ROSA da Viterbo, santa
ROSA da Viterbo, santa. – Nacque a Viterbo nel 1233, secondo la tradizione che la vuole diciottenne (la giovane età, benché non precisata, risulta confermata dalla bolla Sic in Sanctis suis e dalla Forma interrogatorii del 1252, le più antiche testimonianze su Rosa, circa il primo processo di canonizzazione intentato) nel 1251, anno assai probabile – pur mancando documentazione precisa – della sua morte.
Tra le principali fonti che consentono di ricostruire la vicenda umana di Rosa, due si presentano quali testimonianze narrative, propriamente agiografiche. La Vita I – racconto mutilo (nell’incipit e nella conclusione) immediatamente successivo alla metà del XIII secolo – risulta essere la più attendibile sia per la vicinanza temporale ai fatti sia per una verosimiglianza descrittiva non ancora intaccata da forme agiografiche; che si tratti di una narrazione privata o di un documento approntato in vista del processo di canonizzazione fortemente richiesto al papa Innocenzo IV nel 1252 (i cui atti non ci sono pervenuti), essa rivela una precisione cronologica e una conoscenza dettagliata dei fatti rese possibili da una testimonianza diretta – forse familiare – circa la figura storica di Rosa.
Meno attendibile al fine di ricostruirne gli aspetti biografici è la più tarda e disomogenea Vita II (anonima, inizio XV secolo) – che riprende, rielabora e completa, tratteggiando le ultime vicende della vita di Rosa, la Vita I e attinge ad altre testimonianze scritte e orali che dovevano aver prodotto un’altra biografia (andata probabilmente perduta – non è escluso assieme agli atti del processo innocenziano – secondo una testimonianza processuale, nell’incendio del 1357: Abate, 1952, pp. 27 ss.).
Una terza fonte, di natura diplomatica, è costituita dagli atti di un processo (inconcluso) del 1457, sotto papa Callisto III – dei quali si conservano sia i verbali originali sia quelli destinati a Roma, sebbene mai trasmessi –: esso produsse 264 testimonianze (Acta Sanctorum, 1748, pp. 477-479), di fatto ben poco attendibili e piene di incongruenze, per la distanza di tempo non trascurabile dai fatti di cui Rosa fu protagonista. Tali testimonianze sono evidentemente espressione di una tradizione orale fortemente rielaborata.
Da una deposizione del processo del 1457 risultano i nomi probabili dei genitori di Rosa (ibid., p. 442). La famiglia possedeva una casa (individuabile nell’attuale edificio inglobato nel monastero dedicato alla santa) nel quartiere periferico di S. Matteo in Sonza, della parrocchia di S. Maria in Poggio (Vacca, 1982, p. 70); inoltre un asino, e forse un pezzo di terra fuori delle mura (d’Alatri, 1979, p. 347).
L’evento principale della vita di Rosa (con esso si apre il racconto della Vita I) fu una grave malattia che la costrinse a letto; la fase culminante si ebbe tra martedì 21 e mercoledì 22 giugno 1250, come precisa scrupolosamente la fonte indicando non solo i giorni della settimana ma anche riferendosi al digiuno di Rosa per l’imminente vigilia di s. Giovanni Battista (Abate, 1952, p. 147).
Rosa era affetta – come testimonia la reliquia del suo corpo (sintesi degli studi in La mummia di Santa Rosa, 2000) – da una grave malattia congenita, individuata nella sindrome di Cantrell, che determina cardiopatie invalidanti e deformazioni toraciche. La documentata sofferenza fisica ha un indiretto ma certo legame con la vicenda spirituale (Boesch Gajano - Marino, 2011-2012, anche per una bibliografia medica).
Il peggioramento dello stato di salute (Abate, 1952, p. 227) contribuì a determinare un’agonia fatta di visioni di morti; tuttavia, nella notte, mentre era assistita dalla madre – figura dominante, e probabilmente fonte, del racconto biografico confluito in questa Vita – e da «multae aliae mulieres» (ibid.), Rosa, dopo aver rifiutato il cibo perché già vigilia del giorno di festa, miracolosamente riprese vigore lodando la Vergine Maria e s. Anna e ricordando, nella preghiera, la crociata in corso di re Luigi IX (p. 228; entrambi temi tipici della predicazione minoritica). Rosa, dopo aver recitato, prostrata a terra, una formula di rinuncia ai beni del mondo, chiese alla madre di ricevere – secondo gli ordini ricevuti dalla Vergine – la tonsura, il cingolo (ottenuto adattando una corda d’asino) e la «tunica de cilicio» che una donna (tale Sita, subito accorsa) conservava presso il proprio letto; secondo la Vita II il rito fu invece celebrato di giorno, dal clero, nella chiesa parrocchiale (pp. 235-237).
