Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il romanzo del Novecento sperimenta diversi assetti e apporta profonde modifiche alla struttura del genere codificata nel XIX secolo. In opere di autori come Joyce, Rilke, Woolf, Proust, Svevo e Pirandello cambia lo statuto del personaggio, s’indeboliscono i nessi causali e temporali delle trame, mutano le tecniche narrative che consentono ai romanzieri di dare rappresentazione ai moti della coscienza. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la ricerca di nuove strutture si spinge sino alla composizione di veri e propri antiromanzi che infrangono alcune convenzioni formali del genere altamente codificate.
Italo Calvino
Il sentiero dei nidi di ragno
Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico.
Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli.
I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993
Escluso dalle poetiche antiche ed estraneo a ogni vincolo normativo, il romanzo ha conosciuto nell’Ottocento una prospera stagione creativa che ha canonizzato un paradigma romanzesco di successo, fissando temi, forme e tecniche del genere. Il romanzo del Novecento sperimenta la crisi di questo paradigma, si orienta ad altre tradizioni (come quella settecentesca), giunge a configurarsi, nei suoi esiti più radicalmente innovativi, come antiromanzo. L’intero secolo è percorso inoltre da un dibattito sulla crisi del genere, che si spinge anche a diagnosticare la “fine del racconto” nell’età contemporanea (ne parlano Walter Benjamin e Gérard Genette). A scapito di tali previsioni e analisi, nel Novecento si inaugura per il romanzo una nuova fase produttiva, le cui linee di tendenza sono varie e ramificate.
Nella complessa geografia delle letterature europee dell’epoca, sono comprese naturalmente anche opere di indubbia sapienza letteraria che marcano una continuità con la stagione precedente, sviluppandosi nel solco del romanzo ottocentesco. È il caso di una costruzione narrativa come I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (Buddenbrooks. Verfall einer Familie, 1901) dello scrittore Thomas Mann, che si colloca, seppur con l’apporto di innovazioni, nella tradizione del naturalismo. Per quanto riguarda l’Italia, va fatto – tra i molti – il nome di Riccardo Bacchelli che, con Il diavolo di Pontelungo (1927), riattualizza, rifacendosi al modello manzoniano, il genere del romanzo storico e, su questa linea, arriva a produrre l’ampio ciclo Il mulino del Po (1938-1940). Nel corso del secolo, sono d’altra parte numerosi in Europa i filoni di narrativa realista che propongono una tipologia romanzesca più tradizionale rispetto alle sperimentazioni messe in opera da romanzieri coevi. Rientra in questo orientamento un fenomeno come il realismo socialista, al cui programma si conforma a partire dagli anni Trenta un’ampia produzione narrativa, imponente dal punto di vista numerico, meno rilevante se considerata da quello qualitativo. Nascono infatti al di fuori dei canoni di questa dottrina artistica i più riusciti romanzi russi del Novecento, tra cui vanno annoverati Il dottor Zivago (1957) di Boris Pasternak; Il Maestro e Margherita (1966) di Michail A. Bulgakov; Una giornata di Ivan Desinovič (1962) di Aleksandr I. Solženicyn.
Sul versante delle sperimentazioni, risalgono già ai primi decenni del secolo opere che sottopongono a radicali modifiche la struttura del romanzo ottocentesco. La non linearità delle trame, indebolite nei loro nessi causali e temporali, l’assenza di sviluppi epici nelle storie e nei caratteri, la mancanza frequente di un epilogo sono spie di una mutata visione della realtà, non più componibile nella compiutezza della forma. Di pari passo con i cambiamenti intervenuti nello statuto delle scienze umane e della natura, si è modificata nel corso del XX secolo l’idea di spazio e di tempo. Ai romanzieri si aprono inoltre nuovi ambiti di esperienza, come quella interiore dischiusa dall’esperienza della psicanalisi. Sono indubbiamente precorritrici le prove narrative dello scrittore francese Édouard Dujardin che, nel romanzo d’impianto ancora simbolista I lauri senza fronde (Le lauriers sont coupés, 1888), si è misurato per primo con la tecnica del monologo interiore. Ma è solo nel nuovo secolo che i romanzieri esplorano a pieno titolo la psiche dei propri personaggi e perfezionano le tecniche narrative volte alla rappresentazione della coscienza, come lo stream of consciousness che James Joyce mette a punto nell’Ulisse (Ulysses, 1922) e i monologhi interiori che, con esiti multiprospettici, Virginia Woolf realizza in Gita al faro (To the lighthouse, 1927). Più tradizionale nelle tecniche del racconto, ma di grande portata innovativa per la concezione del tempo e della memoria, è la “cattedrale” in sette volumi di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du temps perdu, 1913-1927). In Italia segnano una crisi del personaggio classico i romanzi di Luigi Pirandello che, inserendosi in una tradizione sterniana e umoristica, delineano caratteri divisi e plurimi come quelli degli esemplari protagonisti di Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1925). Caratterizzato da una insanabile inettitudine è il personaggio che Italo Svevo delinea in La coscienza di Zeno (1923), la cui struttura narrativa, come l’Ulisse di Joyce, si compone di capitoli che non rispettano un ordine consequenziale del racconto, ma in cui si rifrange l’intera vita del protagonista, provocando una sovrapposizione di più piani temporali.
