Romanzo
di Philippe Hamon, Jean-Pierre Morel
Romanzo
sommario: 1. Introduzione: racconto fantastico, letteratura, romanzo. 2. Il romanzo come enunciato. a) Il romanzo come genere e come tipo. b) Il romanzo come racconto. 3. Romanzo e personaggio. a) Il personaggio-segno. b) Il personaggio-eroe. 4. Il romanzo come enunciazione. a) Lo stile del racconto. b) L'immagine del narratore e del destinatario nel testo. c) Romanzo, realtà, ideologia. 5. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione: racconto fantastico, letteratura, romanzo
Definire termini come ‛letteratura', ‛prosa', fiction, ‛romanzo' non è cosa semplice. Tutti questi concetti si implicano a vicenda, senza peraltro che tale implicazione sia evidente, ne sempre necessaria: infatti non ogni romanzo né ogni prosa sono obbligatoriamente fiction; né d'altronde ogni fiction - per esempio un sogno - è necessariamente letteratura, ecc. Qui si mescolano inestricabilmente problemi filosofici (il vero e il falso, il reale e l'immaginario), estetici (il gusto, il bello e il brutto, la distinzione dei generi), linguistici (la norma e lo scarto dalla norma, ciò che è linguistico e ciò che è stilistico), impedendo spesso la possibilità di elaborare teorie coerenti. Si può nondimeno affermare che una ‛teoria del romanzo' presuppone senza dubbio, innanzitutto, una teoria generale della ‛letteratura'. Ora, i sociologi ci dicono che ogni società si può definire secondo il suo modo di produrre, catalogare, gerarchizzare, commentare i propri testi, e in particolare una certa classe di testi definiti come ‛letterari'; ma è proprio quest'ultima nozione che ci pone in difficoltà, poiché ci si accorge rapidamente che il problema di definire tale nozione non si pone dovunque negli stessi termini. In certi paesi, in certe culture, la letterarietà di certi tipi di testi è immediatamente riconosciuta per il fatto che i testi in questione: 1) utilizzano una ‛lingua' particolare; 2) sono custoditi e declamati da ‛narratori' particolari (narratori ufficiali, per esempio); 3) sono recitati e recepiti in ‛luoghi' particolari e 4) in ‛momenti' ben precisi dell'anno; 5) trattano di ‛contenuti' particolari. La situazione è molto differente in altre culture, come quelle per esempio del mondo occidentale moderno, dove il testo letterario in generale e il romanzo in particolare si lasciano definire meno facilmente (non importa chi, quando, e con quale linguaggio possa scrivere un testo, e non importa dove e da chi questo testo sarà fatto oggetto di consumo e di quale tema tratti), sebbene sussista sempre la tendenza a marcare, ritualizzare e istituzionalizzare la produzione di certi testi, definiti quindi come ‛diversi' (è questo il ruolo delle Accademie, dei poeti ufficiali, dei premi letterari, della critica, dei manuali, e soprattutto dei sistemi di istruzione). D'altra parte, se si considera da un punto di vista storico la nozione di letteratura, ci si accorge come abbia subito molte variazioni. Certe epoche considerano come letterari testi che le epoche successive o precedenti considerano come storici, o filosofici, o poetici ecc. All'interno del campo letterario si opera continuamente una ridistribuzione: così, per es., l'apparizione di Kafka crea i precursori di Kafka, la riscoperta di R. Roussel crea la scuola rousselliana ecc.; mentre altre frontiere, anch'esse fluttuanti, separano e ridistribuiscono periodicamente la ‛grande letteratura' (i classici), la ‛sottoletteratura' o ‛letteratura popolare'. Ma, se non è cosa facile definire la letteratura in generale, altrettanto difficile è definire la fiction, né abbiamo criteri soddisfacenti per definire la letteratura grazie al suo aspetto di fiction. Tutto può essere ‛falso' in un romanzo, tranne il romanzo stesso. In quanto testo stampato, in quanto evento linguistico storicamente determinato, esso può aver fruttato al suo autore gloria o guai giudiziari, può avergli apportato, da vivo, denaro o disinganni, può esser servito come simbolo a una generazione intera che in esso si è riconosciuta, esser stato inserito in circuiti di commercializzazione o di istruzione; insomma esso è stato altrettanto ‛reale' di una battaglia o di un crack in Borsa.
Infine, definire il ‛romanzo' direttamente, come genere letterario, appare altrettanto malagevole, soprattutto nella nostra epoca. In Francia, per esempio, roman indica, prima del sec. XIII, un racconto di avventure più o meno favolose, composto in versi e in lingua ‛volgare' (si opponeva dunque nettamente alla lingua del libro, alla lingua nobile, il latino) e recitato oralmente con accompagnamento mimico e musicale. A quell'epoca, dunque, il romanzo possedeva una ‛forma' e ‛marche' caratteristiche (lo stesso vale per il romancero spagnolo); ma tali marche si cancelleranno rapidamente, sebbene il termine romanzo roman sia rimasto. L'erudito francese P.-D. Huet definisce così i romanzi nel suo Traité de l'origine des romans (Paris 1678): ‟Storie finte di avventure amorose, scritte in prosa con arte, per il diletto e l'istruzione dei lettori". Non è quindi sorprendente vedere le molte esitazioni e oscillazioni delle diverse teorie nel loro tentativo di caratterizzare il genere ‛romanzo'.
Quattro tendenze, successive o concomitanti, hanno dominato l'elaborazione teorica.
1. Il romanzo può esser definito (e la letteratura in generale) secondo il grado di verosimiglianza rispetto alla realtà, cioè in termini di ‛mimesi' (Auerbach). Il romanzo diviene dunque un ‛concorrente dello stato civile' (Balzac), uno ‛specchio' (Stendhal), o una ‛finestra' aperta sul mondo reale (Zola).
2. Il romanzo può essere definito secondo il grado di partecipazione di una personalità prestigiosa (l'autore) ai suoi ‛personaggi', cioè in termini di soggetto, di psicologia, di ‛persona', di possesso, di compensazione, di espressività, ecc. Il romanziere diventa allora, per esempio, qualcuno che crea i personaggi in tutte le infinite direzioni possibili (A. Thibaudet).
3. L'opera, e il suo valore, sono definiti in termini di ‛conformità' o di ‛scarto' rispetto a una serie di regole, a loro volta illustrate da un piccolo numero di testi privilegiati (i modelli, i classici). E, in generale, l'ottica delle retoriche classiche (Aristotele) e neoclassiche (C. Ch. Du Marsais, H. Blair). Tali retoriche, vive e influenti in Europa da Gorgia all'Ottocento, rappresentano uno sforzo teorico considerevole. Di là dalle loro differenze, si presentano tutte come discipline ‛normative': definiscono gerarchie tra le opere, i generi, gli stili. Per esempio, il romanzo o è stato per lungo tempo ignorato dalle diverse ‛poetiche', o ha rappresentato l'oggetto di specifiche condanne (composto da e per donne, nella Francia secentesca è ritenuto un genere ‛femminile'. Dante, nel V canto dell'Inferno, fa di Francesca da Rimini una vittima dei ‛romanzi' francesi). L'epopea, la tragedia, la poesia rimangono a lungo i generi prestigiosi per eccellenza, anche se alcune compilazioni di libreria (La Bibliothèque Universelle des Romans, 112 volumi, Paris 1775-1789) provano l'interesse del pubblico per questo genere. Alcuni scrittori novecenteschi, come P. Valéry o i surrealisti, si mostrano ancora poco teneri nei confronti del romanzo. Quanto poi alla lingua corrente, quella di tutti i giorni, è noto ch'essa dà spesso una connotazione peggiorativa, per esempio, all'aggettivo ‛romanzesco'. Inoltre, le retoriche si presentano sotto forma di nomenclature atemporali di figure e di tropi che hanno tutti un valore, un senso, un registro, un uso e una funzione ben determinati e fissi; ma il funzionamento globale del testo nella sua interezza è generalmente ignorato, soprattutto nel Sei - o Settecento, quando i retori - come pure l'opera dal titolo interessante Essai sur le récit (Paris 1776) di Bérardier de Batant - si interessano pressoché unicamente all'elocutio (la scelta delle diverse figure), a scapito della dispositio (la disposizione e l'ordinamento globale del testo) e di una riflessione sui ‛generi'. La narratio, per esempio, è considerata solo come un momento obbligatorio, privo di autonomia, dei discorsi dell'oratore, e le retoriche moderne (v. Dubois e altri, 1970) saranno tutte obbligate ad aggiungere un capitolo speciale sulle strutture narrative.
4. Talvolta, infine, i teorici, traendo la conclusione logica delle loro esitazioni e della loro impotenza a definire le lezioni di fiction, ‛letteratura' e ‛romanzo', definiranno quest'ultimo come un genere non caratterizzabile, genere ‛bastardo', ‛proteiforme', ‛amorfo', ‛imperialista' (Thibaudet), in quanto può divorare e integrare tutte le altre forme, tutti gli altri generi, essendo esso stesso genere per eccellenza critico e ‛dialogico' (M. Bakhtine), e di conseguenza genere non classificabile perché continuamente ‛nuovo' (vedi lo spagnolo novela, il francese nouvelle, l'inglese novel, senza parlare del nouveau roman francese degli anni cinquanta, denominazione significativamente tautologica...). Le teorie moderne del romanzo si sforzeranno di evitare quest'ultima aporia, definendo per esempio il romanzo come ‛racconto', e, in generale, tenteranno di opporsi alle prime tre tendenze (il romanzo come riflesso del ‛reale', come riflesso di un ‛progetto', come osservanza di una ‛regola') sia criticandole vigorosamente, sia riformulandole alla luce della linguistica (v. Dubois e altri, 1970; M. Riffaterre, R. Barthes, G. Genette), sia completandole (E. Auerbach, G. Lukács, I. Watt) tramite la dimensione storica e sociologica che quelle ignoravano. In effetti, né la ‛norma retorica', nè il ‛reale', né il ‛genio' sono entità sufficientemente stabili ed elaborate, o immuni da variazioni ideologiche, perché sulla loro base si possano costruire teorie rigorose (è noto per esempio che ogni rivoluzione, ogni manifesto teorico del romanzo si è fatto nel nome del - o di un - ‛realismo'). Un tratto rilevante delle teorie moderne sarà quindi un certo sospetto nei confronti dei concetti summenzionati.
Nel Novecento, presso i teorici della letteratura e del romanzo, si è imposta poco a poco la convinzione secondo cui non è tanto l'‛oggetto' (la folla dei romanzi prodotti) che deve imporre le teorie, ma il ‛punto di vista originale' sull'oggetto. In realtà, a ben considerare il fenomeno romanzo, è evidente come esso non costituisca un oggetto semplice, ma, al contrario, un oggetto complesso, tale che nessuno può rivendicarne la proprietà esclusiva: a) come ‛oggetto estetico' (come letteratura), come opera, un romanzo genera giudizi di valore, glosse, ermeneutiche diverse, ed è innanzi tutto al sociologo o all'antropologo che esso pone acutamente il problema del suo status istituzionale ed economico (il suo status di oggetto culturale sopravvalutato, il suo mercato, la sua diffusione, il suo insegnamento, la sua censura ecc.); b) come ‛incrocio narcisistico' (in cui l'autore, il lettore e l'interprete si scambiano reciprocamente un'immagine lusinghiera di se stessi); c) come supporto di un'‛euforia' estetica, ma anche come discorso in cui lo scrittore come il lettore si vedono messi di fronte al loro desiderio, si aprono cioè all'ordine simbolico (‟ogni verità [...] si avvera in una struttura di fiction", dice Lacan), il romanzo interessa lo psicanalista; d) come ‛evento' e ‛documento' il romanzo trasmette un'informazione, e interessa soprattutto gli storici, che si pongono il problema di sapere come trattarne, catalogarne e tradurne il contenuto; e) infine, come ‛oggetto linguistico', il romanzo pone il problema della sua definizione (criteri della letterarietà, distinzione rispetto alla lingua standard, ecc.) a filologi, linguisti e cultori di retorica. Ora, il nostro secolo si caratterizza appunto per l'ascesa della psicanalisi (Freud), delle scienze sociali (Marx, Mauss) e della linguisùca (de Saussure), al rango di scienze o di discipline autonome, mentre altre discipline, come l'estetica, lanciano i loro ultimi bagliori (Croce) o passano in secondo piano. In altre parole, gli specialisti della letteratura si vedono sempre più espropriati del loro dominio, che diviene una specie di incrocio pluridisciplinare dove ciascuna teoria ritaglia il proprio oggetto secondo il punto di vista che le è proprio. Si presentano allora due rischi: 1) poiché il romanzo non ha più ‛proprietari' esclusivi (il professore di lettere ottocentesco), ci si può rifugiare nell'enciclopedismo o nell'eclettismo, e, per render conto di volta in volta della funzione, del funzionamento e dell'uso dell'oggetto studiato, ci si sforzerà di essere di volta in volta sociologo, storico, psicanali sta o linguista; 2) si fa del romanzo un oggetto senza ‛proprietari' e senza criteri distintivi, escludendolo dalle tipologie (è la posizione dei cultori di retorica): emerge allora un relativismo generalizzato (tante letture quanti lettori, tante teorie quanti teorici, tanti generi quante opere, tante interpretazioni quanti interpreti), oppure si lascia il campo unicamente all'‛intuizione' (Croce).
Costruire una teoria del romanzo presuppone senza dubbio e in primo luogo il tentativo di evitare questi due scogli e la messa tra parentesi (o il rinvio ad altre discipline) del romanzo: a) come ‛mezzo di conoscenza' psicologica (mezzo per conoscere l'uomo, l'animo umano, l'uomo eterno ecc.); b) come ‛evento' e documentazione storici (mezzo di conoscenza di un'epoca); c) come ‛sintomo' (mezzo per conoscere una biografia, una psicologia individuale, un autore); d) come ‛oggetto pedagogico' (da commentare o imitare o ammirare; mezzo per plasmare il gusto e per istruire).
Nei casi suelencati, sia la letteratura in generale che il romanzo in particolare hanno sempre un'importanza secondaria, come mezzi rispetto ad altri obiettivi; non rappresentano mai un fine in sé, un oggetto di conoscenza in sé. In un secondo momento la teoria dovrà dunque definire se stessa con grande esattezza, e precisamente attraverso gli ‛scopi' che si propone. Per esempio, da una parte ci sarà l'intento di collocare il romanzo nell'ambito di una tipologia generale dei testi nonché di costruire una tipologia propria del romanzo (tali tipologie, basate su criteri formali, saranno differenti dalle nomenclature normative ed estetiche della retorica, o dalle classificazioni secondo scuole, tematiche e generi tradizionali, fatte generalmente sulla base del contenuto: si veda la distinzione tra romanzo d'avventure e romanzo psicologico, romanzo realistico e romanzo fantastico, ecc.). Dall'altra parte, si tenterà di costruire una ‛storia' del genere ‛romanzo' cioè la ‛storia dell'idea stessa di romanzo', storia che sarà differente dalla semplice storia tradizionale della letteratura, che spesso si limita a registrare filiazioni, a stabilire cronologie, a definire evoluzioni, senza rimettere in discussione gli oggetti o le categorie con le quali opera. Stabilire tali direzioni di ricerca significherà definire una teoria esigente e coerente accanto, e di fronte, ad altri approcci (l'ermeneutica, la critica impressionistica, la filologia, la lettura-fruizione ingenua ecc.). Inoltre, nella misura in cui il romanzo si presenta come un fenomeno linguistico (atto linguistico individuale, ma anche modello di stile e di lingua collettiva), ogni teoria del romanzo dovrà stabilire rapporti privilegiati con le diverse teorie linguistiche contemporanee. Ora, agli inizi del nostro secolo si è verificato uno sconvolgimento profondo nella linguistica (de Saussure), che ha promosso un rinnovamento teorico. Quattro scuole si sono distinte, agli inizi del secolo, per la portata delle loro riflessioni: 1) la scuola dei formalisti russi (V. B. Šklovskij, B. V. Tomaševskij), attiva in Russia dal 1915 al 1925, e seguita poi dal circolo linguistico di Praga e da quello di Tantu. Alcuni scrittori e teorici francesi (Valéry) sono molto vicini al movimento formalista (v. Erlich, 1955; v. Eco, 1969); 2) la scuola filologico-morfologica tedesca (A. Jolles, E. R. Curtius, L. Spitzer ecc.); 3) la scuola angloamericana del new criticism (J. C. Ransom, Ch. W. Brooks, R. P. Warren, I. A. Richards); 4) lo strutturalismo francese (R. Barthes, A. J. Greimas, G. Genette, T. Todorov) a partire dal 1960. Questo gruppo è contemporaneo degli autori del nouveau roman (N. Sarraute, A. Robbe-Grillet, M. Butor ecc.) che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno sviluppato riflessioni teoriche proprie.