Questa vestizione privata, la richiesta della quale incontrò le resistenze della stessa Sita, non ha riscontri precisi nella trafila ordinariamente prevista per i fratelli e sorelle della penitenza. Peraltro, i particolari descrittivi delle due Vite – pur in assenza di menzioni esplicite – consentono di individuare un’appartenenza di Rosa al terz’ordine francescano (appartenenza poi data per scontata dal processo quattrocentesco e dalle successive agiografie) nelle sue forme originarie ancora generiche. Si può ritenere dunque che Rosa sia stata una penitente (Casagrande - Rava, 2012, p. 1032), espressione di un movimento penitenziale femminile di incerto legame con i penitenti francescani. La storiografia si è divisa su questo punto: André Vauchez (in Movimento religioso femminile e francescanesimo nel secolo XIII. Atti del VII Convegno internazionale... 1979, a cura di R. Rusconi, Assisi 1980, p. 352) e Anna Maria Fabbri (Vita di una santa..., 1999, p. 21) hanno parlato con una certa cautela di terziaria della corrente mistica, ma Stanislao da Campagnola in precedenza ha preferito parlare di religiosità femminile individuale (L’‘Ordo Poenitentium’ di san Francesco nelle cronache del Duecento, in Collectanea Franciscana, 1973, vol. 44, pp. 145-179, in partic. pp. 157 s.), Enrico Menestò (1998) di «religiosae mulieres» (p. 1745) e Romana Guarnieri (Donne e Chiesa tra mistica e istituzioni (secc. XIII-XV), Roma 2004) di «bizzoca» (p. 333). In ogni caso non c’è alcuna evidenza dell’esistenza a Viterbo a metà Duecento di un ramo femminile del movimento penitenziale di orientamento minoritico (pp. 327-336).
Ma la dimensione privata si trasformò immediatamente in un evento pubblico. Rosa rese noto alle «mulieres» della contrada (Abate, 1952, p. 228), convocate in casa propria, l’invito della Vergine a intraprendere una processione penitenziale – ornata dell’abito ricevuto, dunque pubblica e solenne – nel corso della quale avrebbe dovuto percorrere l’itinerario cittadino che collegava le chiese di S. Giovanni in Zoccoli, di S. Francesco (legate alla presenza dei frati minori) e la parrocchiale di S. Maria in Poggio. Ciò avvenne il giorno seguente; dopo la processione (compiuta reggendo una maestà o crocifisso), la casa di Rosa divenne meta di molti devoti e – nonostante le prime forti opposizioni (tra le quali, secondo uno scontato topos agiografico, quella del padre) – la giovane chiese e ottenne la benedizione dei genitori, dei presenti e di un prete (garanzia, quest’ultimo, di autenticità e legittimazione gerarchica della sua esperienza; Piacentini, 1983, pp. 21-23).
Il gruppo di donne che circondava Rosa (non organizzate in domibus propriis ma che sembrano vivere come una comunità; cfr. R. Rusconi, L’espansione del francescanesimo femminile nel secolo XIII, in Movimento religioso femminile cit., pp. 263-316, in partic. p. 306) si presenta, dunque, come uno di quei tanti raggruppamenti penitenziali femminili che ravvivarono la vita religiosa nel XIII secolo. Lo stesso ambito di composizione e fruizione della Vita I fa riferimento a esse, quale racconto approntato – sulla scorta delle testimonianze familiari di Rosa – dall’interno del movimento religioso e devozionale; non possiamo escludere che il racconto provenga proprio da quel Pietro Capotosto, sacerdote di S. Maria in Poggio, che organizzò la prima devozione nei confronti di Rosa e che, favorevole alla rapida canonizzazione di questa, ne raccontò la vicenda come eccezionale e unica (G. Casagrande, Il Terz’Ordine e la beata Angela. La povertà nell’Ordine della non-povertà, in Angela da Foligno da figlia del popolo a maestra dei teologi, Foligno 2009, pp. 17-38, in partic. p. 37).
