FEDERICI, Romolo
Nato a Roma nel 1825, studiò presso l'università romana. L'ascesa di Pio IX al soglio alimentò le speranze democratiche dei giovani romani, e il F. fu tra i promotori delle dimostrazioni che chiedevano al papa sostanziali riforme e la partecipazione alla guerra contro l'Austria. Nel 1848 si arruolò volontario nell'esercito pontificio: combatté a Vicenza e si distinse, il 20 maggio, nella difesa della città. Tornato a Roma, si batté in favore della Repubblica e, nel luglio 1849, fece parte della commissione che si recò dal generale N. Ch. V. Oudinot per trattare la resa.
Queste esperienze giovanili condizionarono la sua vita e il suo pensiero. Costretto ad emigrare nel 1853 dopo un lungo processo per il ruolo svolto durante gli avvenimenti del 1848-49, liquidò il patrimonio che possedeva a Roma e si stabilì a Parigi. Nella capitale francese continuò a battersi per l'indipendenza italiana: rappresentò il comitato insurrezionale romano e tenne i contatti con gli altri esuli, divenendo amico di D. Manin. Pur essendo un convinto repubblicano federalista, appoggiò la politica del Manin ritenendola necessaria per il conseguimento dell'indipendenza e si adoperò per realizzarla (Programma e circolare del Comitato romano, il 16 apr. 1853; Indirizzo al conte Cavour della emigrazione, Parigi 1856). Durante l'esilio si dedicò agli studi, maturando, a contatto con la cultura francese, il proprio pensiero. Nel 1856 pubblicò a Parigi il suo primo importante lavoro: Chronologie universelle de la civilisation ou histoire de la société resumée dans son progrès moral et industriel. Sposò la nobile Aimée Palmyre Roualle de Rouville, dalla quale ebbe una figlia, Maria.
Tornato in Italia, si presentò candidato nel gennaio 1861 nel collegio di Poggio Mirteto (Rieti); riuscì eletto, ma il 4 marzo l'elezione era annullata per irregolarità nelle operazioni di voto (non si tennero le elezioni nel collegio principale per l'invasione delle truppe pontificie); fu battuto poi nello stesso collegio, nelle successive elezioni dell'aprile 1861 e dell'agosto 1862.
Nel decennio dal 1860 al 1870 visse tra Torino, Firenze e Parigi, occupandosi di affari. Come molti esuli si estraniò dai più grossi dibattiti politici del momento e puntò tutti i suoi interessi sulla questione romana, non trascurando la difesa dei suoi compatrioti (Roma, Museo centrale del Risorgimento, lettera ad A. Bargoni, 28 luglio 1862, b. 233, n.). Sono di questo periodo infatti, oltre ad alcuni scritti minori di carattere divulgativo e propagandistico, quali Il papa sia papa e non re, Milano 1860, e Della corona di ferro e di una corona nazionale italiana a Vittorio Emanuele primo, Firenze 1861, saggi politici quali Roma e la Costituente, ibid. 1867, La proposta romana, ibid. 1869, Roma e il cattolicesimo, ibid. 1870, Le due Rome, Roma 1870.
In questi scritti l'ideale federalista viene sostenuto con vigore, per l'apporto che ogni singolo Stato federato può dare all'organismo nel suo complesso. Dopo il conseguimento dell'indipendenza, sarà necessario attuare la riorganizzazione politica dell'Italia basandola sui Comuni, unici rappresentanti della sovranità popolare. Solo da Roma, liberatasi dal potere temporale del papa e trasformata in centro di propaganda scientifica e morale, può partire l'azione per costruire il nuovo ordine politico. Perciò: "Roma non può e non deve essere acquistata dall'attuale Regno d'Italia, né conquistata dal generale Garibaldi. Roma deve, da sé, rivendicare la propria libertà e divenire iniziatrice della riforma italiana" (Proposta romana, p. 60).
L'affermazione del primato della Roma civile costituiva il tentativo di legittimare la città come capitale del nuovo Stato. Uno Stato nel quale il re fosse il difensore e il depositario del patto della nazione, basato sull'autonomia dei Municipi, che, bilanciando il potere centrale, garantiscono la libertà. Per il F. la libertà deve essere indivisibile e "non codificabile"; "le libertà concesse, misurate, regolate e legiferate sono peggiori della negazione assoluta di ogni libertà". Partendo da questo concetto critica la formula del Cavour "libera Chiesa in questo Stato", perché pone le due potenze in continuo conflitto tra loro limitando la libertà di entrambe. Auspica invece la costituzione "di una società esclusivamente temporale, né atea, né credente, la quale s'interdica la conoscenza di ogni rapporto riguardante lo spirito, una società esclusivamente formata per regolare interessi materiali, e alla quale sia inaccessibile la vita umana in tutte le sue manifestazioni morali ed intellettuali. A tutte le manifestazioni dello spirito l'inviolabilità la più assoluta: questa è l'unica base di giustizia" (Proposta romana, in Appendice a Roma e il cattolicesimo, cit., p. 66).
Nel 1870, dopo la presa di Roma, il F. tornò nella sua città. Prese parte alla commissione, istituita il 30 settembre, per i sussidi agli emigrati e fondò insieme con L. Pianciani e M. Montecchi il Circolo popolare romano. Questo, di cui il F. fu vicepresidente, divenne fl centro organizzativo dei candidati di opposizione, propulsore di ogni iniziativa laica e democratica.