Queste quattro scuole teoriche, di là dalle numerose differenze, hanno in comune la preoccupazione di incentrare la teoria della fiction sul ‛testo' stesso (è il principio della ‛lettura immanente', della dose reading), come anche la preoccupazione (eccezionale presso il new criticism, netta e ben affermata nello strutturalismo francese) di ispirarsi a certi postulati e metodologie della linguistica e della semiologia contemporanea, e infine la volontà di definire il romanzo in termini di ‛costruzione', di ‛comunicazione' (linguistica), di ‛tipi', di ‛livelli di descrizione' e di ‛procedimenti' (e non, per es., in termini di ispirazione o di intuizione).
2. Il romanzo come enunciato
Analizzare il romanzo come ‛enunciato' significa esaminarlo nel suo aspetto essenzialmente linguistico, cioè come la manifestazione (sotto forma di una sequenza di frasi) di un modo particolare di funzionamento della lingua, sottoposto ai vincoli di un certo tipo di organizzazione (il ‛racconto') e a quelli imposti dai diversi ‛generi'. Ciò significa considerare il romanzo come un sistema logico-semantico autonomo, di cui si descrive l'ordinamento interno. Studiare il romanzo come ‛enunciazione' (v. cap. 4) significa considerarlo come un atto, come un processo di comunicazione che mette in gioco un narratore, più o meno esplicito, un lettore, il commento del narratore sul suo messaggio, e una serie di codici comuni a entrambi che risultano da una pratica storicamente e ideologicamente determinata.
a) Il romanzo come genere e come tipo
Definire un oggetto significa classificarlo, cioè opporlo ad altre classi di oggetti considerati differenti, e quindi definirne specie, e sottocategorie, e ciò sulla base di criteri giudicati pertinenti e stabili. Si è visto che la maggior parte delle teorie del romanzo hanno avuto difficoltà a trovare tali criteri, tanto più che la tradizione non sembrava aver trasmesso che poche opere (Dafni e Cloe, L'asino d'oro, la satura latina, i racconti della tradizione milesia) suscettibili di servire da modello e di adattarsi ai criteri del ‛buongusto'. La tripartizione classica di genere ‛lirico' (parla solo il poeta), ‛epico' (parlano poeta e personaggi), e ‛drammatico' (parlano solo i personaggi) permette, in prima approssimazione molto generale, di definire il romanzo come un sottogenere derivato dall'epopea. In effetti, tanto il romanzo quanto l'epopea non possono fare a meno del linguaggio, mentre il dramma, come caso limite, può farne a meno per privilegiare il gesto, il grido e la mimica. D'altra parte, il romanzo e il dramma insieme si oppongono al testo lirico per il fatto di ‛riferire' anziché ‛intervenire', di ‛raccontare' una storia compiuta anziché ‛commentare' un mondo presente e contemporaneo (H. Weinrich). H. Fielding definisce il romanzo ‟epopea comica in prosa", e Hegel ‟epopea moderna borghese". Ma quando si tratta di elaborare dei sottogeneri distinti, sopravviene l'arbitrario: le classificazioni sono fatte talvolta secondo vaghi criteri di lunghezza (si oppone allora roman a nouvelle in francese, short story a novel in inglese, Roman a Kurzgeschichte in tedesco, ecc.), o secondo criteri tematici, il che determina classificazioni continuamente aperte e riadattabili (si oppone allora romanzo esotico a romanzo provinciale, romanzo psicologico a romanzo d'avventura, romanzo borghese a romanzo aristocratico, romanzo storico a romanzo fantastico, ecc.). Per andare oltre, sarà utile e necessario distinguere e combinare l'approccio al romanzo inteso come ‛genere' e l'approccio al romanzo inteso come ‛tipo'. Il genere (quello romanzesco in generale e ogni sua sottoclasse in particolare) è una variabile definita come un insieme di convenzioni retoriche e sociali ammesse in un'epoca ben determinata, le quali impongono all'autore una serie di prescrizioni (per esempio l'happy end per il feuilleton, l'invulnerabilità dell'eroe per il romanzo d'avventure o poliziesco: è noto il caso di Conan Doyle obbligato a resuscitare il suo eroe Sherlock Holmes), e al lettore un ‛orizzonte di attese', dei binari di prevedibilità che troveranno nelle opere un riscontro più o meno completo. Il nome dell'autore, quello dell'editore e della collana, il titolo, il sottotitolo, la prefazione, l'epigrafe, le prime righe del testo (l'incipit), le citazioni di altri testi, sono i luoghi e i mezzi privilegiati per stabilire, il più rapidamente possibile, l'orizzonte di attese. Globalmente il romanzo, in quanto genere, si opporrà senza dubbio (G. Dumezil, Cl. Lévi-Strauss) all'epopea e al mito, suoi antenati, anzitutto ed essenzialmente per i seguenti tratti: 1) per la creazione di un mondo ‛originale', ‛nuovo', differente da quello dell'epopea, in cui si pone l'accento soprattutto sugli ‛archivi' collettivi, su un'origine e su un passato già noti alla comunità; 2) per l'antropomorfizzazione dei personaggi e la focalizzazione su eroi individuali (v. cap. 3) storicamente determinati, anziché su gruppi o su ordinamenti gerarchici atemporali; 3) per il ruolo dominante (R. Jakobson) riservato all'illusione referenziale (il suo ‛prosaicismo', il suo ‛realismo'); 4) per l'importanza riservata all'esposizione particolareggiata delle motivazioni e delle trasformazioni psicologiche dei personaggi; 5) per la scelta preferenziale di durate temporali brevi, orientate e socializzate (successione delle ore del giorno, dei giorni del mese e della settimana, di anni, secondi, minuti) anziché di ritmi naturali (l'‛eterno ritorno', cicli, stagioni); 6) per la posizione di rilievo riservata alla descrizione dei luoghi e ai dialoghi dei personaggi; 7) per il carattere non anonimo della sua trasmissione, che è scritta e in prosa; il fatto che l'apparizione del romanzo di tipo ‛moderno' coincida più o meno con la diffusione generalizzata e meccanizzata della scrittura non è senza dubbio un caso. Il testo scritto, libero dalla schiavitù della trasmissione orale e dalle restrizioni imposte dalla memorizzazione (da cui l'uso del metro, dei ritmi, delle rime, delle ripetizioni, dei parallelismi ecc., al fine di strutturare l'enunciato orale), si può presentare in maniera meno ‛marcata', in una prosa più flessibile e meno soggetta a regole, senza strutture e forme fisse evidenti; 8) per la sua forma espositiva al passato, fattore che caratterizza il testo del romanzo come compiuto, concluso. Il francese, per es., ha riservato una delle sue forme del passato - il passato remoto - alla letteratura romanzesca; 9) per il fatto che la sua fruizione ha natura privata, estetica, e ha spesso luogo una sola volta.
Non tutti i suddetti tratti, ovviamente, sono necessari e neppure sufficienti, in quanto servono a circoscrivere tanto una ‛cultura' (il mondo occidentale moderno, borghese, democratico, individualista e liberale) quanto un genere (tale coincidenza è già stata sottolineata varie volte, per es. da Hegel e Lukács). All'interno del genere-romanzo si possono distinguere una serie di sottogeneri, classificandoli in base al tipo di eroe messo in scena, e poi in base al grado di fiction esplicitamente dichiarato, lungo una gamma che va dal ‛fiabesco', genere ‛puro', in cui non c'è alcun riferimento al reale, al realismo ‛stretto' (altro genere ‛puro'), passando attraverso tutti i sottogeneri intermedi che dosano l'oscillazione tra il reale e il fiabesco (il fantastico, l'insolito: v. Todorov, 1970 e la distinzione novel/romance per gli inglesi). In seguito, si potrà mettere tali sottogeneri in correlazione con ‛forme semplici' (Jolles) siano archetipi popolari e universali (l'enigma, il proverbio, il motto di spirito) o categorie grammaticali e grandi ‛funzioni' del linguaggio (Jakobson): romanzo in prima persona, romanzo in seconda persona, romanzo in terza persona, ecc. - o ancora con strutture narrative invarianti (v. § b); per esempio, la fiaba di magia esaminata da Vl. Propp si caratterizza per il fatto che l'‛eroe' è nello stesso tempo ‛soggetto' e ‛beneficiario' dell'azione principale. Ma la teoria si sforzerà anche di definire il romanzo come un particolare ‛tipo linguistico', individuando ciò che ne costituisce l'originalità strutturale (tratto necessario se non sufficiente) e inoltre sottolineando che è la manifestazione di una struttura narrativa, un ‛racconto', un insieme regolato da procedimenti logico-semantici che organizzano la trasformazione e la conservazione del senso all'interno di un enunciato coerente e orientato.
b) Il romanzo come racconto
Storicamente, sono le ricerche dei formalisti russi, degli anni intorno al 1915, che più hanno contribuito a respingere la confusione tra il sottogenere ‛realistico' e le proprietà generali del racconto in quanto tipo. Questo decisivo chiarimento si attua in tre modi: 1) tramite uno studio sistematico delle poesie e prose moderne più libere da preoccupazioni realistiche; 2) tramite la critica puntuale della tendenza, propria del realismo, a porsi come caratteristica fondamentale di ogni racconto (v. Jakobson, 1921); 3) infine, e soprattutto, tramite la definizione essenziale dell'arte come ‛procedimento' (Sklovskij, 1925), e tramite la distinzione tra storia (fabula, l'oggetto referenziale della narrazione, considerato come un materiale fra gli altri) e ‛soggetto' (sjuûet: insieme di procedimenti di montaggio, di anticipazioni, di flash-back, di condensazioni, espansioni descrittive ecc.), che è l'unica dimensione realmente artistica (v. Tomasevskij, 1925). Quest'ultima distinzione già ci permette di cominciare a individuare un certo numero di ‛grandi unità' narrative relativamente autonome e distinte, e di studiare i ritmi-tipo della narrazione, definiti dal gioco delle relazioni tra fabula (ordine e tempo dell'avventura raccontata) e ‛soggetto' (ordine e tempo reali della lettura), e questo sia nel caso di isocronia fra tempo della lettura e tempo dell'avventura (i ‛dialoghi' nello stile diretto), sia nel caso che il tempo dell'avventura sia più breve di quello della lettura (una descrizione o un ‛ritratto'), sia infine nel caso che il tempo dell'avventura sia più lungo di quello della lettura (nei riassunti, o negli estratti biografici, o in transizioni del tipo: ‟erano trascorsi tre anni ..." ecc.).
Una volta individuati tali procedimenti fondamentali di variazione, nonché un certo numero di ‛grandi unità' (la descrizione, il ritratto, il dialogo ecc.), si può già render conto dell'organizzazione di un romanzo studiando la ‛funzione' di tali unità (a cosa servano), la loro ‛distribuzione' nell'enunciato (per esempio, l'alternanza di descrizioni e dialoghi, la loro esatta collocazione), il loro grado di ‛autonomia' e le loro relazioni di implicazione: unità correlate o libere, statiche o dinamiche, con implicazione univoca ovvero biunivoca (come per esempio nel caso in cui un certo tipo di descrizione implica un certo dialogo o viceversa) ecc. La teoria respingerà quindi l'ideale (impossibile) di un'analisi esaustiva dell'opera, limitandosi a studiare un solo livello di organizzazione del testo (quello della sua struttura narrativa). Rifiuterà inoltre l'empirismo induttivo di chi ritiene di poter costruire gradualmente una teoria generale del racconto moltiplicando l'analisi di romanzi diversi (Propp analizza semplicemente cento fiabe di magia). Si respingerà infine il mito della ‛fedeltà al testo', proprio delle filologie e delle ermeneutiche tradizionali, innalzandosi al di sopra del testo e sottoponendolo a diverse manipolazioni di segmentazione, di schematizzazione, di nesposizione in riassunto, di riscrittura simbolica, integrando al testo analizzato sia le sue varianti sia le critiche a cui ha dato luogo. Si accantonerà provvisoriamente la ricerca della genesi del romanzo e (per i racconti mitici in particolare) la ricerca delle versioni ‛autentiche' o ‛primitive'. In conclusione, ci si proporrà di definire il romanzo non come semplice somma di figure o di ‛grandi unità', ma come un ‛sistema' di relazioni interne. Di qui la necessità di definire accuratamente (l'influenza della linguistica è a questo proposito manifesta) dei ‛livelli di descrizione' distinti all'interno dell'oggetto-romanzo (si è già vista la distinzione fabula-soggetto); ora si opererà un'altra distinzione tra il piano del ‛significante' (per es. il piano del materiale fonico, prosodico, linguistico, tipografico ecc.) e il piano del ‛significato' (il piano specificatamente semantico in cui viene organizzata la narrazione). Così, studiando Il cappotto di Gogol′, B. Eichenbaum (v., 1966, pp. 212-232) mette a confronto il livello prosodico da una parte, caratterizzato dall'alternanza di due grandi tipi opposti d'intonazione, e il livello sintattico-lessicale dall'altra, e mostra che i due livelli sono costruiti su piani paralleli. Altri studi, eseguiti su altri testi, hanno similmente mostrato come certi Leitmotive prosodici, ritmici, fonetici, o certi campi lessicali o metaforici si distribuiscano nell'opera in funzione delle unità o delle suddivisioni strettamente narrative (opposizione dei personaggi, divisione in sequenze ecc.).
