaive; et l'estoire dit que aprés l'estordre del glaive passa par mi la plaie uns rais de soleill si apertement que Girflet le vit " (cfr. La Mort le Roi Artu, ediz. J. Frappier, Ginevra-Parigi 1954², 245).
Nel canto di Francesca, già i primi commentatori di D. scorsero una condanna morale delle letture romanzesche (cfr. Lana, Benvenuto, Buti, Landino); e alcune più recenti interpretazioni - parallelamente alla riaffermazione anti-romantica della condanna dantesca dei due amanti - hanno sottolineato diversamente l'origine letteraria (cortese e stilnovistica) della distorsione dell'amore impersonata da Paolo e Francesca (cfr. Friedrich, Porena, Contini, Montano, e, per un'utile rassegna critica delle interpretazioni di questo episodio, il Marcazzan).
Il Girard ha anche richiamato, in questo caso, la funzione della lettura in quanto tale, capace di muovere un processo imitativo del quale i due protagonisti restano vittime. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse (If V 137) non è una condanna pronunciata da Francesca (peccatrice impenitente), e non è solo l'eco di una condanna dantesca: è il suggello della vicenda narrata. I due amanti della storia, che si autoidentificano con quelli del romanzo, non sono soli: accanto a loro è il " modello ", il libro cui vengono attribuiti il nome e la funzione di una persona, non senza possibilità di un sottile gioco di coincidenze col reale titolo del romanzo (Galehaut è infatti, in alcune redazioni, il titolo della parte del Lancelot dove si narra l'episodio).
Del Lancelot D. ricorda un unico, culminante momento: la rivelazione del mutuo amore di Lancillotto e Ginevra alla presenza di Galeotto e della dama di Mallehaut. Rievocata da Francesca come la lettura che fu prima radice del suo amore (If V 127-137), questa scena riappare allorché Beatrice, al vananglorioso voi di D. a Cacciaguida, ridendo, parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra (Pd XVI 14-15).
La similitudine fra Beatrice e la dama di Mallehaut è stata variamente interpretata: ora la tosse è cenno d'incoraggiamento (Lana, Anonimo, Buti), ora è un modo discreto per segnalare la propria presenza (Ottimo, Benvenuto, Landino, e in genere i commentatori moderni). Si aggiunga che questo particolare figurava solo in alcune versioni del romanzo francese, una delle quali il Toynbee segnalò per primo pubblicandone un ampio estratto nel 1886. Il testo francese non coincide però pienamente col passo dantesco, perché la dama tossì prima del bacio di Ginevra, generalmente identificato col primo fallo. Di qui nascono le più varie ipotesi: che si alluda non al bacio, ma all'episodio dell'incontro (Farinelli), oppure al già implicitamente colpevole interrogatorio della regina (Zingarelli); che D. conosca una redazione a noi ignota dell'episodio (Aglianò), o ricordi confusamente la vicenda (cfr. Rajna, D. e i romanzi..., che tuttavia scarta poi questa possibilità), o l'abbia liberamente alterata (Parodi). Una comprensibile modificazione potrebb'essere anche la più notevole divergenza fra il Lancelot e il racconto di Francesca: il primo bacio colpevole è dato, nel romanzo, da Ginevra e non da Lancillotto, come vien detto nella Commedia. Alterazione comprensibile, data la più comune concezione dell'amore come avente origine nell'uomo (Zingarelli) e il venir meno - nel caso di Francesca e Paolo - del divario sociale fra Ginevra e Lancillotto, che giustificava l'iniziativa della regina (Crescini). Ma non va sottovalutato il fatto (segnalato dal Rajna [op. cit.], e in seguito dal Bertoni) che un gruppo di codici parla effettivamente di un bacio di Lancillotto.
Non si può - in conclusione - negare che D. abbia conosciuto almeno il Lancelot e la Mort Artu: anzi il ricordo di dettagli, neppur conservati in tutte le versioni, potrebb'essere l'eco di una lettura personale e attenta.
Più difficile è dimostrare una diretta conoscenza del Roman de Tristan: la prova più convincente potrebbe essere, non tanto la sola menzione del protagonista (If V 67), quanto il carattere tristaniano del racconto di Francesca, carattere già indirettamente notato dal Boccaccio (che sviluppava nel suo Comento i casi della coppia di Rimini sulla linea di quelli di Tristano e Isotta), e in seguito sottolineato dal Panizzi (cfr. Toynbee, D. in English Literature, Londra 1909, II 520-521), dal Torraca, dal Farinelli, dal Savj-Lopez, dal Rajna. Di un influsso della Queste del St. Graal non abbiamo alcuna prova, anche se il Rajna giustamente notava una certa generica affinità di atmosfera con la processione degli ultimi canti del Purgatorio.