Fu candidato nelle elezioni politiche dell'aprile 1871 ancora nel collegio di Poggio Mirteto; risultò eletto, ma nella seduta della Camera del 15 maggio la sua elezione fu annullata per irregolarità. Si ripresentò ancora nelle votazioni dell'11 e 18 giugno 1871, ma fu battuto a ballottaggio del gen. L. Masi. Fu la sua ultima prova elettorale, e motivo di profonda amarezza per lui che, ancora nel 1883, in una lettera a L. Pianciani, chiedeva l'appoggio di un'associazione o di un gruppo consistente di elettori per presentare la propria candidatura (Arch. di Stato di Roma, Carte Pianciani, b. 19, f. 31). Il suo radicalismo, caratterizzato da una illimitata fiducia nella libertà e nel progresso, da un laicismo intransigente e dall'adesione alla massoneria (appartenne alla loggia "Fabio Massimo"), è culturale e non riesce a risolversi politicamente, come ben aveva intuito G. Lanza, non giudicandolo un pericolo per il governo (lettera di Lanza a Q. Sella, ministro dell'Interno dell'11 nov. 1870: Roma, Arch. di Stato, Luogotenenza del Re, v. 52, f. 4).
Tornato a Parigi, preparò il suo saggio più importante, Le leggi di progresso, concepito in più volumi, di cui il primo, Esperienze della storia (pubblicato a Roma nel 1876 e a Parigi nel 1888), rappresentava la premessa al secondo, Le deduzioni dai fenomeni naturali (pubblicato a Roma nel 1885), nel quale venivano cercate le leggi generali del progresso.
In questi scritti il F. si riavvicinava al pensiero filosofico di G. Ferrari, criticando però l'impostazione fatalista di derivazione vichiana: sosteneva l'esistenza di qualche cosa di stabile e permanente che regola lo sviluppo delle società ed è costituito dalle conoscenze della natura successivamente elaborate dall'uomo. La trasmissione del progresso segue da una unità alle altre, quindi l'io collettivo continua ad ingrandire per le singole elaborazioni delle unità, ma è incapace di trasmetterle per sé stesso. Questa unità umana collima con l'unità della natura che "si riproduce molteplice quanti sono gli esseri senzienti, ciascuno aggiungendovi qualcosa della propria individualità" (Le deduzioni dei fenomeni naturali, cit., p. 76).
Fa suo il criterio della scuola psicologica, deducendo dall'osservazione dei fenomeni la coscienza dell'unità. Per il F. è il linguaggio a rendere possibile la collaborazione di più intelletti e quindi la formazione dell'io collettivo. Con esempi tratti dalla storia dimostra come la decadenza delle società sia inevitabile se queste accordano predominio esclusivo ad un solo elemento della loro attività. Da qui la critica al darwinismo che oppone al progresso nella solidarietà, auspicato dal F., il progresso nella lotta. Soltanto la società morale possiede la facoltà di prescrivere le regole proprie a raggiungere il progresso umano: "Siccome la collettività morale esige imperiosamente che tutte le forze fisiche dell'uomo concorrano al costante suo sviluppo, così essa è chiamata a contribuire con tutti i suoi elementi al miglioramento dell'uomo, nelle sue abitudini e bisogni sensitivi. Che uno solo di tali elementi venga soppresso, ed il risultato rimarrà inferiore a quello proposto. L'umano progresso quindi riposa tutto intiero sulla continua e universale ricerca, la quale altro non è che la "libertà" lo stato cioè di pieno svolgimento della comunità intellettuale" (Le deduzioni dai fenomeni, pp. 246 s.).
I suoi studi sul progresso umano e le sue leggi rimasero interrotti per la morte, avvenuta a Parigi il 27 sett. 1886.
Fonti e Bibl.: Alle fonti già citate si aggiungano: Locarno, Archivio Pioda (nelle carte della figlia Maria sposata G.B. Pioda); Arch. di Stato di Roma, Ministero delle Armi, Volontari delle campagne1848-49, b. 1. Si vedano inoltre F. Pedrotta, Esuli politici romani del Risorgimento, in Rass. stor. del Risorgimento, XXVII (1940), pp. 1032 s.; L. Bulferetti, Ideologie socialistiche in Italia nell'età del positivismo evoluzionistico (1870-1892), Firenze 1951, pp. 72 n., 185 n.; C. Pavone, Le prime elezioni a Roma e nel Lazio dopo il XX settembre, in Arch. della Soc. romana di storia patria, s. 3, XVI-XVII (1962-63), pp. 321-442; F. Bartoccini, La Roma dei romani, Roma 1971, pp. 79, 449, 451; A. Brunialti, Annuario biogr. universale, Torino 1888, III, pp. 226 s.; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Roma 1896, pp. 450 s.; G. Casati, Diz. degli scrittori, Milano 1926, III, p. 275. Sui suoi scritti di sociologia del progresso si vedano alcune recensioni: I. Ciampi, in Nuova Antologia, giugno 1876, pp. 438 s.; G. Rosa, in Arch. stor. ital., s. 3, XXV (1876), pp. 148 ss., e in Riv. di filosofia scient., IV-V (1884-85), pp. 335-338; La Civiltà cattolica, s. 9, IX (1876), p. 74; La Nuova Antologia, 1º aprile 1885, pp. 558 ss.