La teoria finirà dunque col concepire ogni testo come una gerarchia di istanze regolative, esse stesse organizzate globalmente dalla struttura narrativa, che assicura la coesione e la leggibilità e determina la memorizzazione dell'insieme (qualunque lettore può ‛riassumere' in poche parole l'intreccio di un romanzo, una volta terminata la lettura). Ogni testo che non possegga una siffatta struttura narrativa è o una mera nomenclatura (descrizione o ammasso di parole) oppure un testo che pone problemi di leggibilità: ‟si evita la narrazione", come scrive Mallarmé nella prefazione al suo celebre ed ermetico Coup de dés. Per specificare tale gerarchia, si distinguerà in particolare tra codice, impalcatura e messaggio del mito (Lévi-Strauss), o tra strutture logiche profonde, strutture intermediarie o propriamente narrative (il racconto) e strutture superficiali (cioè il sistema semiologico particolare in cui si manifesta la narrazione: testo, opera in musica, mimo, fumetti ecc.) (v. Greimas, 1970). Ciascuno di questi tre piani presenta i suoi propri vincoli: vincoli logici al livello profondo, vincoli narrativi al livello intermedio, vincoli linguistici e stilistici al livello superficiale (nel caso del romanzo, per esempio). Un'organizzazione narrativa, dunque, è contemporaneamente una macro-organizzazione del testo e una specie di collegamento e luogo di ‛figurazione' (nel senso in cui si parla di pittura figurativa) e di antropomorfizzazione: collegamento tra le strutture stilistiche di superficie e le strutture logiche profonde e ‛astratte', in cui si collocano per esempio la contraddizione, l'implicazione e la classificazione, operazioni assai semplici e fondamentali, che precedono nell'infanzia l'acquisizione del linguaggio, come è noto da ricerche psicologiche (J. Piaget). Si sa anche che il bambino acquisisce solo relativamente tardi, verso i 4-5 anni, la ‛competenza narrativa', che gli permette di comprendere e di produrre lui stesso dei racconti. Tali strutture e operazioni sono certo dotate di una grande generalità: un racconto, una struttura narrativa, avranno la funzione di esplicitare, di dispiegare in praesentia (de Saussure), di manifestare sotto forma di intreccio antropomorfo (personaggi, azioni, ecc.) i paradigmi virtuali e latenti (in absentia) dei sistemi logici (povero-ricco, felice-infelice, uomo-donna, dominatore-dominato, presenza-assenza, ecc.: porre un concetto come quello di ‛povero' significa porre anche e contemporaneamente il suo concetto complementare, contraddittorio e correlato, ‛non-povero', e viceversa; ‛significare' vuol dire anzitutto ‛opporre'). Inoltre, una struttura narrativa avrà la funzione di mettere in movimento, di classificare e di ordinare sotto forma di una successione cronologica (la ‛storia') più o meno articolata (‛soggetto') i suddetti paradigmi virtuali: il tale personaggio è ‛ora' povero, ‛poi' diviene ricco, ‛poi' né povero né ricco ecc. Tale impalcatura logica è spesso sottolineata dal titolo stesso del romanzo, che rende esplicito per il lettore il codice semantico fondamentale dell'opera sotto forma di un orizzonte di attese semplificato e concentrato: Guerra e pace (Tolstoj), Il rosso e il nero (Stendhal), Delitto e castigo (Dostoevskij), Grandezza e decadenza di César Birotteau o Splendori e miserie delle cortigiane (Balzac). All'interno stesso del racconto, il romanzo psicologico sembra giocare più volentieri sulla complessità degli schemi logici (i personaggi non sono ‛né' ricchi ‛né' poveri, ‛né' buoni ‛né' cattivi, ‛né' felici ‛né' infelici, oppure saranno ‛contemporaneamente' felici e infelici, oppure ‛ora' felici ‛ora' infelici, ecc.). Il mito, il racconto popolare, il feuilleton, al contrario, pongono spesso l'accento su opposizioni nette e costanti (i personaggi, per es., sono ‛o' buoni ‛o' cattivi, ‛o' ricchi ‛o' poveri ecc.). La teoria del racconto avrà dunque un rapporto privilegiato con la ‛logica' (da cui l'utilizzazione, soprattutto nella scuola strutturalistica francese, di modelli formali, gruppi di Klein o formalizzazioni diverse, onde render conto dell'impalcatura logica soggiacente di un racconto e dei diversi percorsi delle sue trasformazioni), con la ‛semantica', di cui condividerà le conquiste e le lacune, e non da ultimo con la ‛semiologia', la scienza generale dei segni (v. de Saussure, 1916).
Ogni romanzo è costituito a partire da un materiale linguistico. Elaborare una teoria del racconto richiede quindi che l'oggetto sia definito come entità semiologica e non più come evento estetico-letterario; presuppone perciò che passi in secondo piano lo studio dei ‛supporti' (un racconto può manifestarsi sotto forma di un testo linguistico, di film, di fumetto, di mimo ecc.) nonché lo studio del rapporto con la realtà. In generale, i semiologi sono concordi sui seguenti postulati: perché un oggetto possa essere studiato da un punto di vista semiologico, occorre: 1) che l'oggetto in questione entri in un processo di ‛comunicazione' intenzionale e sia riconosciuto come tale da un emittente e un ricevente; 2) che esso manipoli un numero ridotto di unità di base (un ‛lessico'); 3) che la combinazione di queste unità sia governata da un numero ridotto di regole di disposizione (una ‛sintassi'), indipendentemente dal numero infinito dei messaggi possibili. I giochi, le lingue naturali o artificiali assolvono appunto queste condizioni (v. Benveniste, 1974, p. 56).
Il problema primo e fondamentale dell'analisi del racconto sarà dunque quello di costituire tale lessico di unità di base, di elementi primi della narrazione, di cellule elementari, andando oltre le grandi unità individuate in base all'opposizione fabula-soggetto (v. sopra). Tali unità riceveranno nomi diversi: ‛motivi' (v. Tomaševskij, 1925), ‛mitemi' (Lévi-Strauss), ‛situazioni' (v. Polti, 19243; v. Souriau, 1950), o ‛funzioni' (Propp). Analizzando un gruppo di fiabe di magia russe, Propp afferma che per funzione s'intende ‟l'atto del personaggio ben determinato dal punto di vista della sua importanza per il decorso dell'azione" (v. Propp, 1928; tr. it., p. 34); il termine ‛funzione' sarà poi adottato dagli studiosi e dai teorici successivi (v. Barthes, 1966). Si tratta quindi, innanzi tutto, di una ‛duplice relazione': relazione interna di un supporto (il personaggio) e di un apporto (un qualunque predicato), di una ‟assegnazione di un predicato a un soggetto" (v. Lévi-Strauss, 1958, p. 233), e relazione esterna di tipo logico-semantico con un'altra unità distinta dell'opera, poiché la funzione è l'atto di un personaggio che, dischiudendo un sistema di attese e di imprevisti, ha ripercussioni più o meno dirette sull'evoluzione del racconto. Così ‛il rapimento di una principessa' sarà definito: a) come l'atto di un aggressore x; b) come correlato a una serie di azioni successive (la ricerca e il ritrovamento della principessa rapita, la punizione dell'aggressore, ecc.).
Analizzare un racconto vorrà dire dunque render conto di questo duplice sistema di rapporti. Il numero delle funzioni della fiaba di magia è di 31, e il loro ordine di successione fisso definisce ciò che Propp chiama la ‟norma del racconto". Tali funzioni sono individuate sulla base di un confronto sia tra parti non contigue di uno stesso testo, sia tra parti distinte di testi diversi. Tale confronto ha dato luogo a ‛letture verticali' e a schematizzazioni del tipo:
(...) il re invia Ivan a cercare la principessa; Ivan parte a piedi (...)
(...) il re invia Vladimir a cercare un tesoro; Vladimir parte immediatamente (...)
(...) la sorella invia il fratello a cercare una medicina; il fratello parte in battello (...)
(...) il vecchio fabbro invia il suo apprendista a cercare un cavallo; l'apprendista parte (...) (v. Propp, 1928).
Saranno considerate come ‛funzioni' le azioni che suscitano incertezze per l'evoluzione successiva del racconto; nel nostro caso: a) l'‛invio' sarà accettato o rifiutato? b) la ‛ricerca' - qui ancora allo stato virtuale - sarà coronata da successo o no? c) la ‛partenza' sarà o no seguita da un ritorno? Tali funzioni costituiranno le invarianti del racconto; quanto poi alle qualificazioni dei personaggi (il nome, l'età, il sesso, il modo e il mezzo di locomozione, la natura dell'oggetto cercato ecc.), o sono trascurate in quanto ‛variabili', ovvero sono utilizzate per studiare il sistema dei personaggi (v. Lévi-Strauss, 1973, p. 162; v. cap. 3, È a). Il racconto si riduce così, al termine di una serie di semplificazioni, a una sequenza di enunciati di base sia di carattere ‛funzionale' (le funzioni propriamente dette: x parte; y dà un ordine; x cerca; x accetta un programma ecc.), sia di carattere ‛qualificativo' o ‛descrittivo' (x è vecchio; y è una donna; z è apprendista ecc.). Gli enunciati funzionali metteranno in relazione almeno un personaggio (o ‛attante', v. cap. 3, È a) con una funzione (del tipo: x parte); oppure due personaggi con una funzione (x uccide y); o tre personaggi con una funzione (x dà un oggetto z a y); o quattro personaggi con una funzione (x dà un oggetto z1 a y in cambio di un oggetto z2). Si osservi di passata che saranno considerati come personaggi (o attanti) tanto gli esseri umani quanto gli oggetti materiali (v. Propp, 1928). Gli enunciati qualificativi saranno intesi sia come la ‛congiunzione' di un attante con un oggetto qualunque (x ha del denaro, x ha potere, x è felice), sia come la ‛disgiunzione' di un attante rispetto a un oggetto qualunque (x non ha denaro, x è infelice, x non ha potere), dove l'oggetto può essere o un oggetto materiale, come il denaro, o un'entità psicologica, come la felicità, o una ‛modalità', come il potere.
Ma per i teorici il racconto non è soltanto una gerarchia di unità (un lessico), di livelli o piani, ma anche una sequenza orientata, più o meno prevedibile, di enunciati descrittivi e di enunciati narrativi (una ‛sintassi'). I primi, come si è visto, si possono definire come la congiunzione o la disgiunzione di un supporto (un personaggio, un attante) rispetto a un altro supporto o qualificazione od oggetto qualunque; si possono dunque considerare come enunciati che aprono una virtualità, o che, al contrario, ‛chiudono' una virtualità precedente (di qui la tendenza a ‛inquadrare' con descrizioni i capitoli nonché l'intero romanzo). I secondi, centrati su una funzione, promuovono le trasformazioni narrative e la circolazione dei personaggi, delle loro qualificazioni o delle loro modalità (il volere, il sapere, il potere) e questo: a) operando sostituzioni di personaggi (x ha un cavallo y ha un cavallo); b) sostituendo l'uno all'altro oggetti-valore (x ha un cavallo x ha una vacca; x possiede un sapere x possiede un potere); c) operando trasformazioni sulla funzione stessa (x ‛ruba' un cavallo x ‛dà' un cavallo) (v. Lévi-Strauss, 1958, pp. 252-253). Gli enunciati di questa specie si integrano spesso in sequenze-tipo, dotate di una grande generalità (la ‛prova', il ‛contratto', lo ‛scambio') e caratterizzate spesso da una collocazione e da una distribuzione ben precise nell'ambito dell'opera.
Dal punto di vista della ‛sintassi' narrativa i successori di Propp (Barthes, Greimas, C. Brémond, U. Eco) hanno notato che le funzioni e gli enunciati narrativi o qualificativi, in quanto manifestazioni di strutture logiche anteriori e soggiacenti, si lasciano ridurre facilmente a serie orientate (del tipo partenza → ritorno; invio → accettazione; mancanza → eliminazione della mancanza; assunzione di un contratto → realizzazione del contratto; infrazione → punizione; proibizione → violazione ecc.), e si possono raggruppare in maniera stabile per costituire sequenze che regolano in maniera abbastanza prevedibile l'articolazione dei contenuti, sequenze che possono o succedersi ad libitum, oppure ridursi a una sola che costituisce un intero racconto. Queste opposizioni hanno a volte un ordine quasi obbligatorio, poco suscettibile ‛per natura' (salvo in caso di racconti fantastici) di subire capovolgimenti: la vita precede la morte, una ferita la guarigione, la giovinezza la vecchiaia ecc. Altre sequenze sono già in qualche modo preordinate nella vita sociale: abitudini, ripetizioni di azioni meccaniche, contratti giuridici o economici, attività professionali diverse; per esempio, per un personaggio come il ‛vignaiolo': seminare → coltivare → raccogliere l'uva → pigiarla → raccogliere il succo → mettere in botte → imbottigliare → assaggiare → bere ecc., donde il legame privilegiato del racconto con la vita sociale e la relativa ‛prevedibilità' delle sue concatenazioni, soprattutto nel genere realistico, che privilegia volentieri le concatenazioni socialmente istituzionalizzate (v. cap. 4, È c).
Dunque, una unità narrativa ‛sintattica', dal punto di vista della teoria del racconto, sarà considerata secondo le sue dimensioni e secondo una scala che va dal più complesso al più semplice come: racconto → sequenza → enunciato narrativo o descrittivo → funzione. A sua volta, la sequenza sarà considerata secondo tre modalità (v. schema).
La sequenza C dello schema dato è ciò che Greimas chiama la ‟prova". Seguendo Propp, egli distingue ‟prove qualificanti" da ‟prove glorificanti". Le prime contribuiscono a dotare il personaggio-eroe di una certa serie di tratti semantici (qualificazioni psicologiche, programmi d'azione, modalità varie come il sapere, il volere, il potere, possibilità di ricevere aiuto ecc.), che in seguito lo qualificheranno come atto ad affrontare il nemico (o l'antagonista, l'anti-eroe) e a vincerlo (è questa la prova - o le prove - glorificante, la realizzazione del programma iniziale). Ma, ancor prima di dotare l'eroe di qualificazioni che gli permettano di agire, bisogna dichiarano come tale. Spesso il compito di istituire appunto il soggetto virtuale di un romanzo è affidato a una sequenza particolare (che si può chiamare ‛contratto'), che si situa preferibilmente all'inizio dell'opera e la cui forma sintagmatica è quella di un ‛mandato' (un personaggio avente la prerogativa di esprimere volontà trasmette un ordine e un programma a un destinatario), seguito da un'accettazione da parte del destinatario, accettazione che qualifica quest'ultimo come soggetto virtuale. Così, all'inizio della fiaba di magia russa il re o il padre dà un ordine a Ivan (‟va a cercare mia figlia", ‟va a cercare il cibo"). Si veda anche l'episodio dello scambio di doni all'inizio di numerosi romanzi medievali (un cavaliere domanda al re di accordargli qualche cosa: Chrétien de Troyes ecc.). Da questo momento, l'eroe è dotato di un ‛volere', che si riversa su un ‛oggetto', e il racconto può prendere la forma della ‛ricerca' di tale oggetto. Introdurre il soggetto-eroe equivale dunque a inaugurare la narrazione e a individuare nello stesso tempo il sistema di valori rappresentato da colui che esprime il volere (re, padre). Ma anche il ‛rifiuto' del contratto instaura il soggetto: rifiutando un dato programma o sistema di valori, si pronuncia a favore del sistema di valori opposto e deve quindi cercare un nuovo committente con il quale stipulare un altro contratto. I personaggi introdotti dal contratto - il soggetto virtuale, il destinatario, il committente, l'oggetto-programma trasmesso (spesso sotto forma di scambio virtuale del tipo: ‟se tu vai a cercarmi mia figlia io te la darò in sposa") - possono essere rappresentati da personaggi antropomorfi e figurativi ma anche - soprattutto per il personaggio del committente - da gruppi o da ‛forze' (per esempio: ‛la vocazione', ‛l'attrazione esercitata dalla città sul provinciale', ‛l'atmosfera di Pietroburgo' nel Cappotto di Gogol′) o da ‛sentimenti' (la consapevolezza di una ‛mancanza' gioca spesso un ruolo principale). Può accadere anche che il contratto sia stipulato tra l'eroe e se stesso, nella sua interiorità (il desiderio di scalata sociale da parte del picaro, di conquistare Parigi da parte degli eroi di Balzac), o che, al contrario, tale contratto non sia recepito dal destinatario, in cui rimane inconscio: è il caso del Parsifal di Wagner o di Berlin Alexanderplatz di Döblin. In tal caso, il racconto prende la forma di una progressiva ‛rivelazione' della reale natura conferita dal contratto alla missione dell'eroe. Si possono concepire schemi come quello riportato sotto.
Si può così ricostruire una specie di ‛modello generale' sintagmatico del racconto, una specie di ‛arci-racconto' che permette di render conto, dopo l'individuazione di certi procedimenti stilistici di variazione (v. cap. 4), dell'impalcatura narrativa di numerosi romanzi: 1) un personaggio è oggetto di una maledizione o di una mancanza (spesso come conseguenza di un'interdizione violata o di una raccomandazione non rispettata); 2) egli stipula un contratto, o con se stesso o con un altro personaggio, che viene così dotato di un voler-fare e di un programma (eliminare la mancanza iniziale); 3) questo personaggio accetta e acquisisce un ‛voler-fare' (prima prova qualificante) che lo istituisce come soggetto virtuale; 4) il soggetto virtuale, dopo la congiunzione con un datore di sapere acquisisce un ‛saper-fare' (seconda prova qualificante); 5) il soggetto virtuale, dopo la congiunzione con un datore di ‛potere' acquisisce un ‛poter-fare' (terza prova qualificante); 6) il soggetto virtuale è messo a confronto con l'anti-soggetto dotato di un volere antagonista; è sconfitto o vittorioso (prova glorificante - il programma iniziale è eseguito - la mancanza iniziale è eliminata - il contratto iniziale è soddisfatto - il soggetto virtuale diventa soggetto reale), il che si manifesta attraverso una trasformazione dei personaggi, delle qualificazioni o delle funzioni.