Un terzo momento va individuato in un tentato consolidamento istituzionale dell’esperienza di Rosa. A causa di un’esperienza mistica vissuta con ogni probabilità nella propria chiesa parrocchiale (ove si era recata con alcune donne per svolgere con esse un apostolato attivo), ella fu costretta a letto per tre giorni, in seguito ai quali si verificò un evento miracoloso, di cui fu unica testimone la madre: Rosa chiese un rametto di menta da applicare sul petto per alleviare il dolore – come prescriveva la pratica terapeutica –, quindi lo restituì alla madre rendendole noto come Gesù avesse benedetto sia il ramo di menta sia «unum ex lateribus huius domus quae permanebit in monasterio meo» (Abate, 1952, p. 230). La vicenda (che la successiva Vita II omette completamente) è rimarcata dal compilatore della Vita I, con sottolineatura evidente del riferimento all’acquisizione materiale e cultuale della casa di Rosa per istituirvi un monastero. Il progetto fu però negli anni immediatamente successivi (1253-55) fortemente avversato dalle francescane della vicina chiesa di S. Maria e dalla Curia romana che ne difese le prerogative (pp. 160-164).
Forse il monastero cui si fa cenno potrebbe essere identificato con quello voluto da Capotosto (Vacca, 1982, pp. 138 ss.; A.M. Fabbri, Vita di una santa..., cit., pp. 12 s.); in ogni caso, soltanto nel 1661 la casa natale di Rosa diventerà parte integrante, benché perimetrale, dell’attuale monastero a lei dedicato.
Un’altra componente ‘pubblica’ dell’esperienza di Rosa è legata alla dimensione dell’ortodossia. Rosa iniziò «assidue, cum cruce in manibus» (Abate, 1952, p. 230), per le strade di Viterbo un apostolato che sarebbe durato per circa sei mesi; tuttavia, il podestà Mainetto di Bovolo, che reggeva la città per conto dell’imperatore Federico II, fu sollecitato – «a quibusdam haereticis, qui in eadem civitate publice tunc temporis morebantur» (ibid.) – a esiliare la fanciulla.
Sebbene nella Vita II non manchi un esplicito richiamo alla predicazione antiereticale di Rosa, ella dovette farsi interprete semplicemente di una testimonianza umile e penitente della fede ortodossa (Pryds, 1998, p. 167 nota 5) benché in chiave esplicitamente antiereticale (come emerge già dalla Vita I e dalla bolla del 1252; sulla pacificazione antiereticale garantita dal processo di canonizzazione di Rosa cfr. Ilarino da Milano, Dualismo cataro e francescanesimo inquisitoriale a Viterbo nel secolo XIII, in Atti del Convegno di studio. VII centenario del 1° conclave (1268-1271), Viterbo 1975, pp. 173-197, in partic. p. 184; per Roberto Paciocco, Perfette imperfezioni. Santità e rivendicazioni papali nell’Italia centrale intorno al 1252, in Studi medievali, s. 3, XLIX (2008), 2, pp. 711-727, in partic. pp. 719 ss., invece, esclusivamente dettata da un bisogno dominativo della Chiesa; più accorte a tal riguardo Casagrande - Rava, 2012, p. 1018 nota 2), rappresentando, a ogni modo, un serio pericolo per quella comunione di intenti e per le alleanze cittadine che spingevano alla collaborazione l’aristocrazia filoimperiale della città e gli esponenti dell’eterodossia, principalmente catara (R. Manselli, Viterbo al tempo di Federico II, in Atti del Convegno di studio, cit., pp. 7-20, in partic. p. 18; sulla presenza ereticale nel comune della Tuscia, cfr. Ilarino da Milano, Dualismo cataro, cit., pp. 175 ss.).
Nonostante le resistenze dei familiari (padre compreso), Rosa fu bandita e la prima tappa dell’esilio fu il castello di Soriano, sui monti Cimini, proprietà dei ghibellini Guastapani; giungendovi – il 5 dicembre 1250, vigilia di s. Nicola – profetizzò un grande evento, e dopo non molti giorni – prosegue il racconto – giunse da Viterbo la notizia della morte dell’imperatore Federico II (13 dicembre 1250). Dopo una decina di giorni, Rosa e i suoi si trasferirono a Vitorchiano, a pochi chilometri da Viterbo (e dunque sulla strada del rientro in città, Mincuzzi, 2000, p. 67). Ivi rimasero tre giorni, come attesta un frammento della Vita I tràdito dalla seconda biografia presente agli atti del processo del 1457 (Abate, 1952, p. 123, n. 29). Questa tarda e rimaneggiata fonte (dalla quale bisogna espungere i diciassette miracoli post mortem collocabili cronologicamente nel Trecento e geograficamente in Germania, ove il culto di Rosa si diffuse mediante canali minoritici) ci informa dei miracoli compiuti da Rosa a Vitorchiano (già dipinti sulla nuova cassa di legno del 1358 che ne custodiva le spoglie: cfr. Piacentini, 1991, pp. 58 s.).
