ROMANZO.
– Deterritorializzazione. Un inedito connubio: romanzo e linguaggio veicolare. Rimediazione. Il realismo magico come commutatore conoscitivo. La svolta ‘modale’ del global novel. Verso le neuronarrazioni. Bibliografia
A lungo, nel corso del Novecento, il r. ha rischiato di soccombere sotto il peso delle proprie ambizioni: ambizioni conoscitive prima ancora che estetiche. Se con James Joyce, Marcel Proust e Virginia Woolf il modernismo aveva imposto al narrare il compito di deautomatizzare il modo in cui percepiamo la realtà e di dubitare sistematicamente del grado di veridicità del linguaggio standard, la decostruzione dell’intreccio, inaugurata già da Jorge Luis Borges nei tardi anni Trenta, cooperò in egual misura a rendere sempre più assolutistiche le ambizioni del romanzo. Quella lunga stagione novecentesca, riassumibile con l’etichetta di postmodernismo e testimoniata da romanzi d’insuperabile – benché algida – intelligenza, portò a una brusca contrazione delle quote di mercato del r.: mentre si celebrava l’apoteosi del lettore-modello come autore di secondo grado, il lettore reale cominciava a scomparire o a rivolgersi ad altre modalità narrative, in particolare cinematografiche e televisive. Se si pensa alla migliore produzione romanzesca degli anni Settanta – a La vie, mode d’emploi (1978; trad. it. La vita, istruzioni per l’uso, 1984) di Georges Perec o Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino –, non è difficile constatare il declino tardonovecentesco dell’intreccio, la scomparsa di quello che Giacomo Debenedetti definiva il personaggio-uomo, la puntuale estromissione dal testo della lingua veicolare, la centralità ormai assunta dal lettore (costretto a un lavoro interpretativo assai maggiore di quello che la letteratura romanzesca aveva richiesto nella modernità) a detrimento dell’autore, il predominio della meta narrazione sull’intreccio, cioè del discorso che parla del farsi di un r. in luogo del r. stesso.
Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco, da un lato, chiude la grande stagione del postmodernismo e, dall’altro, con il suo rimarchevole successo, apre un periodo di crescita degli utili del r. sul mercato mondiale della lettura. È da quel momento che nasce il r. nella sua attuale configurazione, benché negli ultimi anni si siano avuti ulteriori, fervidi mutamenti. Possiamo battezzare come global novel (romanzo della globalizzazione) la nuova morfologia assunta dal narrare a partire dagli anni Ottanta sul modello di un testo anticipatore e straordinario come Cien años de soledad (1967; trad. it. Cent’anni di solitudine, 1968) di Gabriel García Márquez (v.).
Deterritorializzazione. – Il colossale flusso transnazionale tuttora in corso, la deterritorializzazione di intere popolazioni da un continente all’altro hanno obbligato il r. a farsi carico della descrizione di questi nuovi luoghi multietnici e della destabilizzazione delle strutture identitarie grazie a narrazioni meno legate a tradizioni letterarie nazionali, a intrecci in cui ad agire non è il ‘personaggio’ – sovrano assoluto del r. dell’Ottocento con le sue singolarità irriducibili, la sua memoria individuale e i suoi desideri più riposti –, ma intere équipes di personaggi correlati tra loro, come già avveniva nel capolavoro di García Màrquez Cien años de soledad, storia non di un singolo individuo, ma di un’intera genealogia familiare.
È da questa inedita miscela di stili di vita, tradizioni culturali e sostrati etnici che è derivato il recente assestamento del r. – cui spetta da sempre il compito di rinegoziare la memoria sociale –, a cominciare dalla prima generazione di scrittori transnazionali e cosmopoliti, quella di Vladimir V. Nabokov o di Joseph Conrad, e dalla seconda, nutrita schiera di nomadi della scrittura (basti pensare a Julio Cortázar, un argentino nato a Bruxelles e vissuto a Parigi, a Mario Vargas Llosa e a Carlos Fuentes, un messicano vissuto prima in Europa, poi in Africa e infine in Asia), cui è seguita una schiera interminabile di narra-tori che, per essere transnazionali e assegnarsi un ‘Sé’ multilocale, non hanno neppure bisogno di entrare nella fantasmagoria dei flussi migratori. Non più semplicemente scrittori che si allontanano dai luoghi d’origine, ma romanzieri translingui (Kellman 2000; trad. it. 2007, pp. 912), che scelgono cioè consapevolmente di scrivere in una lingua diversa da quella del Paese in cui sono nati: per es., il sudafricano John M. Coetzee (v., nato a Città del Capo nel 1940). Quali sono le ragioni di mutamenti così vistosi?