Come si può constatare, gli enunciati narrativi così come i personaggi-tipo del racconto (o attanti; v. cap. 3) sono definiti: a) dal ‛luogo' in cui appaiono; b) dai loro ‛rapporti' con altri personaggi-tipo; c) dai loro ‛rapporti' con le ‛funzioni' che assumono (la loro ‛sfera d'azione'); d) da certe ‛modalità' (voler-fare, saper-fare, poter-fare).
Notiamo che l'autonomia delle sequenze può essere più o meno sottolineata da vari procedimenti stilistici di demarcazione, propri dell'autore (v. cap. 4): suddivisione in capitoli provvisti di titolo o di un'epigrafe; suddivisione di un capitolo in paragrafi, in capoversi; cambiamento netto di tempi e di luoghi; apparizione e scomparsa di personaggi; incipit e clausole stereotipe; cambiamento di ritmo o di veste tipografica ecc.
Il racconto ha dunque due dimensioni: l'una ‛paradigmatica' (il sistema atemporale di uguaglianze e opposizioni, classificate secondo una lettura verticale), l'altra ‛sintagmatica' (la successione orientata di funzioni e di enunciati narrativi). Di qui la possibilità, per il critico, di privilegiare la lettura della seconda dimensione (Propp e i suoi successori della scuola ‛formalista') o la lettura della prima dimensione (Lévi-Strauss e in generale gli antropologi e i sociologi, attenti a reperire i sistemi ideologici e logici latenti sotto la superficie del racconto). Così, Lévi-Strauss analizzando il mito di Edipo fa apparire in ‛lettura verticale' due coppie di contenuti contraddittori: la sopravvalutazione e la sottovalutazione dei rapporti di parentela da una parte, la negazione e l'affermazione dell'origine ctonia dell'uomo dall'altra (v. Lévi-Strauss, 1958, p. 239). Ma, studiando la dimensione sintagmatica del mito, egli sottolinea anche che il mito, mettendo spesso in opera un processo di mediazione, costituisce un ‟modello logico per risolvere una contraddizione" (ibid., p. 254), riservando un posto importante a personaggi di mediazione (tra l'alto e il basso, il cielo e la terra, il crudo e il cotto, la natura e la cultura ecc.). Il problema nel mito di Edipo è dunque quello di conciliare due serie di rappresentazioni dell'origine umana (origine sessuata o origine ctonia). Come si può constatare dalle fiabe di magia studiate da Propp, la funzione del racconto è quella di fornire alla comunità una rappresentazione narrativa di come un certo ordine sociale stabilito possa venir sconvolto e quindi ristabilito grazie all'azione di un eroe. Dal punto di vista paradigmatico, il racconto oppone due sistemi di valori: quello della comunità (il villaggio, per esempio), e quello dell'avversario della comunità (l'orco, Satana, il demonio, lo stregone ecc.). Sul piano sintagmatico, esso produce due traslazioni di oggetti (personaggi o oggetti materiali, principesse rapite o tesori...): il rapimento di un oggetto da parte del nemico e quindi la sua restituzione al villaggio da parte dell'eroe che, restituendo appunto l'oggetto, consacra l'ordine stabilito. Al contrario, altri racconti attribuiscono all'eroe la facoltà di cambiare un ordine iniziale insopportabile (miti dell'origine e della fondazione); in tal caso, si compie una sola traslazione di oggetti o di valori senza ritorno allo status quo. È facile constatare che la struttura narrativa di un testo - letterario o no - funziona come una serie di ‛mediazioni' e di ‛trasformazioni' semantiche che permettono, in generale, di annullare uno stato di disordine o una mancanza iniziale (conseguenza spesso di un'infrazione, del mancato rispetto di un'interdizione o di un obbligo sociale). Tali operazioni governano una circolazione di ‛personaggi' (principesse rapite e quindi ritrovate e ricondotte a casa; l'eroe lascia il suo villaggio, raggiunge una foresta, quindi ritorna al villaggio), di ‛modalità' (il detective, eroe di romanzi polizieschi, acquisisce sempre più ‛sapere'; il picaro che si eleva socialmente acquisisce sempre più ‛potere'), e di ‛qualificazioni' (un tale è ricco all'inizio e povero alla fine).
Il romanzo d'avventure accumulerà in maniera visibile le sequenze di circolazione o di traslazione di un oggetto (Un biglietto di lotteria o La stella del Sud di J. Verne, film del tipo Winchester 73 di A. Mann, o il Milione di R. Clair); il Bildungsroman privilegerà, al contrario, la circolazione delle qualificazioni psicologiche (l'eroe è partecipe alla fine di un sistema di valori da cui inizialmente era escluso, o ne diviene, a poco a poco, il sostenitore o l'avversario ecc.).
Riassumendo, il romanzo è una specie di ‟entità astratta" (v. Todorov, 1969, p. 17), derivante da una ‛competenza narrativa' originale, suscettibile di manifestarsi sotto forma di testi diversi, lunghi o brevi, romanzeschi o no, elemento riassumibile e trasferibile (si può trasferire un racconto portandolo sullo schermo), e che ha una sua propria ‛logica', nonché una dialettica interna regolata da contenuti che hanno una loro autonomia, una compiutezza e una fine. Il racconto costituirà dunque un livello autonomo della significazione, che potrà essere provvisto o no di certi enunciati, e il cui studio spetterà a una ‟narratologia" (ibid., p. 10) autonoma, e che si potrebbe definire come ciò che resta invariabile in un romanzo, quando sia stato tradotto o trasposto o riassunto. Dal punto di vista tipologico, si potrà dunque contrapporre un enunciato narrativo a un enunciato poetico, in cui si pone soprattutto l'accento sull'autonomia del materiale fonico e grafico, sulla motivazione del segno, sulla ripetizione, il parallelismo statico, l'anagramma ecc., enunciato intraducibile e spesso fortemente sovracodificato (metri, rime, forme fisse, ritmi). In quanto struttura autonoma, avente un suo funzionamento globale e una sua funzione coesiva su vasta scala, un enunciato narrativo può contrapporsi al ‛segno' isolato (un segno si riconosce, un racconto si comprende; un segno funziona in virtù della presenza o assenza di altri segni, un racconto comporta gradi di leggibilità e di complessità), o ad altri testi senza ‛sintassi' o non autonomi, senza conclusione (per esempio l'indovinello, l'enigma, che richiedono delle risposte - problematiche - per poter essere ‛completi'; o le ‛nomenclature' - liste di oggetti, dizionari - testi sempre aperti, sempre manipolabili; o il testo storico, intriso della storia stessa del lettore, che ne partecipa in quanto ‛discendente' o ‛contemporaneo'). Esso si contrappone anche a un testo desemantizzato (una filastrocca, per esempio) e agli enunciati statici a elementi variabili (descrizioni fittizie o scientifiche, per esempio). Infine, in quanto enunciato appartenente alla fiction e modello che regola le ‛azioni' dei ‛personaggi' figurativi e antropomorfi (v. cap. 3), un enunciato narrativo si contrapporrà agli enunciati di carattere pratico e scientifico (ricette, istruzioni per l'uso, trattati tecnologici, testi teatrali che richiedono una messa in scena, leggi, ecc.), nel senso che le categorie del vero e del falso, del riproducibile e del non riproducibile, di ciò che è o non è verificabile, di ciò che dà o non dà felicità (una ricetta di cucina che può ‛riuscire' o ‛non riuscire'), non sono assolutamente pertinenti per la teoria, la quale si occuperà piuttosto delle categorie del semplice o del complesso, della minore o maggiore leggibilità, di ciò che ha o non ha carattere figurativo ecc. Non bisogna tuttavia dimenticare che testi di carattere pratico, o scientifico, o poetico (come un sonetto o una istruzione d'uso), oppure testi che descrivono lo sviluppo dell'embrione o l'evoluzione di una malattia, possono senza dubbio utilizzare frammenti di struttura narrativa, e che, viceversa, enunciati narrativi possono utilizzare, integrandoli, poesie, descrizioni, indovinelli, enunciati desemantizzati ecc. Cosi, certi romanzi possono avvicinarsi all'enunciato di carattere pratico (che propone, che organizza, classifica e descrive una serie di atti preordinati da mettere in pratica), com'è il caso degli scritti a intento pedagogico (si veda la tradizione dell'exemplum antico o dei vari ‛realismi socialisti'). In generale, si può dire che, nella nostra cultura occidentale, la sotto-letteratura o la letteratura ‛accademica' sono caratterizzate dalla loro conformità al tipo e al genere, e quindi dal carattere stereotipo ‛prevedibile' del loro contenuto (per esempio, il feuilleton ottocentesco); anche altre epoche e altre civiltà, peraltro, fanno dipendere il piacere estetico del racconto dalla ‛conformità' al genere e al tipo, dall'attesa soddisfatta piuttosto che dalla sorpresa e dall'originalità: era questo il caso del testo medievale, testo che bisognava ‛riconoscere' più che ‛scoprire'. Si potrà individuare nella prima tendenza un tratto tipico delle società consumistiche: si fornisce ai lettori una ‛scelta' molteplice e sempre nuova ai fini di una ‛consumazione' unica. Di qui i generi romanzeschi tipici del mondo moderno: il feuilleton (legato alla stampa, sempre ‛a puntate'), la serie (con esemplari sempre nuovi), il romanzo poliziesco e a suspense (che non si legge più una volta svelata la soluzione dell'enigma), il best-seller annuale (che si trascrive, si riscrive, si adatta allo schermo, ai fumetti, o si rappresenta a puntate in televisione ecc.).
3. Romanzo e personaggio
Il romanzo mette in scena personaggi antropomorfi, la cui esistenza coincide con una serie di avventure e trasformazioni raccolte nell'unità totalizzante (una ‛costante') di un intreccio. La nozione di personaggio (in inglese character) sarà dunque fondamentale per ogni teoria del romanzo; basandosi su queste nozioni la retorica classica aveva già individuato generi o figure-tipo come il ritratto, l'allegoria, la prosopopea, l'etopea, ecc., senza però definirli con molta precisione. Le teorie più moderne del romanzo sono anch'esse sempre esitanti tra un approccio ‛aneddotico', che ricerca la chiave, la fonte, i modelli storici precisi dei personaggi (si classificherà quindi il romanzo secondo che metta in scena personaggi storici o fantastici, affini all'autore o diversi da lui ecc.), e un approccio ‛generalizzante', in base al quale si definisce il personaggio o come un tipo trans-storico ed eterno, incarnante le qualità e i vizi immutabili dell'uomo o come un ‛ruolo' insieme sociale, caratteriale e psicologico che si inserisce in un paradigma di ruoli generali: tali sono le tipologie della commedia dell'arte o le liste stereotipe dei ruoli del teatro classico e borghese, (l'attor giovane, l'ingenuo, il padre nobile, il cornuto, la servetta ecc.), che hanno avuto enorme influenza sul romanzo (non dimentichiamo che la parola ‛personaggio' deriva dal latino persona, che vuol dire ‛maschera di teatro'). Alcune teorie del romanzo (Lukács) hanno quindi definito il valore di un'opera in base al criterio secondo cui il personaggio ‛deve' essere contemporaneamente persona ‛e' personaggio, individuo radicato nella storia ‛e' contemporaneamente tipo trans-storico. Ma troppo spesso i teorici hanno avuto la tendenza a confondere persona e personaggio, e a considerare quest'ultimo come un essere vivente autonomo, di cui si descrive la psicologia, la biografia, i moventi, i desideri, e di cui si commentano, si giustificano, si spiegano azioni e pensieri (è noto l'aneddoto su Balzac che, sul letto di morte, chiama il medico di uno dei suoi romanzi); si dimentica insomma che si tratta innanzitutto di ‛creature di carta', dotate di un'esistenza unicamente ‛linguistica', meri ‛prodotti del testo'. Gli indubbi eccessi dell'ottica psicologizzante hanno giustificato, per esempio all'inizio del sec. XX, le reazioni degli stessi romanzieri e la loro tendenza a porre l'accento sul personaggio inteso come pura costruzione, come la ‟piatta figura di un mazzo di carte" (Robbe-Grillet), che entra in un giuoco combinatorio specifico dell'opera, in una sintassi; e quindi la tendenza a considerare il personaggio come una ‟nozione superata" (Robbe-Grillet) e la sua sopravvalutazione come una ‟superstizione letteraria" (Valéry).
Elaborare una teoria del personaggio implica dunque: 1) che si tenga effettivamente conto del carattere ‛costruito' del romanzo e si cominci a studiare il personaggio come un elemento linguistico ditale costruzione (priorità non significa tuttavia né esclusività né prevalenza: l'approccio psicologico, storico ecc., è sempre possibile). Occorre cioè che la teoria definisca il personaggio tramite l'insieme delle sue relazioni con la totalità dell'opera e con gli altri personaggi. Un personaggio sarà considerato soprattutto come il supporto delle costanti e delle trasformazioni semantiche del racconto; 2) che non si rimanga legati esclusivamente a un ‛genere' e neppure a un ‛sistema' semiologico particolare (chi dice teoria dice generalizzazione). Ci sono anche altri sistemi narrativi, oltre al romanzo, che mettono in scena e rappresentano personaggi: il sogno, il poema, le vignette, i fumetti, il teatro, il mimo, il mito, il film, il rituale, i tarocchi, ecc. Bisogna inoltre notare che la nozione di personaggio non è esclusivamente ‛letteraria': per esempio, lo storico, il giurista che redige una legge, il giornalista, il filosofo producono testi che mettono in scena personaggi (per es., in Hegel lo ‛Spirito'). Il problema fondamentale sarà dunque quello di sapere come distingnere tra un personaggio letterario (Natascia), un personaggio storico (Napoleone) e un personaggio storico ma inserito in un'opera letteraria (Napoleone in Guerra e pace di Tolstoj); 3) che la nozione di personaggio non sia intesa unicamente in chiave ‛antropomorfa' e figurativa. Il campanile di Combray e il tempo nell'opera di Proust, le allegorie nel Roman de la rose di Guillaume de Lorris, la Cattedrale in Nôtre-Dame de Paris di Victor Hugo, il mare e la balena in Melville, la frase e la scrittura stessa nel nouveau roman: sono tutti ‛personaggi' in piena regola - più o meno antropomorfi e figurativi - che partecipano a un intreccio narrativo di cui rappresentano nello stesso tempo le istanze attive o i luoghi di trasformazione, e perfino gli eroi principali.
La teoria dovrà dunque render conto del ‛grado di antropomorfizzazione' del personaggio, dei mezzi stilistici attraverso i quali tale grado si esprime (metafore, allegorie, ecc.), della sua ‛funzione' nell'opera: un burrone può essere un ‛oppositore' (bisogna superarlo); un cavallo può essere un ‛aiutante' (aiuta l'eroe a fuggire; v. cap. 3, § a). L'elaborazione di una teoria soddisfacente della nozione di personaggio implica il riferimento al quadro più generale di una teoria dei sistemi narrativi, al quadro cioè dell'‛analisi del racconto' o della ‛semiotica narrativa' (Propp, Greimas, Barthes, Todorov, Genette; v. cap. 2).
a) Il personaggio-segno
Nelle sue note sui Nibelunghi, Ferdinand de Saussure già pretendeva che si concepisse il personaggio come un ‛segno' o un ‛simbolo'. Una teoria generale del racconto definirà volentieri il personaggio in termini semiologici, concependolo cioè come un segno all'interno di un sistema di segni, come una specie di morfema discontinuo, come un ‛fascio di elementi differenziali': è questa la definizione classica di fonema (Jakobson), che per esempio Lévi-Strauss (v., 1973, p. 162) riprenderà per definire i personaggi del mito. Il personaggio sarà dunque definito tramite le relazioni di affinità, di opposizione, di gerarchia (per esempio le sue relazioni con un sistema di attanti più generali) e di distribuzione che intrattiene con gli altri personaggi e unità dell'opera. Un primo approccio, basato sulle tre categorie generali della semiologia (semantica: relazioni dei segni con il reale; sintassi: relazioni dei segni tra di loro; pragmatica: relazioni dei segni con i protagonisti dell'enunciazione, emittente e ricevente), permetterà di distinguere tra: a) personaggi referenziali (per esempio i persosonaggi o tipi storici che permettono un radicamento realistico in una società ed epoca ben precisa); b) personaggi sintattici (la cui funzione principale sarà quella di collegare i personaggi tra di loro; personaggi mediatori o portatori di novità, o dotati di memoria o di preveggenza); c) personaggi pragmatici (personaggi ‛portavoce' dell'autore, eroi ‛autobiografici', eroi ‛pedagogici' con cui il lettore si identifica). Più particolareggiatamente, il personaggio sarà definito attraverso tre caratteristiche.