Si tratta della guarigione della cieca Delicata e dell’ordalia, ossia della prova del fuoco alla quale Rosa si sottopose – qui secondo gli stilemi del racconto agiografico – al fine di convertire all’ortodossia un’eretica (verosimilmente una catara, in considerazione della sua preparazione teologica). Sempre secondo il racconto della Vita II, altri miracoli compiuti da Rosa sono la guarigione del cieco Andrea e la punizione di un uomo indevoto (sui miracola antiqua – in vita, in morte e dopo morte – cfr. ibid., pp. 107-112, in partic. p. 109 per i miracoli ascritti dallo studioso alla tradizione popolare).
La fonte non fa cenno al rientro in Viterbo, ma qui si colloca la richiesta di Rosa di condurre vita claustrale presso le damianite di S. Maria. Al loro rifiuto (motivato dall’assenza di posti in convento, ma secondo una testimonianza processuale, Abate, 1952, p. 263, dalla mancanza di dote) la giovane profetizzò – secondo la più tarda Vita II – la traslazione del proprio corpo all’interno del monastero. L’episodio appare plausibile, inserendosi nello scenario di quel riflusso del movimento penitenziale femminile che sospinse non poche donne a entrare nei conventi di quei mendicanti che avevano generato le esperienze di spiritualità laicale; e in ogni caso esso è conforme alle strategie sottese alla redazione della Vita II, compilata quando si puntava alla canonizzazione di Rosa.
Infine, non appare databile, neppure approssimativamente, un’altra scelta penitenziale che Rosa avrebbe fatto, quella della carcerazione volontaria. La tradizione di questa sua ulteriore esemplare esperienza (documentata dalla Vita II – cfr. Casagrande - Rava, 2012, pp. 1021-1025 –, e comunque diffusa nella Viterbo di metà Duecento) proviene dal processo quattrocentesco e resterà viva e consolidata nella tradizione cittadina, così da essere ripresa dall’agiografia successiva.
La morte di Rosa avvenne nella primavera del 1251; terminus post quem la morte di Federico II (dicembre 1250), ante quem la bolla Sic in Sanctis suis (25 novembre 1252). Fu sepolta in S. Maria in Poggio (Abate, 1952, p. 214), dove il suo corpo giacque per diciotto mesi (il lasso usuale tra la dipartita e l’inspectio corporis in vista della canonizzazione). La bolla del 1252 accenna già a un culto di veneranda memoria.
Le apparizioni di Rosa al pontefice Alessandro IV – trasferitosi con la Curia a Viterbo tra il 1257 e il 1258 – avrebbero determinato la decisione papale di traslare le spoglie mortali della vergine (sulla vicenda storica delle quali cfr. E. Piacentini, in La mummia di Santa Rosa, 2000, pp. 13-27) presso le damianite. L’evento si concretizzò nel 1258 – non va escluso allo scopo di concludere la complessa vertenza tra le damianite e Capotosto –, quando il papa era in procinto di rientrare a Roma. Di esso si fa ancora oggi memoria a Viterbo con il trasporto del 4 settembre della ‘Macchina di s. Rosa’, ininterrottamente documentato dal XVII secolo.
Fonti e Bibl.: Le principali fonti – Sic in Sanctis suis e Forma interrogatorii (in Città del Vaticano, Archivio Vaticano, Regesto, Inn. IV, A X, Ep. 240, c. 219r; Ep. 241), Vita I e Vita II (Viterbo, Archivio del monastero di S. Rosa, Diplomatico, s.n., e Fondo Antico, ms. 2 palch. 7, n. 163, cc. 57-74) – sono tutte edite in G. Abate, S. R. da Viterbo, terziaria francescana (1233-1251). Fonti storiche della vita e loro revisione critica, in Miscellanea francescana, LII (1952), 1-2, pp. 113-278 (con una bibliografia dei precedenti scritti biografici su Rosa tra XIII e XX secolo alle pp. 115-129). Ivi si menziona anche un manoscritto parigino riproducente le due Vite e gli atti processuali. Cfr. anche P. Innocenti, Santa R. da Viterbo nei documenti del suo tempo, Viterbo 1976, pp. 8-14. Per la Vita I, cfr. anche A.M. Fabbri, Vita di una santa. Aspetti della Vita I di s. R., in Santa R.: tradizione e culto. Atti della Giornata di studio..., Viterbo... 1998, a cura di S. Cappelli, I, Roma 1999, pp. 11-30. Per la Vita II, cfr. anche P.F. Bebiano Alunni Serra, L’archivio del monastero delle Clarisse di Santa R. di Viterbo, in Vite consacrate: gli archivi delle organizzazioni religiose femminili. Atti dei Convegni... Spezzano-Ravenna... 2006, a cura di E. Angiolini, Modena 2007, pp. 113-146, e in traduzione E. Piacentini, Santa R. da Viterbo (biografia critica). La contromenta ovvero la fantastoria di Anna Maria Vacca, Viterbo 1983, pp. 133-168 (in collazione con una Vita III, cinquecentina trascrizione della Vita II). Infine, degli Atti del Processo callistiano (Viterbo, Archivio del monastero di S. Rosa, ms. 2, palch. 7) un’ampia scelta è edita in Acta Sanctorum, Sept., II, Antwerpiae 1748, pp. 442-479 (cfr. G. Abate, S. R. da Viterbo, cit., pp. 253-268).