Un inedito connubio: romanzo e linguaggio veicolare. – Nel Novecento il r. è stato il più grande apparato di registrazione del clima di sospetto nato nei confronti del linguaggio quotidiano, accusato dai filosofi di tradire il mandato delle nostre autentiche volizioni e dai linguisti di espropriare l’autenticità dell’individuo attraverso codici di riuso, espressioni mendaci, lessemi opachi. Si pensi a Borges, John Barth, Samuel Bellow, Günter Grass e, in Italia, a Carlo Emilio Gadda: l’espressionismo linguistico, il ricorso a lingue assolute e depurate come in Samuel Beckett, o del tutto inventate secondo il memorabile esempio del joyciano Finnegans Wake (1939), hanno fatto del romanzo uno dei luoghi più elitari dell’ambito estetico contemporaneo.
Oggi sta accadendo il contrario: masse ingenti di popolazione si acculturano e trionfa il linguaggio della divulgazione, mentre in conseguenza dello spostamento massiccio delle narrazioni sui format mediali di tipo audiovisivo (si pensi ai serial televisivi) si è elevato il tasso di figuralità retorica dei testi narrativi, ma a favore non tanto della metafora bensì di figure accrescitive quali l’iperbole e, soprattutto, l’ipotiposi, come dimostra il caso fortunato di Io non ho paura (2001) di Niccolò Ammaniti (n. 1966), in cui la consanguineità tra il verbale e l’iconico mediata dall’attuale civiltà dell’audiovisivo ha favorito il suo riadattamento cinematografico (2003) da parte di Gabriele Salvatores.
Rimediazione. – Siamo così giunti a un ulteriore elemento caratterizzante della forma-romanzo odierna, la ‘rimediazione’ – processo per cui i nuovi media trasformano, traducono e rimodellano i contenuti dei media precedenti. Il r. importa nei propri territori il linguaggio delle immagini dando luogo ad autentici iconotesti, si pensi ad Austerlitz (2001; trad. it. 2002) di Winfried Georg Sebald, uno straordinario tessuto di parole e reperti iconici (fotografie, ricevute fiscali, biglietti d’ingresso ai musei) giustificato finzionalmente dal fatto che il protagonista del r. insegna storia dell’architettura a Londra. Più ancora sono significativi i graphic novels di Jiro Taniguchi, per es., Furari (2010; trad. it. Furari sulle orme del vento, 2012).
I narratori nati entro un sistema di broadcasting cinetelevisivo maturo e capillare hanno cominciato a pensare i propri testi secondo criteri transmediali che hanno indotto alcune conseguenze, tra cui: la mescolanza tra elementi tematici nuovi ed elementi tematici caratteristici di un ambito comunicativo già codificato (per es., il noir, o l’horror,
o lo splatter); la contemporanea attivazione di una memoria esoforica (che riguarda l’extratesto, la realtà quotidiana) e di una memoria endoforica (che riguarda la cultura inter-testuale del lettore); il ricorso a focalizzazioni interne multiple, cioè a punti di vista che fanno capo a personaggi che di volta in volta, spesso capitolo per capitolo, filtrano gli avvenimenti in maniera differente con effetti di de-realizzazione sul narrato; la presenza sistematica di analessi o flashback tesi a rafforzare la coesione del testo (arretrare nella storia significa anche riassumerla a beneficio del lettore) e di prolessi o flashforward per aumentare, grazie all’annuncio parziale o volutamente vago di qualcosa che accadrà, la suspense del lettore; l’adozione di personaggi il cui profilo identitario sia costruito in maniera differenziata rispetto a quello dei personaggi che operano insieme a lui, dotati in genere di un basso coefficiente valoriale (Mondi seriali, 2008, passim). L’opera dello scozzese Irvine Welsh – noto soprattutto per il romanzo Trainspotting (1993; trad. it. 1996), puntualmente ‘rimediato’ anche in versione cinematografica (1996, per la regia di Danny Boyle) e autore di A decent ride (2015; trad. it. Godetevi la corsa, 2015) – esemplifica con successo il nuovo format transmediale cui si sta avviando il global novel, proprio perché ogni capitolo è narrato da un personaggio differente.