1. Le marche che lo segnalano nel testo. Queste marche costituiscono un paradigma più o meno omogeneo (il testo può essere, per esempio, duplicato da illustrazioni), composto di marche grammaticali (pronomi e loro sostituti), di descrizioni, di ritratti, di nomi propri (cognomi, nomi e soprannomi), o di semplici iniziali (K. in Kafka), che si alternano e formano il significante discontinuo del personaggio. Il testo giocherà sui ritardi e sull'ordine di comparsa di tali marche (per esempio, del ritratto o del nome proprio) per creare vari effetti di suspense; d'altra parte, la loro distribuzione sarà un interessante oggetto di studio nella prospettiva di una semantica dell'‛enunciato', non meno che in quella di una semantica dell'‛enunciazione' (quando, in Il rosso e il nero, Stendhal chiama l'eroe ‟Julien", quando ‟il nostro eroe", quando ‟Julien Sorel" ecc.). La ricorrenza, la costanza, la stabilità di queste marche (il ‛costo' del personaggio) assicurano la leggibilità e la coesione dell'enunciato (è sempre lo stesso Julien Sorel, malgrado le trasformazioni di cui è l'agente o il supporto, che l'autore mette in scena da un capo all'altro del romanzo), leggibilità e coesione che sarebbero invece compromesse da un'eventuale perturbazione delle marche stesse. Per esempio, la moltiplicazione di personaggi omonimi (i Quentin nel romanzo The sound and the fury di W. Faulkner), o le perturbazioni del sistema anaforico in certi nouveaux romans (Robbe-Grillet), in cui pronomi maschili (egli/a lui/quello lì, ecc.) seguono la menzione di un personaggio femminile e viceversa, e in cui il personaggio vede cambiare il suo nome (Dupont → Dupond → Duprond). Infine, il nome proprio del personaggio può essere più o meno motivato o arbitrario, secondo le relazioni che intercorrono tra significante e significato del personaggio. La motivazione può consistere per esempio nel chiamare un semplicione Simplicio, o una fanciulla pura Bianca (donde il problema che si pone nel tradurre: bisogna ‛tradurre' anche i nomi propri?), oppure nell'inserire il personaggio in una famiglia, cioè in una ‛flessione', in cui nome e cognome funzionano come la ‛desinenza' e la ‛radice' di una parola (Zola, R. Martin du Gard ecc.); in questo caso la parentela diventa un fattore di leggibilità, di prevedibilità e di classificazione.
2. I ‛tratti semantici' (il significato del personaggio) che lo accomunano o l'oppongono ad altri personaggi dell'opera. È questo il ‛valore' del personaggio, nel senso saussuriano del termine. Tale valore, generalmente, si costruisce poco a poco nel corso del romanzo: non è dato una volta per tutte (tranne che nei generi stereotipi, in cui un iracondo cattivo rimane sempre e unicamente un cattivo e un iracondo); il lettore deve cioè attendere di aver letto tutto il romanzo per averne una visione retrospettiva, sintetica e globale. I tratti in questione saranno classificati in predicati funzionali (gli ‛atti' del personaggio: unico dato preso in considerazione da Propp nella sua Morfologia della fiaba) e predicati qualificativi (le sue ‛qualificazioni'). Il romanzo di avventure privilegerà i primi, il romanzo psicologico i secondi. I teorici riterranno che un predicato funzionale reiterato (per esempio il fatto di descrivere più volte un personaggio che forgia il ferro), come pure un atto interamente deducibile da una qualificazione (per un prete, il fatto di dire la messa), sono riducibili a una qualificazione permanente del personaggio (è un fabbro; è un prete). I personaggi di un romanzo saranno dunque classificati secondo che siano caratterizzati da una o più qualificazioni, da una o più funzioni (personaggi più o meno ‛complessi', più o meno ‛semplici', ‛piatti', ‛rozzi': Forster), ovvero da funzioni o qualificazioni uniche o reiterate. Saranno inoltre classificati secondo un ‛fare' (gli atti propriamente detti del personaggio) o un ‛commento' (da parte dell'autore o di altri personaggi); e infine direttamente (tramite i loro atti e le loro parole), o indirettamente (tramite l'habitat, la fraseologia, l'ambiente, l'abbigliamento, il fisico, gli oggetti circostanti e costituenti altrettanti indici o sintomi indiretti del personaggio). Si sa che il romanzo classico - Balzac, Dickens, Zola, Tolstoj - era ghiotto di tali procedimenti di caratterizzazione metonimica (l'habitat per colui che vi abita, la parte per il tutto o il tutto per la parte). Per finire, i tratti semantici saranno permanenti (personaggi più o meno stereotipi) o variabili (romanzi psicologici, ecc.), e permetteranno di definire raggruppamenti omogenei di personaggi nell'ambito dell'opera (i personaggi definiti dagli stessi tratti qualificativi e funzionali).
Il primo problema sarà dunque quello di distinguere tra personaggi ‛sinonimi' (due personaggi socialisti, o iracondi, ecc.), di mettere cioè a punto una scala di misurazione che permetta di render conto del grado in base al quale si preciseranno le relazioni di somiglianza e di opposizione. Il secondo problema sarà quello di distinguere tra personaggi in cui essere e apparire esistono e coincidono (è spesso il caso degli eroi); quelli in cui essere e apparire non coincidono affatto (ipocriti, furbi ecc.); quelli in cui l'essere esiste senza manifestarsi (personaggi o tesori nascosti); quelli infine in cui il manifestarsi esiste senza l'essere (fantasmi ecc.): si tratta, quindi, di definire un sistema di personaggi tramite il loro grado di ambiguità. Il terzo problema sarà quello di individuare i tratti pertinenti che definiscono le relazioni tra i personaggi. Si definirà, per esempio, il rapporto fra un re e una pastorella come un rapporto sociale (+gerarchia/−gerarchia), sessuale (maschile/femminile), cronologico (+vecchio/−vecchio). Ma quali tratti considerare? La cosa sarà importante ai fini di una lettura antropologica dell'opera (O. Dumézil, Lévi-Strauss), ma anche ai fini di una ‛narratologia', in quanto un racconto si definisce precisamente tramite la relativa stabilità dei suoi supporti (i personaggi) e la permutazione generalizzata delle loro qualificazioni e delle loro funzioni (regolata da una successione di doni, di scambi, di processi di miglioramento o di degradazione).
3. I diversi personaggi di un romanzo si possono raggruppare in ‛classi di attori' o ‛attanti' (Greimas). Queste classi generali, definite dalla sfera d'azione dei personaggi (l'insieme dei predicati funzionali e qualificativi di cui sono il supporto), non sono certamente in numero illimitato. Basta confrontare il paradigma dei sette personaggi-tipo di un racconto, individuati da Propp (aggressore, donatore, gregario, personaggio cercato, mancante, eroe, falso-eroe), con quello elaborato da E. Souriau a proposito del teatro (la forza finalizzata, l'oggetto della ricerca, colui che ottiene l'oggetto cercato, l'oppositore, l'arbitro della distribuzione del bene, l'aiutante), o con quello definito da Greimas a partire dalle categorie semantiche della sintassi: soggetto-oggetto-destinatano-committente-aiutante (prosoggetto)-oppositore (anti-soggetto). Il rapporto attante (classe invariabile di attori)/attore (personaggio variabile, individuato da un nome proprio, un ritratto ecc.) definirà degli ‛isomonismi' (1 attante corrisponderà a 1 attore: caso frequente nella letteratura popolare o in certi generi stereotipi), dei ‛sincretismi' (1 attore avrà più definizioni attanziali: per esempio nel romanzo psicologico un personaggio ‛soggetto' sarà contemporaneamente anche ‛oppositore' di se stesso; nella fiaba quale viene definita da Propp, l'eroe-soggetto è contemporaneamente il destinatario e il beneficiario dell'oggetto cercato, principessa o tesoro), o delle ‛demoltiplicazioni' (1 attante=n attori: è il caso dei romanzi in cui ci sono attanti collettivi, paesaggi o folle, dei romanzi di avventure in cui ci sono più oppositori successivi, più aiutanti ecc.). Così nella frase: ‟Pietro, Paolo e Gianni vogliono mangiare una mela" l'attante oggetto è rappresentato da un attore unico (la mela), e l'attante soggetto da 3 attori (Pietro, Paolo, Gianni). La distinzione tra ‛attante reale' (personaggio che agisce e realizza un programma prestabilito) e ‛attante virtuale' (personaggio provvisto soltanto di un volere, di un programma non realizzato), l'introduzione di modalità (il volere, il sapere, il potere), definite dal loro ordine di acquisizione da parte del personaggio, verranno ad affinare questa classificazione, definendo sottoclassi di personaggi: personaggi che acquistano poco a poco, in virtù di prove diverse, sempre più sapere o esperienza (eroi di tipo picaresco, romanzi di ‛apprendistato' o di ‛formazione' del XVIII e XIX secolo), personaggi che acquistano sempre più potere (romanzi che descrivono l'ascesa sociale), in opposizione a personaggi che siano già di per sé possessori di un sapere o di un potere.
b) Il personaggio-eroe
Dobbiamo ora considerare il problema che pone l'identificazione, da parte del lettore o del critico, di un personaggio principale rispetto a personaggi secondari, o rispetto a traditori, falsi eroi, personaggi episodici ecc., cioè il problema della costruzione non più di un sistema, ma di una gerarchia di personaggi all'interno del romanzo, nonché quello della determinazione dei mezzi stilistici a disposizione dell'autore per accentuare e mettere in rilievo tale o tal'altro personaggio rispetto agli altri. Si tratta dunque di un problema qualificativo di ‛focalizzazione' (v. Genette, 1972, pp. 206-224), focalizzazione individuabile non solo in certe strutture ‛costruite' dal testo e isolabili con un'analisi immanente, interna e funzionale dell'opera (frequenza di apparizione ecc.), ma anche mediante un'analisi che tenga conto dei dati esterni, dei sistemi ideologici propri dell'autore, del lettore e della loro epoca. Il personaggio percepito dal lettore come incarnante le qualità fisiche, morali, psicologiche valorizzate dalla sua propria cultura sarà appunto il personaggio identificato come eroe. Ma le ideologie e i sistemi culturali cambiano; il pubblico moderno, più vasto, è sempre più eterogeneo (si pensi al fenomeno dei tascabili); il quadro morale, estetico, politico dell'autore può non corrispondere più a quello del lettore (soprattutto nel caso della comunicazione scritta, cioè differita, molto meno flessibile della comunicazione orale, sempre adattabile col succedersi delle generazioni) e si rischia una perturbazione nella comunicazione: si rischia cioè di considerare come eroe il personaggio di un romanzo che, due secoli prima, poteva sembrare ridicolo o secondario, e viceversa. Inoltre, gli psicologi insegnano che l'identificazione di un eroe può variare secondo l'età, il sesso, l'origine sociale del lettore; non si tratta quindi soltanto di comprensione, ma anche di proiezione. Sarà dunque difficile costruire una tipologia del romanzo basandosi unicamente sul tipo di rapporto emotivo (vicinanza, distanza, superiorità, inferiorità) che il lettore instaura con l'eroe (cfr. i 5 ‟modi di narrazione" di N. Frye), a causa appunto del carattere variabile di tale rapporto, e occorrerà anche tener conto delle relazioni che l'eroe intrattiene con il sistema di valori implicito ed esplicito dell'opera, cioè delle differenze che lo oppongono ad altri personaggi del romanzo.
Il problema dell'eroe è dunque, fondamentalmente, un problema legato a quello della ‛leggibilità': ‟l'eroe svolge il ruolo della crocetta su una fotografia, o di un truciolo su un'acqua corrente: semplifica il meccanismo di concentrazione dell'attenzione" (V. Šklovskij). Identificarlo o non identificarlo significa partecipare o no al codice ideologico dell'autore, significa possedere o non possedere la chiave del sistema di valori propri del testo: distinzione tra sconfitte e vittorie, buoni e cattivi, personaggi normali e anormali, positivi e negativi, eroi e falsi-eroi, eroi e traditori, progressisti e reazionari ecc. L'autore del romanzo classico farà di tutto per codificare in maniera stabile, permanente, evidente e il più possibile univoca i tratti stilistici destinati a privilegiare uno (o più) eroi. A questo riguardo, l'eroe è un elemento che svolge nell'opera la stessa funzione di leggibilità svolta dal punto di fuga nella pittura illusionistica e scenografica del Rinascimento, prospettiva che ordina, organizza gerarchicamente, suddivide l'opera secondo un ‛punto di vista' fisso e definito. Egli rappresenta, per esempio, il vincolo indispensabile che lega i quadri e gli episodi successivi di un romanzo di tipo picaresco, o che organizza la descrizione di un personaggio in quanto descritto appunto dal suo punto di vista (a sinistra..., a destra..., lontano da..., vicino a...). È dunque un elemento fondamentale dell'opera, il luogo in cui si innestano e si ricongiungono le strutture narrative proprie del testo come ‛enunciato' (l'eroe, in quanto personaggio principale, rinforza la coesione dell'intreccio, è il supporto o il motore delle principali trasformazioni narrative, ordina lo spazio trasformazionale del racconto) e le strutture del testo come ‛enunciazione' (l'eroe ordina lo spazio morale dei diversi valori messi in scena dal romanzo, favorisce la sua leggibilità e ancora l'opera a un sistema culturale storicamente determinato: v. cap. 4).
I mezzi di cui l'autore dispone per focalizzare in tal modo il sistema dei personaggi della sua opera sono molteplici, variando secondo il genere, il tipo, o il supporto scelto: il film, per esempio, dispone del primo piano, e l'eroe è spesso identificato dal fatto che la macchina da presa lo segue costantemente; la pittura e il sogno (secondo Freud) dispongono di altre procedure, come il fatto di porre l'eroe al centro del quadro, nel punto di convergenza degli sguardi degli altri personaggi, o di rappresentarlo più grande degli altri, di dargli un segno distintivo (l'aureola, per esempio) o di porlo in un luogo privilegiato (primo piano, sezione aurea) ecc. Tali procedure avranno il loro equivalente nel testo linguistico; in tal caso si può dire che l'eroe è definito dal fatto di essere più ‛qualificato', di apparire più spesso, di essere più autonomo, come anche dal fatto che le sue azioni sono più determinanti per l'evolversi dell'intreccio. Diremo in generale che l'eroe è definito dai seguenti quattro criteri.