Decostruisce l’intreccio del romanzo classico anche Carlo Emilio Gadda che in una delle sue opere maggiori, come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946-1947 su rivista, in volume nel 1957), si rifà al modello del romanzo giallo, ma ne decentra in maniera abnorme la narrazione che prolifera lateralmente rispetto al suo filo principale e non giunge a concludersi con il tipico svelamento dell’enigma. Se da questa rapida rassegna di autori, ormai entrati nel canone della narrativa del Novecento, si passa a considerare la prosa di lingua tedesca della prima metà del secolo, va fatto innanzitutto il nome del poeta Rainer Maria Rilke che, con I quaderni di Malte Laurids Brigge (Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910), ha precorso la dissoluzione sperimentale della forma epica che si compierà in Germania e in Austria grazie a opere di autori come Franz Kafka, Gottfried Benn e Hermann Broch e, parallelamente, in altri paesi europei con la composizione delle grandi epopee moderne di Joyce e Proust. Nel Malte, le pagine di diario del protagonista si strutturano in sequenze che non sono più ordinate, come vorrebbe la misura ottocentesca, secondo una coerenza spazio-temporale, ma trovano il proprio principio organizzatore in libere catene associative. Altro romanzo che introduce innovazioni di carattere strutturale è inoltre Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Döblin, che inaugura l’originale tecnica del montaggio. Rimasto incompiuto e in parte pubblicato postumo è invece L’uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften, 1930-1933) dello scrittore austriaco Robert Musil, esempio paradigmatico di romanzo-saggio, in cui le digressioni etico-filosofiche e la divagazione intellettuale si sostituiscono alla vicenda narrata.
Spostando l’attenzione alla Francia, s’impongono i nomi di André Gide che nei Falsari (Les faux-monnayeurs, 1925) e nel diario che ne ha accompagnato la composizione (Journal des faux-monnayeurs, 1926) ha aperto la strada a una scrittura narrativa che riflette sui propri procedimenti e sulle proprie tecniche, nonché quello di André Breton che con Nadja (1928) ha composto un esemplare romanzo surrealista.
Verso la metà del secolo si fa strada negli ambienti letterari il termine antiromanzo, con cui si designa comunemente l’infrazione di alcune convenzioni formali del genere altamente codificate. Il termine peraltro connota un procedimento non solo moderno, ma intrinseco allo sviluppo storico della forma romanzesca. Una delle prime occorrenze del termine antiromanzo risale infatti al Seicento: in Francia lo usa Charles Sorel per definire il proprio Pastore stravagante (Le berger extravagant, 1624), un’opera che mette in atto una strategia parodica su modello del Don Quijote. Nel Novecento riprende l’idea di antiromanzo e la applica a fenomeni narrativi contemporanei Jean-Paul Sartre, nella prefazione a Ritratto di uno sconosciuto (Portrait d’un inconnu, 1948) della scrittrice Nathalie Sarraute. L’antiromanzo è qui descritto come una tipologia narrativa che “conserva apparentemente i contorni del romanzo”, ma che “agisce per mettere in discussione il romanzo tramite se stesso, per distruggerlo davanti ai nostri occhi nel momento in cui sembra edificarlo, per scrivere un romanzo di un romanzo che non si fa, che non può essere fatto […]”. Modelli del moderno antiromanzo sono per Sartre “le opere di Nabokov, quelle di Evelyn Waugh e, in un certo senso, I falsari” di Gide. A queste va ovviamente aggiunto il Ritratto di uno sconosciuto di Nathalie Sarraute. L’autrice crea in effetti un narratore privo di autorità che enuncia e discute i problemi del racconto nel corso del suo stesso farsi. Si delinea una crisi della rappresentazione che sarà il fondamento anche del nouveau roman, di cui la Sarraute diviene, nel giro di qualche anno, uno dei maggiori esponenti.