Il realismo magico come commutatore conoscitivo. – Il r. della globalizzazione equivale oggi a una forma di sightseeing mondiale: l’‘io’ è abituato a itinerare culturalmente e a passare sin dall’infanzia da un medium all’altro, mutando la morfologia romanzesca attuale. Il global novel adotta infatti forme flessibili e meticcie di narrazione per rendere compatibili profili etnoculturali e religiosi anche molto dissimili, ed è contraddistinto da una volontà essenzialmente uniformatrice, che trova meno resistenza nei Paesi privi di una consolidata tradizione romanzesca, per es., in Sudamerica.
Proprio qui si è generato il cosiddetto realismo magico, una modalità narrativa che affianca elementi del mondo reale a elementi del mondo iporeale (quello che non si vede è più autentico di quello che si vede, come sostiene oggi il romanziere brasiliano Paulo Coelho) e del mondo iperreale (la logica della ripetizione brevettata da García Márquez e dalla sua imitatrice Isabel Allende, per es., ten de a sostenere che l’incremento di un elemento reale svela precisamente l’essenza di quella realtà). Se il realismo magico viene oggi considerato lo stile sostenibile della globalizzazione in ambito narrativo non è solo per una sua diffusa adozione anche nelle culture periferiche e nel cuore della vecchia Europa, ma in quanto svolge una funzione problem solving rispetto alla collisione di sistemi epistemologici, religiosi e culturali in origine ritenuti incompatibili.
La prima ondata di realismo magico è rimasta confina ta nei circa 20 Paesi di lingua spagnola e portoghese compresi tra Argentina e Messico, generandosi in virtù di analoghe storie di oppressione coloniale, e di una – per così dire – penuria di realtà e verosimiglianza prodottasi grazie all’azione censoria dei conquistatori coloniali sui costumi originari: tutto era ‘meticcio’ e real-magico nei romanzi di Fuentes, García Márquez o Miguel Á. Asturias. La successiva ondata ha invece riguardato l’intera sfera letteraria occidentale, e Salman Rushdie è forse oggi il migliore rappresentante di questo realismo magico di seconda generazione. Nei suoi romanzi gli elementi fantastici appaiono in un contesto urbano reale (come in Fury, 2001, trad. it. Furia, 2003, dove il protagonista è un costruttore di bambole magiche che inventa per la BBC una fortunata serie televisiva, di cui esse sono le protagoniste), o al contrario dove elementi plausibili e veridittivi contraddistinguono storie apertamente fiabesche (come The enchantress of Florence (2008; trad. it. L’incantatrice di Firenze, 2009).
La svolta ‘modale’ del global novel. – Gli intrecci romanzeschi degli ultimi anni – dai quali è pressoché scomparso il ‘tema’ per antonomasia delle narrazioni ottocentesche, l’adulterio – orientano invece i desideri verso il sapere: si desidera conoscere qualcosa, scoprire un dato mancante, costituire mappe cognitive per interpretare la realtà. Sono questi gli accadimenti del r. di ultima generazione, sia nel caso di narratori per ragioni anagrafiche già sulla via del tramonto come Philip Roth, nato nel 1933 (il vecchio, nabokoviano protagonista di The dying animal, 2001, trad. it. L’animale morente, 2002, non focalizza tanto l’attenzione sul desiderio sessuale per una sua giovane studentessa, ma vuole solo conoscere la natura dell’affezione che sollecita la studentessa a provare attrazione per lui) o Don DeLillo, classe 1936, sia soprattutto in narratori giovani e di affermato talento come Jonathan Franzen (n. 1959). In The corrections (2001; trad. it. Le correzioni, 2002) è il sapere, o meglio il voler sapere, a liberare il potenziale aneddotico di un romanzo di famiglia che ammortizza qualsiasi altro elemento valoriale nella volontà da parte di una madre tirannica di raccogliere informazioni circa i tre figli; nel più recente Freedom (2010; trad. it. Libertà, 2011) è sempre una famiglia a rappresentare un incubatore sociale.