1. Da una ‛qualificazione differenziale': il personaggioeroe serve da supporto a un certo numero di qualificazioni che gli altri personaggi o non possiedono affatto, o possiedono in grado minore; egli sarà in generale ‛sovraqualificato', oggetto di lunghe descrizioni (sotto l'aspetto sia fisico che morale), suo sarà il ritratto più lungo del romanzo, sua la biografia più esaustiva (all'occorrenza per mezzo di un flash-back); se ne darà la genealogia, avrà un nome, un cognome e magari un soprannome (in ciò opponendosi ai personaggi anonimi del romanzo); avrà carattere antropomorfo e sarà esplicitata la motivazione psicologica dei suoi atti; sarà in relazione amorosa con un personaggio centrale; riceverà delle marche distintive dopo le sue imprese; il suo eroismo sarà reso esplicito da un commento più o meno esteso del testo (che lo chiamerà, per esempio, il ‛nostro eroe', mentre il traditore sarà chiamato traditore) e dal fatto che il personaggio contrapposto sarà a sua volta sovraqualificato negativamente. Infine ed è qui che si può porre il problema della ‛leggibilità' l'eroe sarà determinato dalle qualificazioni valorizzate dall'ideologia dell'epoca: bellezza, salute, ricchezza, giovinezza, forza, nobiltà (nel caso, ad esempio, del feuilleton ottocentesco) o il fatto di essere cristiano, forte, implacabile, cavaliere, per l'eroe del romanzo medievale. Com'è noto, un operaio, un contadino, un vecchio, un omosessuale, una matrigna, una donna bionda, non possono essere assolutamente eroe o eroina del romanzo in una certa epoca, mentre possono esserlo in un'altra. Il contadino, per esempio, non ha avuto per lungo tempo diritto di cittadinanza nella letteratura se non a condizione di rappresentare dichiaratamente una figura comica e ridicola.
2. Da una ‛distribuzione differenziale': si tenderà a mettere in rilievo l'eroe tramite un'alta frequenza di apparizioni; tale frequenza sarà eventualmente sottolineata dal Leitmotiv, o dal fatto che l'eroe è il narratore della propria storia, dal fatto che l'autore e gli altri personaggi parlano spesso di lui quando non è presente, e dal fatto di comparire nei momenti e nei punti strategici del romanzo: il titolo, la prefazione, l'incipit dell'opera e dei capitoli, le prove rilevanti per l'intreccio, lo scioglimento, il flash-back ecc.; si pensi ai numerosi romanzi che hanno per titolo il nome dell'eroe: Madame Bovary, Anna Karenina, Tristram Shandy ecc.
3. Da un'‛autonomia differenziale', in virtù della quale l'eroe si oppone ai personaggi secondari, che appaiono sempre in gruppo e la cui comparsa è dunque sempre legata a quella di un altro personaggio. Tale implicazione può essere bilaterale (la comparsa di /x/ implica quella di /y/ e viceversa) o unilaterale (la comparsa di /x/ implica quella di /y/, ma non il contrario). Inoltre, la comparsa di un eroe non è legata a quella di una situazione narrativa data, né è dedotta automaticamente dalla presenza di un dato motivo nell'intreccio; per esempio, l'unica comparsa di un prete sarà interamente determinata da un avvenimento (un matrimonio) e da una funzione precisa (celebrare questo matrimonio) richiesta dall'intreccio (per esempio il lieto fine). L'eroe sarà dunque definito dalla sua mobilità, donde senza dubbio il gusto di tutti i generi romanzeschi per il personaggio disponibile, che proviene da classi ‛medie', per l'homo novus (il parvenu del Satyricon, il picaro del romanzo spagnolo, l'avventuriero settecentesco, il bastardo di Fielding, i ‛nuovi ricchi' dell'Ottocento che cercano tutti di elevarsi socialmente).
4. Da una ‛funzionalità differenziale': l'eroe è spesso definito dall'importanza qualitativa dei suoi atti. Contrariamente agli atti dei personaggi secondari, che servono più a illustrare tali personaggi che non a trasformarli (per esempio la celebrazione di un matrimonio non fa che illustrare un prete come prete), gli atti di un eroe provocano le trasformazioni narrative più importanti dell'opera. Così egli può essere mediatore (risolve o riunisce in sé delle contraddizioni); è costituito da un fare (egli agisce, non è soltanto un soggetto virtuale) e nel contempo da un dire (si parla di lui e parla egli stesso, nello stile diretto o indiretto). Le sue sconfitte sono provvisorie ed egli è vincitore di prove; possiede e acquisisce informazioni (un sapere), come anche un programma d'azione (un volere); inoltre, possiede o acquisisce la possibilità di portare a termine il suo programma (un potere), ed è il soggetto della maggior parte dei predicati funzionali del romanzo (vede che, pensa che, nota che, parte, ritorna, agisce). Ma, soprattutto, egli pone fine alla mancanza o al disordine iniziale (del romanzo) di cui lui stesso, altri o la società sono vittime; è colui che instaura o restaura un equilibrio, ed è perciò spesso fatto oggetto di una glorificazione finale (matrimonio, onori, ecc.). L'influenza dell'agiografia è stata certamente importante sulla nascita del romanzo europeo, che si presenta in qualche modo come un'epopea o un'agiografia laicizzata. L'eroe, infine, è generalmente in tutto il romanzo in relazione permanente, più o meno mediata (R. Girard), con un oggetto da cui è diviso e che desidera (donna, ideale, denaro, onore ecc.). È questa ricerca che forma spesso l'asse dinamico del racconto, la costante che regola l'alternanza di sconfitte e vittorie, la sequenza degli scontri e delle riconciliazioni, delle congiunzioni e delle disgiunzioni, delle espropriazioni e delle acquisizioni.
I criteri citati non sono senza dubbio né necessari nè sufficienti, e conviene notare che l'eroe di un romanzo: 1) è sempre più o meno definito a priori dal genere di romanzo al quale appartiene (fantastico, feuilleton ecc.), che gli impone marche segnaletiche particolari: Leitmotiv, abbigliamento speciale, fraseologia particolare (gli sono spesso riservati il monologo interiore e i casi di coscienza), modi di entrare in scena ecc.; 2) può cambiare da un capitolo all'altro, anzi da un paragrafo all'altro, nell'ambito di una stessa opera: si pensi al romanzo epistolare (S. Richardson, Ch. de Laclos), al romanzo ‛polifonico' (J. R. Dos Passos), al confronto dei diari intimi (A. Gide), al romanzo poliziesco (in cui l'‛essere' e l'‛apparire' dei personaggi sono sempre più o meno ambigui), nei quali muta continuamente la focalizzazione del testo. Certi testi moderni, spesso in opposizione al romanzo classico sempre fortemente ‛centrato', si preoccupano di non gerarchizzare il sistema dei loro personaggi (è spesso difficile dire quale sia l'eroe di un romanzo di Faulkner o di una novella di Hemingway), dissolvendolo e scomponendolo progressivamente (S. Beckett), o focalizzandolo attorno a un elemento vuoto (La jalousie di Robbe-Grillet) o devalorizzato (la famosa ‟storia raccontata da un idiota" nel romanzo The sound and the fury, di Faulkner). Oppure, l'eroe può risultare quasi del tutto inesistente dal punto di vista dell'azione: è noto che l'eroe del Tristram Shandy di Sterne non appare che nelle ultime pagine del libro, in quanto la sua nascita è continuamente differita. Ma è lui il narratore, e quindi il suo discorso occupa sempre il primo piano sulla scena. Si potrà dunque contrapporre il romanzo a focalizzazione variabile, o esitante, al romanzo a focalizzazione costante: quest'ultimo privilegerà la forma autobiografica, dove il narratore è contemporaneamente eroe, attore e relatore (donde il suo posto privilegiato nell'insieme del genere romanzo, da Lazarillo de Tormes alla Recherche du temps perdu); 3) non occupa necessariamente nell'opera la posizione attanziale di ‛soggetto operante' o ‛trionfante'; si pensi all'eroe dalla coscienza infelice (Hegel) o problematica (Lukács), che si è anzi potuto considerare come caratteristico dell'intero genere romanzesco: ricercatore di valori autentici (per lui) in un mondo degradato, uomo segnato dall'inadeguatezza dei suoi ideali alla realtà sociale contemporanea (si veda il tema dell'Étranger di Camus, il romanzo del fallimento nel XIX secolo, come pure il genere fantastico in cui l'eroe impotente subisce fino alla morte il dominio di un soggetto esterno malefico); 4) può non essere un personaggio unico e antropomorfo: anche un oggetto, un gruppo, una folla, un paesaggio possono costituire l'eroe di un romanzo. Notiamo inoltre che il romanzo classico presenta una duplice focalizzazione: da una parte intorno a un personaggio privilegiato (l'eroe), dall'altra intorno a un luogo privilegiato e centrale che organizza lo spazio (un salotto, un luogo di lavoro, una casa, ecc.); si veda la duplice focalizzazione /io/↔/Combray/ in Proust, dove entrambi i ‛personaggi' sono spesso, d'altra parte, perfettamente ridondanti (metonimia, o sineddoche, del luogo abitato per l'abitante e Viceversa).
4.Il romanzo come enunciazione
Studiare il romanzo come ‛enunciazione' significa studiarlo come un atto, come un processo; significa studiare i luoghi e i modi di manifestazione degli elementi del processo (un narratore, un destinatario della narrazione, un contesto, un codice ecc.) nell'enunciato stesso. Tale manifestazione sara più o meno esplicitata da una serie di procedure o marche particolari e potrà aver luogo a diversi livelli.
a) Lo stile del racconto
A una semantica dell'enunciazione spetterà lo studio degli elementi ripetitivi, ludici e convenzionali che entrano nell'atto individuale di appropriazione e utilizzazione della lingua e dei modelli narrativi generali, atto che converte questi ultimi in esecuzioni individualizzate storicamente determinate.
Abbiamo già visto come, sul piano del sistema dei personaggi, un narratore possa giocare sia su isomorfismi (un attante rappresentato sulla scena da un solo personaggio-attore), sia su sincretismi (un attore svolge più ruoli attanziali), sia su demoltiplicazioni (più attori svolgono lo stesso ruolo attanziale: v. sopra, cap. 3, È a). Si è visto soprattutto come il problema della focalizzazione costante o fluttuante su un personaggio privilegiato, l'eroe (v. sopra, cap. 3, È b) ponga il problema del sistema di valori propri del testo, e permetta di introdurre elementi di variazione quasi illimitati (variazione dei punti di vista).
Ma tali elementi di variazione potranno essere individuati anche sul piano sintagmatico del romanzo, sul piano dell'organizzazione logico-semantica (la successione di funzioni e sequenze). Come si è visto, le unità del racconto si raggruppano secondo principi organizzativi facilmente riconoscibili, le funzioni, ravvisabili in sequenze di azioni umane determinate sia sotto forma di comportamenti prevedibili (entrare - uscire; attendere - incontrarsi - separarsi), sia sotto forma di motivi noti e relativamente codificati (per esempio il colpo di fulmine, la separazione, la navigazione pericolosa, l'ascesa sociale). La successione delle sequenze dà al racconto la forma di un algoritmo, di una serie di scelte che gli eroi devono fare (tra due itinerari, due atteggiamenti; per esempio la lettera dell'8 agosto 1777 in Werther), forma che permette di rappresentare il racconto come un ‛albero' (v. Bremond, 1973), ogni nuovo caso risolvendosi nella scelta di uno dei rami dell'alternativa a detrimento dell'altro (nonostante le esitazioni dell'eroe; si pensi a Werther: ‟tento di inserirmi fra i due rami dell'alternativa").
Le funzioni più importanti hanno dunque una duplice determinazione: logica (gioco di preferenze e scelte possibili) e temporale (le scelte si succedono, a intervalli più o meno regolari, secondo un ritmo particolare). È proprio qui che potrà dispiegarsi la libertà dello scrittore e si definirà il suo ‛stile'. Molte sono le procedure a sua disposizione: egli potrà giocare sull'ellissi di una funzione attesa; ellissi di un contratto iniziale che stabilisce l'asse della ricerca dell'eroe; ellissi della glorificazione finale (si veda la brusca interruzione della novella o della tranche de vie naturalista); ellissi di una prova qualificante. L'ellissi potrà colpire anche la ‛dimensione' delle unità narrative, che potranno manifestarsi sotto forma più o meno condensata (il riassunto) o amplificata (narrazione analitica), variazioni, queste, legate alle diverse restrizioni imposte dai vari generi (brevità descrittiva nella novella, possibilità di amplificazione nel romanzo). Allo stesso modo, secondo le particolari restrizioni dei vari generi romanzeschi, gli ‛enunciati descrittivi' potranno variare dalla semplice notazione - sia di tipo metaforico (‟Cathy odorava come gli alberi", in Faulkner), sia di tipo metonimico (‛un grande naso') - alla descrizione più diffusa (la descrizione del giardino ‟Le paradou" in La faute de l'abbé Mouret di Zola). Dal punto di vista funzionale, tali descrizioni potranno essere sia procedimenti di caratterizzazione indiretta dei personaggi, semplici tratti ridondanti di specificazione del carattere o dell'atmosfera (gli ‟indici" di Barthes: v., 1966), che richiedono però da parte del lettore un certo impegno di decifrazione (Balzac), sia semplici notazioni di tempo e di luogo, distribuite in maniera più o meno capricciosa e destinate ad assicurare l'ambientazione realistica del romanzo. Le descrizioni possono anche avere uno scopo decorativo (sono il luogo in cui volentieri si accumulano neologismi, immagini, metonimie e metafore), o dilatorio (creare un effetto di suspense, ritardando il verificarsi di un avvenimento atteso e prevedibile), o anche uno scopo ritmico e demarcativo (le descrizioni di Parigi in Une page d'amour di Zola, che scandiscono l'intreccio a intervalli regolari). Notiamo infine che la descrizione, se è una unità del romanzo le cui dimensioni e i cui confini sono pressoché imprevedibili, in quanto legati all'ampiezza del lessico disponibile al narratore, può essere nondimeno governata da protocolli retorici più o meno rigorosi: lo sguardo di un personaggio, o una finestra, come temi introduttivi stereotipi (‛x contemplava' o ‛x aprì la finestra' vogliono significare ‛qui comincia una descrizione'); ordinamento dall'alto al basso, dal vicino al lontano, dal fisico al morale (ritratti di personaggi); utilizzazione di schemi molto generali (i cinque sensi: si poteva vedere, sentire, toccare, gustare, odorare; la topografia: a sinistra, a destra, davanti, dietro). L'autore può giocare anche sul numero delle unità narrative messe in gioco: si può ristipulare un contratto, ripetere una prova, riformulare una richiesta di aiuto. La fiaba popolare e il racconto d'avventure, per esempio, conoscono il meccanismo della triplicazione delle prove (l'eroe tenta tre volte di superare un ostacolo), triplicazione che può costituire un meccanismo puramente decorativo (una sorta di iperbole narrativa), ma che può anche esprimere una gradualità (due sconfitte seguite da una vittoria), una suspense, e può infine costituire la manifestazione di una struttura latente (le due sconfitte dei fratelli maggiori, seguite dalla vittoria del minore, contribuiscono a sottolineare una struttura sociale e familiare e a mettere l'accento sul fratello minore, definendolo come eroe). Ogni ripetizione, pertanto, dovrà essere considerata dallo studioso con ogni attenzione (v. Lévi-Strauss, 1958, p. 254, e 1966, p. 65). L'autore può giocare anche sulla distanza tra le unità narrative logicamente correlate; teoricamente, non c'è limite a una tecnica siffatta, salvo quello costituito dalla salvaguardia della leggibilità dell'insieme (si veda per esempio il romanzo epistolare o l'incastro di una storia nell'altra, come in Le mille e una notte e in Melmoth): descrizione discontinua di uno stesso paesaggio, procedure dilatorie di suspense, distacco tra l'inizio e la conclusione di un'azione, tra l'inizio di un fatto e il fatto stesso, tra il programma dell'eroe e la sua realizzazione, tra la mancanza iniziale e la sua liquidazione, ecc. Infine, l'autore può giocare sulla permutazione dell'ordine ‛logico' delle unità narrative: le imprese dell'eroe narrate prima di narrare il contratto iniziale che ha dato loro l'avvio, oppure l'arrivo dell'eroe in un luogo nuovo prima di averne narrato la partenza; si pensi all'inizio in medias res, che non caratterizza solo i romanzi di avventure o romanzi come Werther o Jacopo Ortis, e che richiede in seguito diverse procedure di flash-back e di retroazione (si veda, come caso limite, la novella di Robbe-Grillet La chambre secréte, raccontata iniziando dalla fine, come un film proiettato all'inverso). Il gioco delle variazioni sarà dunque particolarmente sensibile nel romanzo sotto l'aspetto delle variazioni temporali. Il tempo (v. cap. 2) è considerato dai teorici del racconto come un materiale tra gli altri; l'analisi delle strutture narrative prenderà in considerazione solo la successione di unità astratte (funzioni, enunciati narrativi, sequenze), successione che, per quanto perturbata, introduce sempre una logica (il post hoc ergo propter hoc, che potrebbe assumersi come motto generale del racconto). Il tempo del romanzo o, piuttosto, l'illusione referenziale del tempo prodotta da un romanzo, risulterà in realtà, come si è visto, dall'interazione di due temporalità distinte: un tempo della ‛lettura', e un tempo dell'‛avventura', cui si può aggiungere un tempo rappresentato, sulla scena del testo, da un personaggio che scrive, un tempo di ‛scrittura'. Il gioco di queste tre temporalità può dare luogo a organizzazioni complesse, di cui l'esempio più sofisticato è forse il romanzo di M. Butor Emploi du temps (1957), che possono però comportare dei problemi di leggibilità (v. Ricardou, 1967). Il tempo dell'avventura narrata interviene in maniera diversa: dalla semplice informazione (una data) fino alla ricostruzione minuziosa del romanzo storico, passando per l'introduzione simultanea di personaggi immaginari e personaggi storici, presentati o nello stesso modo (Balzac, Tolstoj, Malraux), o in modi differenti (U.S.A. di Dos Passos, Le sursis di J.-P. Sartre). La leggibilità dell'avventura potrà essere assicurata da un sistema variamente dosato di catafore (indici che preannunciano un'ulteriore informazione) o di anafore (riferimenti a enunciati anteriori, ricordi di personaggi). L'informazione riferita (Weinrich), che comporta un'ulteriore narrazione, fatta in generale al tempo passato (da cui il rafforzamento dell'autonomia, dell'aspetto ‛compiuto' del romanzo), è senz'altro il caso più rappresentativo nella storia del romanzo; l'informazione anticipata è invece meno frequente (oracoli, sogni, predizioni); il grado zero è quello della narrazione simultanea, che marca la coincidenza temporale (al tempo presente) dell'azione e della sua narrazione (monologhi interiori): il romanzo è sempre il risultato composito di questi tre modi, diversamente intrecciati. Tutti questi procedimenti (espansione o condensazione, permutazione, retrospezione o anticipazione, accelerazione o rallentamento, ellissi o ripetizione) definiscono indirettamente il savoir faire narrativo dell'autore, il suo stile narrativo, e possono contribuire a fondare una tipologia narrativa del romanzo secondo la densità dei procedimenti messi in opera (v. Genette, 1972, pp. 77-182), ma non esauriscono affatto, da soli, l'intera sfera dell'enunciazione.