La tendenza sperimentale del nouveau roman si profila in Francia negli anni Cinquanta, quando è ormai al tramonto una stagione letteraria nata nel decennio precedente sotto il segno dell’esistenzialismo che ha prodotto opere di indubbio valore come Lo straniero (L’étranger, 1942) e La peste (1947) di Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957. Movimento eteorogeneo che rifiuta l’appellativo di “scuola”, il nouveau roman annovera tra i suoi principali esponenti, oltre a Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet e Michel Butor.
Brillante teorico del gruppo è Robbe-Grillet che in una serie di saggi (Pour un nouveau roman, 1963) ha enunciato i cardini della nuova poetica, a partire da due presupposti: la critica al romanzo della tradizione realista che ha riversato sul mondo degli oggetti le proprie proiezioni, compiendone così una deformazione soggettiva; il rifiuto inoltre dell’engagement dello scrittore. Robbe-Grillet chiarisce infatti come l’artista non debba proporsi qualcosa da dire, ma piuttosto concentrarsi su come qualcosa possa essere detto. Il nouveau roman mira a una rappresentazione priva di soggettivismi, in cui la presenza dell’uomo sia ridotta alla funzione di occhio, simile all’obiettivo della fotografia e della macchina da presa (da qui la denominazione del gruppo anche come école du regard). L’ordine del racconto tradizionale deve essere infine superato, a favore di una scomposizione e di una organizzazione straniante degli schemi narrativi. Sulla base di questi intenti programmatici Robbe-Grillet compone i romanzi Le gomme (Les gommes, 1953), La gelosia (La jalousie, 1957), Nel labirinto (Dans le labyrinthe, 1959) e Progetto per una rivoluzione a New York (Projet pour une révolution à New York, 1970). Partendo da una condivisione di massima di questo programma, ma dando anche un contributo teorico proprio (Essai sur le roman, 1960), Michel Butor sperimenta nelle sue opere diverse tecniche narrative, come il racconto in seconda persona plurale nel romanzo La modificazione (La modification, 1957) e la scomposizione dei piani temporali nell’originale giallo L’uso del tempo (L’emploi du temps, 1956). In Francia, negli anni Sessanta e Settanta, un gruppo di intellettuali e scrittori intorno alla rivista “Tel Quel” spinge ulteriormente la ricerca formale che ha operato il nouveau roman. Tra questi si trova Philippe Sollers, autore del saggio La scrittura e l’esperienza dei limiti (L’écriture e l’expérience des limites, 1971) e dei romanzi H (1972) e Paradiso (Paradis, 1980), in cui culmina una ricerca espressiva che afferma la completa autonomia del linguaggio (e del testo) rispetto alla dimensione referenziale.
Accanto al radicalismo di queste sperimentazioni, che si muovono evidentemente nel campo dell’antiromanzo, la narrativa europea del secondo Novecento presenta anche strutture d’impianto più tradizionale. Pone l’accento sull’esigenza di un impegno dello scrittore, il movimento letterario che nella Germania dell’immediato dopoguerra si è riunito sotto il nome di Gruppo 47. Tra i narratori che vi hanno preso parte si segnala Heinrich Böll – premio Nobel per la letteratura nel 1972 – che, dopo i primi racconti e romanzi che si confrontano con il tema del conflitto bellico, passa all’impiego di toni satirici nel corrosivo Opinioni di un clown (Ansichten eines Clowns, 1965) e dà una delle sue prove migliori nell’affresco sociale e storico, percorso da una critica al nazismo, Foto di gruppo con signora (Gruppenbild mit Dame, 1972). Aderisce al Gruppo 47 anche Günter Grass – premio Nobel nell’anno 2000 – che si afferma internazionalmente con il romanzo Il tamburo di latta (Die Blechtrommel, 1959), prima parte della trilogia di Danzica che si compone inoltre del racconto Gatto e topo (Katz und Maus, 1961) e del romanzo Anni da cani (Hundejahre, 1963). Caratterizzata da uno stile plastico, dalla forte capacità evocativa, la prosa di Grass si inserisce in una tradizione che annovera Alfred Döblin tra i propri autori canonici (un debito verso l’autore di Berlin Alexanderplatz è d’altra parte apertamente ammesso nello scritto Sul mio maestro Döblin, 1967). La produzione narrativa di Grass – sino alle prove più recenti come il romanzo sulla riunificazione tedesca In un campo vasto (Ein weites Feld, 1995) – si connota per la scelta di tematiche legate alla storia e alla realtà attuale della Germania, nonché per un constante impegno inteso da Grass come esercizio di un vigile senso critico nei confronti del passato e del presente storico. Scrittrice austriaca che ha preso parte al Gruppo 47 è Ingeborg Bachmann, affermatasi soprattutto come poetessa, ma autrice anche di racconti e del romanzo Malina (1971).