Nel r., dunque, i desideri non sono più orientati al mondo della realtà materiale (corpi, merci, luoghi urbani), bensì a un sapere immateriale. Questa ipotesi è confermata dalla crescente diffusione, transmediale e intergenerica (cioè non ristretta a un singolo genere narrativo), di elementi morfologici caratteristici un tempo della detective story, della giallistica o del noir, innanzitutto la suspense. Tecnica morfologica e insieme strumento cognitivo, la suspense consiste nell’anticipare al lettore alcune informazioni in modo parziale e criptato: è dunque un focalizzatore percettivo che da un lato ci obbliga a misurare il tempo in attesa che accada qualcosa, dall’altro stimola la nostra attività inferenziale e previsionale al punto che è lecito vedervi un’autentica passione del sapere (già Stephen King ricorreva spesso a personaggi precognitivi, come il bambino protagonista del celebre Shining, 1977).
Di qui il proliferare di testi epistemici rivolti a lettori che desiderano/devono sapere ciò che accade a personaggi il cui unico compito è sempre e solo quello di sapere qualcosa: celebre è l’esempio di Minority report (2000; trad. it. Rapporto di minoranza, 2002), un racconto di Philip K. Dick ambientato nel 2054 e ‘rimediato’ filmicamente da Steven Spielberg (2002), in cui un ispettore di polizia previene in anticipo gli omicidi perché dispone di cervelli brevettati da bioingegneri che sono in grado di leggere il futuro. Il successo di narrato ri assai diversi tra loro, ma tutti suspense oriented caratterizza anche il mercato italiano – si pensi soltanto a Giancarlo De Cataldo, Gianrico Carofiglio, Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli –, rivelando il bisogno dei lettori di possedere mappe cognitive e previsionali che permettano di raccogliere, rielaborare e narrativizzare le informazioni necessarie alla navigazione nell’infomondo della globalizzazione.
Verso le neuronarrazioni. – Ma l’indubbia vitalità del r. dipende anche dalla crescita della domanda sociale di narrazioni: come in questi anni stanno dimostrando le neuro-scienze, la facoltà apparentemente naturale di leggere il modo di agire degli individui si ottiene solo grazie a una full immersion nella narratività perfusa del mondo quotidiano, dove racconti orali, romanzi, fiction cine-televisive, stringhe fumettistiche e resoconti dei blogger svolgono una funzione cognitiva essenziale, sono cioè una palestra che ci allena a organizzare in unità sequenziali complesse gli atomi frammentari della realtà.
In particolare, ogni volta che viviamo in prima persona, o assistiamo nel mondo transmediale a un accadimento, risulta necessario codificarlo secondo i due parametri del frame (cornice) e dello script (sceneggiatura). I frames integrano i dati della vita quotidiana, si riferiscono a oggetti statici o relazioni, sono le conoscenze implicite relative a situazioni o eventi, come, per es., ‘festa di matrimonio’, ‘festa di compleanno’. Gli scripts si riferiscono invece a processi dinamici, e cioè al modo in cui si producono attese relativamente all’ordine sequenziale in cui si verificano gli eventi (per es., in uno script come ‘andare al ristorante’ il mio orizzonte d’attesa si orienterà sulla sequenza ‘ingresso nel locale/ordinazione/consumo del pasto/pagamento al tavolo o alla cassa’). Secondo i neuroscienziati, è il ricorso congiunto al frame e allo script che ci consente di ottenere una valida rappresentazione mentale dello status in cui ci troviamo, colmando le lacune di informazione attraverso la memoria semantica (che custodisce il ricordo di frames già esperiti) per poi leggere sequenzialmente gli eventi che ci occorrono attraverso la memoria episodica (che custodisce il ricordo di scripts già esperiti). Poiché sono state registrate forti instabilità classificatorie indotte dall’attuale condizione mondiale di mobilità fisica delle popolazioni e dall’inevitabile intersecarsi di culture differenti, è grazie al r. che i lettori imparano a gestire le diverse collisioni interpersonali e comunicative cui sono quotidianamente sottoposti.