b) L'immagine del narratore e del destinatario nel testo
Nell'enunciazione, o ‟messa in funzione della lingua attraverso un atto individuale di utilizzazione" (v. Benveniste, 1974, p. 80), un parlante si appropria della lingua designandosi per mezzo del pronome personale ‛io'. Tale appropriazione è nello stesso tempo allocuzione, presuppone cioè un ‛tu' cui l'‛io' si rivolge. Quindi, studiare il romanzo come enunciazione significa ricercare il grado e i modi della presenza - nel testo - di un narratore e di un destinatario della narrazione, attori essenziali che ci si guarderà bene dall'identificare meccanicamente con il lettore o con l'autore reali del romanzo (un autore non è meno presente dietro un ‛egli' anonimo che dietro un ‛io' chiaramente espresso). Si può dunque elaborare una prima tipologia a seconda della presenza o dell'assenza del narratore e del destinatario (v. schema sotto riportato).
Inoltre, potranno esserci vari gradi di esplicitazione del narratore e del destinatario. Certe fiabe popolari, o certi generi romanzeschi che ne costituiscono un'imitazione, fanno spesso appello a formule dirette più o meno stereotipe per iniziare o concludere un testo (‛c'era una volta', ‛la mia favola è finita', ‛questo è tutto'), come pure per assicurare la leggibilità globale dell'intreccio durante tutta la narrazione (richiami, avvisi, accentuazione della concatenazione, commenti di carattere anaforico o cataforico del tipo ‛abbiamo visto prima che', ‛è qui che inizia', ‛vedremo più avanti come', ‛bisogna sapere che': si pensi a Balzac). Altri procedimenti possono rafforzare tale ‛inquadramento' del testo (v. Uspenskij, 1970): prefazioni, conclusioni, prologhi, intromissioni dell'autore all'inizio dei capitoli (H. Fielding in Tom Jones), pseudomemorie, o pseudomanoscritti, o pseudocorrispondenze trovate dall'editore, racconti inseriti all'interno dei discorsi mondani da un ‛testimone' (Maupassant), procedure queste destinate tutte ad accreditare l'impressione di veridicità, a rendere verosimili le condizioni in cui si effettua la narrazione, e di cui si può trovare traccia anche in quei romanzi che si sforzano il più possibile di espellere la presenza del narratore (si veda il curioso ‛noi' nelle prime righe di Madame Bovary di Flaubert, rapidamente e definitivamente espulso nel resto del romanzo). In questi luoghi strategici privilegiati (inizio, fine, ‛cerniere'), ma anche in qualsiasi altro luogo del testo, l'autore si segnalerà in maniera esplicita tramite l'uso di un ‟apparato formale dell'enunciazione" (Benveniste), un ‛discorso', contrapposto alla ‛storia', intesi come due sistemi linguistici, due prospettive complementari e distinte: opposizione racconto soggettivo-racconto oggettivo in Tomaševskij (v., 1925); opposizione storia-discorso in Benveniste (v., 1966, pp. 237-250); opposizione commento-racconto in Weinrich (v., 1964). Nel discorso il messaggio è orientato verso la sua fonte (io, tu, qui, questo, adesso, ieri, domani), e verso un referente contemporaneo implicito; nella storia, il messaggio è orientato verso un referente differito e autonomo: ‟nessuno parla [...] gli avvenimenti sembrano raccontarsi da sé" (v. Benveniste, 1966, p. 241), senza intervento di un parlante. Il primo sistema utilizza parole ‛vuote' (io, tu, qui) che non hanno senso se non nell'atto, e per l'atto, di enunciazione (sono i ‟deittici" di Jakobson, i ‟circostanziali egocentrici" di Russel); il secondo sistema (caratterizzato principalmente dall'uso della terza persona, da certi tempi e modi esclusi dal discorso) utilizza invece parole determinate anzitutto dal contesto. Ma un narratore può essere presente nel testo grazie a marche meno ostentative; può manifestarsi indirettamente sotto forma di un tono particolare, di ironia, di modalizzatori (‛una specie di', ‛per così dire', ‛forse', ‛sembrare'), di segni tipografici (le virgolette e i corsivi di Flaubert nei suoi romanzi, che segnalano una distanza ironica del narratore rispetto ai discorsi delle varie classi sociali), di uno stile ‛valutativo' (strano, povero, bizzarro, pretenzioso). Questi ultimi tratti, lo notiamo di passata, costituiranno i Leitmotive stilistici quasi obbligatori del romanzo fantastico (v. Todorov, 1970). Infine, l'autore può servirsi di un narratore esplicito per camuffare un'informazione (come nel celebre romanzo poliziesco di Agatha Christie, L'assassino di Roger Ackroyd, in cui l'assassino risulta essere il narratore), giocando sul fatto che il lettore s'identifica abitualmente con il narratore stesso. Gli indici relativi al destinatario del racconto sono generalmente meno evidenti di quelli del narratore. Il destinatario può essere semplicemente parassitario rispetto al narratore, può essere affatto silenzioso e non comparire mai (La chute di A. Camus); può talora confondersi con l'eroe, cosa più rara (La modification di M. Butor, romanzo scritto interamente alla seconda persona del plurale, voi, forma di cortesia in francese). Nella maggior parte dei casi, il destinatario è rappresentato da un lettore o da una lettrice (Balzac) critici e puntigliosi, e può anche nascere una discussione sulla comunicazione stessa (Sterne, Diderot). Ogni romanzo comporta vari livelli di enunciazione: quello, gerarchicamente dominante, che comprende la comunicazione globale del racconto (un narratore e un destinatario); quello dei vari discorsi dei diversi personaggi, protagonisti immaginari della storia raccontata. Qualunque sia l'atteggiamento espressivo predominante (storia o discorso), è raro che il romanzo non includa i discorsi, tra loro distinti, di uno o più personaggiattori. Col variare del loro intreccio (per collegamento: un narratore-editore riferisce una lettera nella quale dei personaggi raccontano storie o parlano di personaggi che, ecc.; o per semplice giustapposizione: U.S.A. di Dos Passos) può variare la loro trascrizione.
1. Si può avere lo stile diretto con tutte le marche caratteristiche del ‛discorso' (io, tu, qui, questo, domani ecc.); Platone lo giudicava più ‛mimetico' e, come caso limite, il romanzo può presentarsi come un collage ‛obiettivo' di frammenti di discorso semplicemente trascritti (O. Lewis). La linea di demarcazione rispetto al racconto vero e proprio è segnata in generale da procedimenti tipografici (spazi bianchi, trattini, virgolette, ecc.); la sua funzione realistica è grande (trascrizione fonetica di accenti stranieri in Balzac, clichés della lingua parlata in Flaubert, diversi gerghi tecnici in Zola) e serve in generale a caratterizzare indirettamente il personaggio. Qui siamo vicini al teatro (si veda Jean Barois di R. Martin du Gard, scritto interamente in forma di dialogo). Com'è noto, il romanzo moderno, a partire da Les lauriers sont coupés di E. Dujardin (1887), e soprattutto da Joyce, ha spinto fino alle ultime conseguenze la mimesi ottenuta attraverso il discorso diretto, rifiutando ogni inquadramento globale del racconto, dando la parola, sin dall'inizio, a un eroe-attore che si esprime attraverso soliloqui, libero da ogni patrocinio enunciativo superiore (‛monologo interiore', stream of consciousness).
2. Il discorso dei personaggi può essere semplicemente riferito (stile indiretto), e perde allora le marche formali sue proprie a favore di un rafforzamento dei verbi dichiarativi e della subordinazione, con la conseguente perdita di tratti prosodici, gergali, d'intonazione ed emotivi (‛ella dichiara che') e con l'assimilazione al discorso del narratore.
3. Lo stile indiretto libero, o semidiretto (in tedesco: die erlebte Rede) - termine medio tra gli altri due tipi - sopprime la dipendenza sintattica e conserva i toni e le curve d'intonazione del discorso orale. Esso crea spesso confusione circa la paternità del discorso (Flaubert: ‟Madame Bovary, sono io"), circostanza da cui i romanzieri francesi dell'Ottocento (Flaubert, Zola, Proust) hanno saputo derivare numerosi effetti (si veda ‛l'eterno imperfetto' di Flaubert), col risultato di trasformare talvolta l'intero romanzo in un monologo omogeneo, con una varietà di possibili contaminazioni tra il discorso del narratore e quello dei personaggi: in Stendhal i personaggi parlano come il narratore, nell'Assommoir di Zola, come pure in Céline, l'intero testo è sopraffatto dal gergo dei personaggi.
Una descrizione completa di un romanzo dovrà dunque render conto dei modi in cui si instaurano ovvero si aboliscono le ‟frontiere interne" del testo (v. Genette, 1969, pp. 49-69). La comunicazione propria del romanzo, però, contempla anche una quantità di livelli e di rapporti: tra narratore e destinatario della narrazione, più o meno esplicitati; tra narratore e personaggi; tra un personaggio e altri personaggi; tra autore (reale, storico), altri autori e il lettore (quest'ultimo s'identifica col narratore o col destinatario, ovvero con un personaggio ben preciso, per esempio Watson nei romanzi di Conan Doyle).
In modo particolare, la ‛circolazione del sapere' può effettuarsi o no, o effettuarsi parzialmente tra tutti questi protagonisti: di qui l'ambiguità, l'‛ambivalenza' (Bachtin) propria di ogni enunciato romanzesco, ambiguità tanto maggiore in quanto, più che ogni altro discorso, l'enunciato romanzesco può essere rappresentato come dialogo (un monologo è un dialogo fra due parti differenti di un unico ‛se stesso'), o può costituire una ‛citazione' di altri discorsi (che il personaggio può riprendere a sua volta, o da cui può prendere le distanze). Come è stato dimostrato da Bachtin (v., 1929), in Dostoevskij i personaggi citano continuamente i discorsi di altri personaggi, o li criticano senza citarli esplicitamente, ovvero si scontrano con voci interiori e lottano continuamente contro l'alienazione o l'espropriazione di se stessi, le cui cause - se interiori o esterne - essi ignorano. Tale situazione tende a divenire la regola nel sottogenere del romanzo ‛autobiografico', in cui ‟elemento dominante è la presenza-assenza del destinatario" (v. Genette, 1972, p. 269) nelle confessioni, nelle difese, o nelle lettere, in cui il narratore si sdoppia automaticamente in narratore-scrittore e narratore-attore. Oltre al monologo dei personaggi, lo status del narratore stesso può essere influenzato dai discorsi dell'‛altro', che serve come punto di riferimento: la cosa diviene esplicita o nella stilizzazione, con cui ci si appropria delle caratteristiche di un altro discorso per precisare l'immagine del narratore, o nella parodia, con cui ci si appropria dello stile di un'altra persona per distruggerne l'ascendente (si veda nell'Odissea l'episodio del Ciclope, di Nausicaa, delle vacche del Sole, di Circe); oppure tale status rimane implicito in una polemica nascosta. Per Bachtin, come per tutti i formalisti russi, la parodia e la polemica nascosta sono anzi l'elemento principale delle trasformazioni che hanno luogo nel passaggio da una scuola all'altra. L'‛altro' può essere costituito dal narratore stesso o dai suoi personaggi; la stilizzazione dei loro discorsi (clichés, stereotipi), può equivalere a una caricatura (Proust) oppure, come in Dostoevskij, il discorso del narratore può intromettersi solo come una delle voci del dibattito interiore del personaggio: in questi due ultimi casi la distinzione tra personaggi e narratore non è così netta come nel romanzo ‛realistico'.
Per finire, l'altro può essere rappresentato dall'attività di scrittore del narratore: di qui l'importanza assunta nella letteratura contemporanea (ma già con Gogol′, com'è noto) dalla ‛stranezza' dell'atto di scrivere (una tesi o un romanzo), e dai diversi atteggiamenti che ne derivano: sentimento di impotenza e umiliazione, oppure di disinvoltura e sarcasmo, e talvolta una loro mescolanza (Gide, Belyj, Sartre, Butor). È quindi naturale che il fenomeno studiato da Bachtin - e cioè l'introspezione ossessiva dei personaggi di Dostoevskij che, tanto nei monologhi quanto nei dialoghi, si rivolgono sempre, nello stesso tempo, a un terzo (ascoltatore, testimone, giudice) - sia stato accostato a certe nozioni della psicanalisi (il ‛romanzo familiare', il motto di spirito). Perciò la compartecipazione al sapere, il modo in cui circola, è ostentato, o il modo in cui viene differito permetterà di raffinare le tipologie, distinguendo sottospecie fortemente caratterizzate del romanzo: a) il narratore, onnisciente, sa e dice al suo destinatario (sia o no esplicito), e al lettore, più di quanto non sappia alcuno dei suoi personaggi; b) il narratore sa e dice ciò che sa un certo personaggio (per esempio l'eroe, o un certo testimone), ma niente di più (è questo generalmente il caso del genere autobiografico, in cui narratore ed eroe coincidono: forma particolarmente appropriata al genere fantastico o poliziesco, in cui il lettore non deve essere in vantaggio sul personaggio); c) il narratore non riferisce i pensieri e i sentimenti dei personaggi (Hemingway); questo procedimento in effetti è presente in tutti i romanzi nei quali si vuole differire un'informazione importante (per esempio, nel Michel Strogoff di Jules Verne il narratore ci nasconde a lungo che l'eroe non è rimasto cieco dopo il supplizio).