Anche nell'espressione perduto riferita a Ulisse (If XXVI 84) si è voluta vedere una locuzione di stampo arturiano usata per i personaggi perduti nelle foreste incantate (Rajna, op. cit., pp. 223-227; ma v. anche D.S. Avalle, L'ultimo viaggio di Ulisse, in " Studi d. " XLIII [1966] 39 ss.); con maggior ragione si è invece riconosciuta una suggestione romanzesca nel sonetto Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io, dove la barchetta magica ci riporta fra gl'incantesimi di Merlino, e forse proprio al Roman de Tristan (cfr. Rajna, op. cit., pp. 241-243).
Non è facile, sia pure sulla scorta di queste probabili letture di D., interpretare il reale valore della pur laudativa espressione del De vulg. Eloquentia. Ambages pulcerrimae sembra quasi l'eco dell'ammirazione suscitata nel lettore dal vario e luminoso affresco arturiano, più che un vero e proprio giudizio letterario. D., come ogni persona del suo tempo, conobbe e probabilmente ammirò questa letteratura: ma nella sua opera essa ha una funzione circoscritta, limitata a poche allusioni. Poiché gli accenni della Commedia esprimono per lo più un giudizio negativo, si direbbe che, dopo il Convivio e il De vulg. Eloq., vi sia stato da parte di D. uno spostamento di prospettiva, per l'accentuarsi delle esigenze di una problematica morale. La pietra di paragone per comprendere il giudizio dantesco sui r. arturiani rimane pur sempre il c. V dell'Inferno: non solo perché il Lancelot assume la funzione di personaggio, ma per il complesso rapporto Francesca-Dante. Qui, come ha acutamente osservato il Contini, " è oltrepassato lo stadio dell'amor cortese, della mera probitas, dell'etica mondana che perdura nello stil nuovo e si prolunga nella Vita Nuova. Francesca è insomma una tappa, una tappa inferiore, simpatica... e respinta, dell'itinerario dantesco, tappa della quale è superfluo cercar di distinguere se sia più letteraria o vitale " (cfr. D. come personaggio-poeta, ecc., p. 36). In questa tappa letteraria e vitale D. non solo supera e respinge il mondo dello Stil nuovo facendo parlare Francesca secondo moduli guinizzelliani e stilnovistici; ma ponendole in mano, all'origine della sua colpa, il più famoso dei r. arturiani, supera e respinge tutto il sia pur affascinante mondo della letteratura cortese-cavalleresca.
Cfr. anche le voci CAVALLERIA; ROMANZI CORTESI.
Bibl.-Fondamentali: E.G. Gardner, Arthurian Legend in Italian Literature, Londra 1930, 130-151; Arthurian Literature in the Middle Ages, a c. di R.S. Loomis, Oxford 1959. Si vedano inoltre: P. Toynbee, Dictionary of Proper Names and Notables Matters in the Works of D., Oxford 1898; F. Torraca, Di un commento nuovo alla D.C., Bologna 1899; F. Novati, Vita e poesia di corte nel Dugento, in Arte, Scienza e Fede ai tempi di D., Milano 1901, 251-284; E.G. Parodi, Il canto XVI del Paradiso letto... il dì 23 aprile 1902, Firenze 1933; F. Torraca, Il canto V dell'Inferno, in " Nuova Antologia " 1902 (poi in Studi danteschi, Napoli 1912, 399-442); P. Toynbee, D. e il Romanzo di Lancillotto, in Ricerche e Note dantesche, Bologna 1904, 1-23; A. Farinelli, D. e la Francia, Milano 1908, I 11-20; H. Morf, Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, in " Sitzungber. d. K. preuss. Akad. der Wissenschaften " XLIII (1916); P. Rajna, D. e i romanzi della Tavola Rotonda, in " Nuova Antologia " 206 (1920) 223-247; ID., Arturi regis ambages pulcerrimae, in " Studi d. " I (1920) 91-99; V. Crescini, Il bacio di Ginevra e il bacio di Paolo, ibid. I (1920) 65-90; N. Zingarelli, Le reminiscenze del Lancelot, ibid. III (1921) 5-57; G. Bertoni, Il bacio di Lancillotto, in Studi su vecchie e nuove poesie e prose d'amore e di romanzi, Modena 1921, 175-181; M. Casella, Il canto V dell'Inferno, Firenze 1940; H. Friedrich, Die Rechtmetaphysik der Göttlichen Komödie. Francesca da Rimini, Francoforte sul Meno 1942; G. Contini, D. come personaggio poeta della " Commedia ", in Secoli vari ('300-'400-'500), Firenze 1958, 23-48; M. Marcazzan, Il canto V dell'Inferno, ibid. 1961; R. Montano, Storia della poesia di D., I, Napoli 1962; R. Girard, De la " Divine Comédie " à la sociologie du roman, in " Revue de l'Institut de Sociologie " (Université libre de Bruxelles) II (1963) 263-269; S. Aglianò, Restauro di " Paradiso ", XVI, 1-15, in " La Bibliofilia " LXIX (1967) disp. II.