La colossale diaspora tuttora in corso (la cosiddetta ethnoscape) ha infatti generato, da un lato, un ‘Sé multilocale’ – cioè ‘comunità immaginate’ che fanno volentieri a meno di un luogo e anzi prosperano in tale assenza –, dall’altro, ‘luoghi multietnici’ e denazionalizzati, come quei ‘deserti del transito’ costituiti dalle località turistiche internazionali, le stazioni, gli aeroporti, gli ipermercati e le città del divertimento sul modello di Las Vegas, dove nessun ‘Sé’ potrebbe attecchire. L’antropologo francese Marc Augé ha elegantemente mostrato come la funzione di containers dei vecchi Stati nazionali e il dislivello tra interno ed esterno che ne derivava siano stati intaccati in maniera irreversibile dall’incremento esponenziale di nonluoghi (v.) senza relazioni abitative possibili e da masse di individui transnazionali.
Di qui il radicale mutamento della descrizione nei testi attuali e la sua sostanziale evanescenza. Nel r. moderno la descrizione svolgeva mansioni cruciali per la modellizzazione dell’intreccio (funzione dilatoria) e delle sue macrounità (funzione demarcativa), per l’interpretazione del testo (funzione indiziaria) e l’attivazione di meccanismi illusionistici (funzione referenziale): le descrizioni erano insomma un lasciapassare per rallentare la lettura, formattare gli eventi,comprendere il modo di agire dei personaggi, ‘reificare’ la narrazione sollecitando forme di empatia tra il lettore e il mondo finzionale.
Il r. della globalizzazione tende invece alla detractio (sottrazione), autentico punto di svolta di una letteratura che vuole ampliare i confini del visibile solo in quanto, trasferito ogni credito simbolico dall’attuale al virtuale, crede di poter immaginare l’esistente come se non fosse mai esistito. Come in Lunar Park (2005; trad. it. 2005) e Imperial bed rooms (2010) di Bret Easton Ellis diviene un deposito sincronico di scenari culturali in cui il mio passato è il futuro di altri luoghi, in cui ogni epoca è un ostaggio da liberare all’occasione e ogni luogo uno spazio da occupare in tempo reale. Se il sistema della cultura mondiale ha dunque favorito una generosa, incessante offerta di turismo culturale che detronizza l’esistente a favore del possibile, i r. attuali generano un profluvio di nonluoghi evanescenti e delocalizzati, in cui ogni lettore possa prendere dimora.
Bibliografia: J.D. Bolter, R.A. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.)-London 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002); S.G. Kellman, The translingual imagination, Lincoln (Nebr.) 2000 (trad. it. Scrivere tra le lingue, Enna 2007); D. Colbert, The magical worlds of Harry Potter, London 2001 (trad. it. Roma 2001); J. Franzen, How to be alone, New York 2002 (trad. it. Come stare soli: lo scrittore, il lettore e la cultura di massa, Torino 2003); D. Herman, Story logic. Problems and possibilities of narrative, Lincoln (Nebr.) 2002; C. von Barloewen, Anthropologie de la mondialisation, Paris 2003; G. Marrone, Montalbano. Affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico, Roma 2003; S. Calabrese, www.letteratura.global. Il romanzo dopo il postmoderno, Torino 2005; N. Hornby, The complete polysyllabic spree, London 2006 (trad. it. Una vita da lettore, Parma 2006); Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction, a cura di M.P. Pozzato, G. Grignaffini, Cologno Monzese 2008.