Nella vasta bibliografia si segnalano: G. Abate, S. R. da Viterbo, terziaria francescana (1233-1251), cit.; M. Signorelli, Santa R. da Viterbo, Viterbo 1963; Mariano d’Alatri, R. da Viterbo tra mito e storia, in Fatti e figure del Lazio medievale, a cura di R. Lefevre, Roma 1979, pp. 345-354; A. Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après le procès de canonisation et les documents hagiographiques, Rome 1981, ad ind. e s.v. Rose de Viterbe; A.M. Vacca, La menta e la croce. S. R. da Viterbo, Roma 1982; E. Piacentini, Santa R. da Viterbo (biografia critica), cit.; Id., Il libro dei miracoli di santa R. da Viterbo, Viterbo 1991; G. Barone, R. v. Viterbo, in Lexikon des Mittelalters, VII, München 1995, coll. 1027 s.; J.-M. Weisen-beck, Rose of Viterbo: preacher and reconciler, in Clare of Assisi: a medieval and modern woman, a cura di I. Peterson, New York 1996, pp. 145-156; E. Menestò, R. da Viterbo, in Il grande libro dei santi, a cura di C. Leonardi - A. Riccardi - G. Zarri, III, Cinisello Balsamo 1998, pp. 1742-1747; D. Pryds, Proclaiming sanctity through proscribed acts: the case of Rose of Viterbo, in Women preachers and prophets through two millennia of christianity, a cura di B.M. Kienzle - P.J. Walker, Berkeley 1998, pp. 159-172; E. Piacentini, Santa R. da Viterbo: culto liturgico e popolare, Viterbo 1999 (in forte polemica con Vacca, 1982); Santa R.: tradizione e culto. Atti della Giornata di studio..., Viterbo... 1998, a cura di S. Cappelli, I, Roma 1999; R. Mincuzzi, Santa R. da Viterbo penitente del XIII secolo, in AnalectaTor, XXXI (2000), 165, pp. 7-120; La mummia di Santa R. da Viterbo. Antropologia, Restauro e Conservazione, a cura di L. Capasso, Viterbo 2000; A. Esposito, Miracoli con il signum. Due casi a confronto: R. da Viterbo e Simonino da Trento, in Notai, miracoli e culto dei santi: pubblicità e autenticazione del sacro tra XII e XV secolo. Atti del Seminario internazionale..., Roma... 2002, a cura di R. Michetti, Milano 2004, pp. 343-368 (in partic. pp. 345-357); K. Ruh, R. von Viterbo, in Verfasserlexikon, XI, Berlin 2004, col. 1332; S. Boesch Gajano - B. Marino, «Il mistero del cuore» di santa R. da Viterbo, in Sanctorum, VIII-IX (2011-2012), pp. 177-190; G. Casagrande - E. Rava, Santa R. e il fenomeno della reclusione volontaria a Viterbo, in Hagiologica. Studi per Réginald Grégoire, a cura di A. Bartolomei Romagnoli - U. Paoli - P. Piatti, II, Fabriano 2012, pp. 1017-1032; A.M. Valente Bacci, Una leggenda tedesca di Santa R. (secolo XV). Codex sangallensis 589, Viterbo 2012; A. Vauchez, R. da Viterbo, una santa per la città, Viterbo 2015.
Resta incerta la datazione della prima iconografia di Rosa sul frammento pergamenaceo della Vita I, mentre sul ciclo pittorico non conservato di Benozzo Gozzoli, si veda F. Papi, Il ciclo di Santa R. a Viterbo, in Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria, a cura di B. Toscano - G. Capitelli, Cinisello Balsamo 2002, pp. 219-229. È in corso (ottobre 2016-giugno 2017) un laboratorio della Scuola superiorie di studi medievali e francescani (Roma, Pontificia Università Antonianum) sulla Vita II.