Questi tre procedimenti, ovviamente, possono ben alternarsi nell'ambito di uno stesso romanzo secondo le necessità della narrazione (v. Lubbock, 1921; v. Pouillon, 1946). In sostanza, certi tipi di comunicazione presuppongono spesso, implicitamente, un lettore più passivo, e suggeriscono relazioni autore-lettore di tipo pedagogico (un autore, dotato di sapere, lo trasmette a un lettore disinformato o poco informato, o semplicemente distratto); altri tipi di comunicazione presuppongono invece un lettore più attivo: si richiede cioè una partecipazione più attiva alla decifrazione del testo, delle sue allusioni, dei suoi presupposti impliciti, delle sue ‛lusinghe' (v. Barthes, 1970). Si potrà dunque, su questa base, elaborare una ‛tipologia dell'enunciazione' (v. Genette, 1972, pp. 67-267) secondo i seguenti criteri: a) densità stilistica (v. cap. 4, È a); b) presenza o assenza di un narratore e di un destinatario espliciti; c) gradi nelle loro modalità di esplicitazione e di comparsa; d) distribuzione delle loro marche (‛inquadramento' e ‛disseminazione'); e) modi di compartecipazione al sapere e di distanza da esso da parte del trio narratore-personaggio-destinatario; f) coincidenza o non coincidenza narratore-personaggio-destinatario (la coincidenza è totale, per esempio, nei diari autobiografici); g) il tema stesso della comunicazione: il narratore parla di sé (chi sono?), della sua attività che, in generale, rientra nell'ordine del dire (posseggo un saper-dire, un voler-dire, un poter-dire?), o della finalità del suo dire (a cosa tende il mio discorso, a cosa serve, chi mi leggerà?).
c) Romanzo, realtà, ideologia
Come risulta dalle analisi precedenti, il modo in cui il testo romanzesco, inteso come processo, entra in rapporto con le rappresentazioni e le ideologie che, in un momento ben preciso, caratterizzano una formazione sociale particolare, non può più essere concepito come oggetto di uno studio dell'espressione o della rappresentazione; ogni teoria di questo tipo richiede in effetti due termini: il reale (qualunque definizione se ne voglia dare) e l'opera. Una teoria siffatta si sforzerà di concepire il rapporto che unisce questi due termini come rispecchiamento, come mediazione o trasposizione; d'altra parte, l'opposizione tra reale e immaginario (letterario) rinvia spesso a una distinzione semplicistica fra verità e illusione, distinzione che permette, secondo i casi, di svalutare, o sopravvalutare, il secondo termine (inteso come maschera, velo o deformazione da un lato, e come sublimazione o liberazione da un altro). Varie ricerche hanno invece mostrato che una più corretta impostazione di questi problemi presuppone una relazione più complessa: i formalisti distinguono tra serie sociale, serie letteraria e lingua naturale (Tynjanov, 1929); gli psicanalisti tra reale, immaginario e simbolico; Lévi-Strauss tra ‛codice' (i diversi piani semantici, che rappresentano trasposizioni del referente storico o sociale), ‛impalcatura' (le strutture narrative e logiche proprie del mito come tipo di racconto) e ‛messaggio' (la manifestazione linguistica e stilistica di un mito particolare). Il rapporto romanzo-ideologia può dunque essere concepito in modi diversi. Innanzitutto il romanzo segna una tappa storicamente importante nell'evoluzione di quel sistema di rappresentazioni ideologiche chiamato il ‛verosimile'. In ogni genere letterario l'esigenza di verosimiglianza procede da due tipi di vincoli: i primi, di carattere discorsivo, sono in funzione del genere (ciò che è stato già letto); i secondi, di carattere ideologico, sono in funzione dell'opinione più corrente (la cosiddetta ‛doxa'). Ora, il romanzo è il genere in cui i vincoli discorsivi sono stati meno nettamente codificati dalle retoriche (v. cap. 1) rispetto ad altri generi letterari, mentre la sua ‛dominante' è costituita dall'illusione referenziale (v. cap. 2, È a). I vincoli discorsivi conferiscono al romanzo, in maniera più o meno scoperta, prerogative proprie di altre arti (in modo particolare la pittura e il teatro) e quelle proprie di una riproduzione esatta del referente. In senso lato, ogni retorica del romanzo può dirsi realistica; in senso stretto, questo termine può designare lo sviluppo (storicamente limitato, per esempio, all'Ottocento) di un discorso del romanzo che sistematizzi l'esigenza di una riproduzione del reale, che ‟accetti enunciazioni accreditate unicamente dal referente" (v. Barthes, 1968) e i vincoli che ne derivano, in particolare l'importanza delle descrizioni e la loro inserzione nella narrazione. Il verosimile referenziale del romanzo si manifesta tra l'altro: 1) tramite l'espulsione, quanto più possibile totale, delle marche più evidenti del discorso: ‟la mimesi si definisce attraverso un massimo di informazione e un minimo di informatori" (v. Genette, 1972, p. 187); 2) tramite ‟l'effetto di realtà" (al livello della manifestazione): è così che Barthes definisce ogni notazione (di carattere gestuale o linguistico o contestuale) che sia messa al servizio dell'illusione referenziale, senza un'evidente dipendenza dalla struttura logico-temporale della narrazione. Più queste notazioni sono insignificanti, più esse provocano l'effetto di realtà; si pensi alla menzione di ‟due pettini e un pezzo di sapone blu in un piatto scheggiato" in certe descrizioni flaubertiane di interni (Un coeur simple). Lo stesso effetto radicalmente realistico è dato dall'uso di nomi propri, geografici o patronimici, dalle descrizioni di luoghi, oppure, in un testo in cui domini il tempo passato, dalla presenza di un ‛presente di identificazione' (per esempio: ‟la Brillante, piccolo corso d'acqua che ‛attraversa' Alecon", in Balzac, La vieille fille); per finire, l'effetto realistico si può ottenere innestando sistematicamente il racconto su una storia già nota al lettore (le conquiste di Napoleone in Guerra e pace); 3) tramite la motivazione (al livello del romanzo inteso nel suo insieme come intreccio), o ‟modo in cui la funzionalità degli elementi del racconto è dissimulata sotto una maschera di determinazione causale" (v. Genette, 1969, p. 96); sono cioè messi in atto procedimenti diversi di ‛riempimento', destinati ad accentuare il legame logico (ideologico) tra due azioni. Si potrà allora distinguere tra: a) romanzo non motivato (gli atti dei personaggi sono narrati nel loro semplice susseguirsi, atti gratuiti, assurdi ecc.); b) romanzo a motivazione implicita: per esempio, il fatto che un personaggio-marito uccida la moglie ‛dopo' averla sorpresa in flagrante delitto di adulterio non ha bisogno di essere spiegato nel romanzo ottocentesco. Il riferimento implicito a un sistema di valori dato per noto codice d'onore, doveri della donna sposata, posto della donna nella società è sufficiente a giustificare l'atto; c) romanzo apertamente motivato grazie agli abbondanti commenti esplicativi di un testimone o di un narratore (che spiegherà come per gelosia, o senso dell'onore, o preoccupazione per la propria reputazione, o per il suo temperamento collerico e impulsivo ecc., il personaggio abbia compiuto un certo atto). I romanzi di Balzac abbondano in procedimenti diversi di innesto su questo ‛extratesto' istituzionalizzato che è l'ideologia, soprattutto tramite il rinvio sistematico a ruoli e tipi sociali (personaggi ‛ufficiali', garanti della norma: medici, preti, studiosi; espedienti stilistici del tipo: ‟il suo fine sorriso di dandy scettico", ‟i suoi gesti misurati di donna devota al suo focolare", ‟le sue forme piene di contadino che vive all'aria aperta", ecc.). Il verosimile gioca dunque a più livelli, ed è sempre un elemento essenziale della prevedibilità di un testo (introdurre un personaggio di matrigna, di finanziere, di contadino, di prostituta è instaurare un orizzonte di attesa già stereotipato dall'istituzione, dai clichés o dal consenso sociale) e quindi della sua leggibilità. Il problema è dunque quello di vedere in che modo, sotto quali maschere, o mediante quale artificio stilistico si iscrivano nel testo le strutture sociali, economiche e politiche della società (v. Goldmann, 1964) e se sia possibile una omologazione dei due tipi di strutture. Si tratterà dunque di individuare in un racconto tutto ciò che si limita a ripetere ciò che nella società è già organizzato secondo una struttura più o meno narrativa - sotto forma di schemi abituali, di programmi, di prescrizioni codificate: rituali, leggi, contratti, scambi, modi d'uso, abilità tecnologica (si veda l'esempio del vignaiolo, cap. 2, § b), modi e rapporti di produzione, relazioni sociogerarchiche determinate, norme di comportamento, galateo, modo di presentarsi in pubblico, ordine in cui si prende la parola, ecc.
5. Conclusioni
Il Novecento deve senza dubbio la sua originalità, in materia di teoria del romanzo, al cambiamento di prospettiva determinatosi nel modo d'impostare il problema. In primo luogo, sotto l'impulso dello sviluppo delle discipline antropologiche e sociali, si è passati da una storia del romanzo, connessa a sua volta con la storia generale della letteratura, a una storia dell'idea di romanzo; ciò vuol dire collegare la storia di un concetto con quella di una cultura, e studiare le variazioni sopravvenute nelle forme, negli usi e nelle funzioni dei sottogeneri del romanzo (talune forme cambiano funzione, talune funzioni cambiano forma, ecc.). In secondo luogo, l'influsso delle discipline linguistiche e semiologiche ha portato all'elaborazione di una teoria del racconto relativamente indipendente e autonoma, cioè una teoria di un tipo strutturale particolare (il romanzo possiede certe strutture narrative, ma non è l'unico a possederle). Non bisogna, tuttavia, dimenticare che questa duplice evoluzione si è prodotta anche in concomitanza con la ‛pratica' stessa del romanzo da parte di scrittori che sono stati essi stessi dei teorici. La teoria ha potuto prendere la forma di opere, prefazioni o articoli specifici (Zola, H. James, Robbe-Grillet), di pastiches (Proust), di parodie (Diderot, Sterne), che sottolineano la messa a nudo del procedimento (Šklovskij), o di riflessioni sparse nella corrispondenza (Flaubert), oppure, infine, si è incarnata in un romanzo. In effetti, prima di essere scrittura, un romanzo è già riscrittura di stili, di generi, di opere romanzesche precedenti, con cui dialoga o entra in conflitto (è noto che già nel XVII secolo Ch. Sorel scriveva un ‛antiromanzo'). Il romanzo non copia mai altro che se stesso, e ogni grande romanzo è a sua volta critica, pastiche, parodia o citazione di romanzi (da Don Chisciotte a Ulisse, passando attraverso Tristram Shandy e Madame Bovary). Non bisogna quindi stupirsi di vedere come nel Novecento si moltiplichino, e in forma sempre cosciente, certi ‛romanzi della teoria del romanzo', e come si entri deliberatamente, per lo meno per quanto riguarda l'avanguardia, in un'‟era di sospetto" (v. Sarraute, 1956), sempre più critica nei confronti degli ingredienti tradizionali: il personaggio, l'intreccio, la descrizione, la psicologia, ecc.; pensiamo ai romanzi sul romanziere che scrive, sogna, raccoglie materiali per un romanzo (Gide, Proust), ai romanzi che prendono come soggetto e tema l'atto stesso di scrivere e che, per ripetere le parole di un critico, diventano ‟avventure di scrittura, piuttosto che scrittura di avventure", per es. il nouveau roman francese degli anni sessanta. Questa triplice direzione (un duplice spostamento della prospettiva teorica, un legame sempre più cosciente tra teoria e pratica presso gli scrittori) ripropone, come si è già notato, in maniera sempre più acuta il problema dello status del più generale concetto di letteratura. Dal punto di vista puramente terminologico, l'uso di un lessico particolare (‛procedimento', ‛struttura', ‛testo' invece di opera, ‛mittente' invece di autore, ‛tipo narrativo' invece di genere romanzesco, ‛attante' invece di personaggio) ha in certa misura contribuito a dissacrare il concetto di letteratura e a dare la priorità alla costituzione di diverse semiologie specializzate, il cui scopo principale sarà quello di descrivere i modi di funzionamento del testo, piuttosto che dare giudizi di valore sulle opere; di elaborare una tipologia del discorso (narrativo o non narrativo, poetico o non poetico, pratico o mitico) e una tipologia della situazione comunicativa (orale o scritta, immediata o differita, linguistica o non linguistica), piuttosto che giudicare della conformità o della deviazione rispetto a norme estetiche. Priorità non vuol però dire esclusività e, per esempio, la costruzione di una teoria del racconto non ha niente di incompatibile con attività diverse, parallele o subordinate di commento, di interpretazione o di critica. Certo, accettando di dissolversi in una pluralità di semiologie specializzate, una teoria della letteratura può correre il rischio di perdere cose prestigiose (la letteratura, l'opera, lo stile, l'autore), ma guadagnerà senza dubbio l'omogeneizzazione dei suoi concetti operativi, la riproducibilità delle sue descrizioni, l'esplicitazione critica dei suoi postulati e dei suoi procedimenti. È questo, per una teoria, l'unico modo di essere adeguata al suo oggetto (testi composti di segni linguistici), e soprattutto l'unico modo di confrontare e correlare sistematicamente tale oggetto con altri due tipi particolari di testi: 1) da una parte la ‛fantasia' (o il ‛complesso'), fenomeno psichico di contenuto fisso e di forma variabile, testo più o meno narrativo, la cui teoria si lascia costruire anch'essa a partire da concetti linguistici: già in Freud si trova l'ipotesi secondo cui il sogno e la fantasia hanno un'organizzazione di tipo linguistico. D'altra parte, Freud ha messo l'accento sulla nozione di ‛romanzo familiare', vicenda inconscia tipica della nevrosi, la cui importanza è stata in seguito sottolineata anche da altri (M. Robert); 2) dall'altra, l'ideologia, ampio ‛extratesto' più o meno diffuso, verbalizzazione più o meno cosciente e più o meno stereotipa di un sistema latente di valori istituzionalizzati (leggi, regole, norme ecc.). Si può allora procedere al confronto di entità che risultano per loro natura comparabili (strutture testuali con strutture testuali), innestare interpretazioni su descrizioni, leggere le presenze significative cosi come le assenze significative, la posizione semantica del soggetto nell'ambito del suo testo, e, in ultima analisi, definire questi due oggetti della fiction (la fantasia e l'ideologia), come fonti di piacere (scarica psichica, euforia culturale, piacere del testo). Certo, rimane in piedi un certo numero di problemi cruciali: manca una teoria del soggetto produttore di fiction (l'elaborazione di tale teoria è un'ambizione della psicanalisi); manca una teoria della scrittura come tecnica, come pratica particolare comportante vincoli specifici; manca una teoria semantica accettabile (è noto che questo è il punto debole della maggior parte delle teorie linguistiche); manca una teoria della lettura; manca una teoria della gerarchia dei sistemi e sottosistemi semiologici, che possa risolvere i problemi relativi alla parafrasi (che cosa accade quando si riassume, o si commenta un romanzo ?), alla traduzione (che cosa si perde e che cosa si conserva quando si passa dall'originale al testo tradotto?) e alla trasposizione dei testi di fiction (cosa succede quando, per esempio, si adatta un romanzo al cinema?). Quest'ultimo punto è talmente importante che, al limite, si potrebbe definire una teoria (qualunque essa sia) come la possibilità di passare da un sistema all'altro, dalle occorrenze alle invarianti (tipo), dal reale ai suoi equivalenti simbolici (che prendono la forma di leggi, modelli, regole di funzionamento, grammatiche, alberi, diagrammi, schemi); si potrebbe insomma definire una teoria come un insieme di riscritture o di transcodificazioni. Il problema del segno e quello del senso si ripropongono dunque sia al livello del linguaggio-oggetto, manifestantesi sotto forma di romanzi di specie diversissima, sia al livello del metalinguaggio, quello cioè utilizzato dal teorico-descrittore.
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