Tra i maggiori narratori austriaci del secolo, va però soprattutto ricordato Thomas Bernhard che, già con il romanzo d’esordio Gelo (Frost, 1963), si è imposto all’attenzione della critica internazionale. Nelle sue opere più riuscite come Il nipote di Wittgenstein (Wittgensteins Neffe, 1982) ed Estinzione (Die Auslöschung, 1986), Bernhard perfeziona la tecnica del monologo che giunge a dispiegarsi come una partitura percorsa da un motivo dominante, di volta in volta sottoposto a brevi variazioni e ossessivamente replicato. La malattia nelle sue manifestazioni fisiche e psichiche, gli spunti polemici nei confronti della società austriaca, un cupo nichilismo stemperato in una atmosfera tragicomica sono i temi portanti della prosa bernhardiana.
Domina nell’Italia del dopoguerra la narrativa del neorealismo, cui tuttavia è solo in parte ascrivibile la produzione di alcuni scrittori – tra i più validi del periodo – come Elio Vittorini, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. Se Vittorini e Pavese elaborano originali poetiche che fanno approdare la loro narrativa a una sorta di realismo mitico, nel Partigiano Johnny (edito postumo nel 1968), Fenoglio tratta il tema della Resistenza come i neorealisti, ma senza intenti documentari ed edificanti, ricorrendo inoltre a un particolarissimo impasto linguistico che si fonda sulla mescolanza di italiano e inglese. Si avvicinano invece in questi anni al neorealismo il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli (1945) e un autore già affermato come Alberto Moravia che, nel 1947, pubblica La ciociara, per tornare tuttavia ben presto con La noia (1960) al romanzo di ambientazione borghese, arricchito di suggestioni esistenzialiste. Al neorealismo può essere invece ricondotto Il sentiero dei nidi di ragno (1947), il primo romanzo di Italo Calvino, narratore che negli anni seguenti accoglie la “sfida del labirinto” e sperimenta nuove poetiche del romanzo. Risale agli anni Cinquanta la composizione della trilogia I nostri antenati (Il visconte dimezzato 1952, Il barone rampante 1957, Il cavaliere inesistente 1959), in cui Calvino concilia invenzione e razionalità, elementi fiabeschi e giocosi con una ricerca morale e razionale; si collocano nei decenni successivi le sperimentazioni combinatorie del Castello dei destini incrociati (1969), la calcolata costruzione delle Città invisibili (1972) e infine la soluzione metanarrativa, che è in parte debitrice alle più moderne teorie semiotiche, di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Anche il romanzo italiano, come quello francese, conosce negli anni Sessanta una fase di intenso sperimentalismo. Al decennio risale tra l’altro la nascita del Gruppo 63 che dà un nuovo impulso alle discussioni di carattere teorico e crea i fondamenti per l’elaborazione di alcuni romanzi di rottura – veri e propri antiromanzi – come Capriccio italiano (1963) di Edoardo Sanguineti, Tristano (1966) di Nanni Balestrini e Partita (1967) di Antonio Porta. Partecipa al Gruppo 63, anche Giorgio Manganelli, che, con Hilarotragoedia (1964), inaugura una straordinaria fase creativa, inserendosi nella tradizione swiftiana e rinnovando in Italia la linea della letteratura metafisica. Esce inoltre nel 1963 la prima edizione di Fratelli d’Italia (1976, 1993) di Alberto Arbasino, romanzo che ingloba materiali vari e stereotipi dell’attualità, secondo la tecnica del patchwork. Le sperimentazioni proseguono durante i decenni conclusivi del secolo e sono da ascrivere ai nomi di Luigi Malerba, Paolo Volponi, Adriano Spatola, Gianni Celati, Umberto Eco, Pier Vittorio Tondelli e altri protagonisti che contribuiscono a declinare la molteplice fisionomia del romanzo novecentesco.