GENONI, Rosa
Rosa Angela Caterina Genoni nacque il 16 giugno 1867 nell’antico borgo lombardo di Tirano in provincia di Sondrio da una famiglia modesta. Il padre Luigi faceva il calzolaio e la madre Anna Margherita Pini, originaria di Grosio, la sarta (Fiorentini, 1996). Rosa fu la primogenita di ben diciannove figli di cui solo dodici sopravvissero. Frequentò la scuola sino alla terza elementare e dunque sapeva leggere e scrivere. A soli dieci anni, nel 1877 si trasferì a Milano presso una zia per lavorare come ‘piscinina’ in un laboratorio di sartoria.
Erano allora molte le donne e le bambine operarie che lavoravano nel mondo del tessile e della moda. Le ‘piscinine’, le apprendiste a cui venivano assegnate varie incombenze e compiti tra cui tenere in ordine il laboratorio e consegnare gli abiti ai clienti, erano la parte più vulnerabile di questa forza lavoro. Vi sono fotografie e quadri che le rappresentano, come quello famoso del pittore milanese Emilio Longoni (1859-1932) intitolato appunto La piscinina (1891), ma anche una foto tratta dal Civico archivio fotografico di Milano in cui appare una piscinina che indossa un vestitino modesto e trasporta il gran pacco insieme alla sua ‘maestra’, la sarta con cui si accompagna per la consegna del lavoro al domicilio della cliente.
I salari erano minimi e la giornata di lavoro era lunghissima. A quel tempo le industrie prevalenti in Italia erano quelle della seta, del cotone e della lana che poi producevano i principali prodotti di esportazione. In tale contesto, l’industria tessile italiana assorbiva soprattutto manodopera femminile. Alla fine del XIX secolo infatti si contavano, su scala nazionale, un milione e mezzo di donne lavoratrici nell’industria dell’abbigliamento, mentre gli uomini che lavoravano in questo settore erano solo 125.000. Secondo un sondaggio sull’occupazione nelle industrie del 1876, su un totale di 382.000 lavoratori, 230.000 erano donne (S. Wood, Italian Women’s Writing 1860-1994, London 1995, p. 4) che formavano il 60% del totale della forza lavoro nelle fabbriche. Le donne impiegate nel commercio della moda a Milano tra il 1881 e il 1910 erano circa l’85% dell’intera forza lavoro (Boneschi, 2014, p. 208). Non a caso questo fu un momento storico caratterizzato da una massiccia immigrazione italiana (1880-1920) negli Stati Uniti, Canada, Sud America, e Australia. In quest’ultimo Paese infatti si trasferirono anche alcuni fratelli di Genoni: Emilio prima e successivamente Ernesto. Oltre che nei lavori in fabbrica, le donne erano coinvolte in diversi tipi di impiego professionale correlati alla produzione di biancheria, e impiegate come stiratrici, ricamatrici e ai ruoli di piscinina, maestra e première. Questo fu anche il percorso di Rosa Genoni.
La Milano in cui ormai viveva era una città in pieno fermento nel campo del commercio, dell’editoria, dell’industria e delle arti mentre il suo hinterland costituiva un importante centro di produzione del tessile destinato a rivelarsi di primaria importanza per il lancio della moda italiana. Milano fu anche al passo delle altre capitali europee per lo sviluppo dei grandi magazzini: nel 1879, aprì infatti in città anche il grande magazzino Aux Villes d’Italie dei fratelli Bocconi, che divenne poi La Rinascente.
L’ultimo decennio del XIX secolo fu cruciale per l’apprendistato di Genoni, non solo dal punto di vista della sua formazione di sarta e creatrice di moda, ma anche per il suo graduale processo di emancipazione politica e femminista. Il legame di Genoni con il femminismo storico è particolarmente importante per comprendere gli anni intorno alla prima guerra mondiale e il suo impegno nell’ambito del pacifismo internazionale che vide le donne vere protagoniste.
Rosa si immerse nel lavoro di sartoria, mentre a fine giornata frequentava la scuola serale per conseguire la licenza elementare nel 1877-78. In seguito agli inizi degli anni Ottanta cominciò a frequentare i circoli operai ove incontrò una delle madri del femminismo italiano, Anna Kuliscioff, con la quale strinse un legame di amicizia che sarebbe durato tutta la vita. A diciotto anni diventò ‘maestra’ nell’atélier Dall’Oro. Si iscrisse inoltre a un corso di lingua francese organizzato dalle scuole comunali: il francese era allora la lingua internazionale della cultura ma anche della moda.
Questa sensibilità e queste qualità le consentirono di prendere parte alla lotta per l’emancipazione delle donne, specialmente delle lavoratrici con cui condivise il lavoro e la rivendicazione del diritto a ricevere un’istruzione e a partecipare alla vita pubblica. Tra il 1884 e il 1885 fu invitata dal Partito operaio italiano a partecipare a un congresso internazionale sulla condizione operaia a Parigi. Questo viaggio segnò un momento decisivo della sua formazione determinando anche una svolta fondamentale nella sua vita. Dopo il congresso decise infatti di prolungare il suo soggiorno a Parigi (fino al 1888), la capitale della moda e della modernità.
L’Italia a quel tempo, pur avendo degli artigiani meravigliosi e delle sartorie specializzate, produceva soprattutto copie di modelli parigini. S’importavano i figurini che poi le sartorie realizzavano per le clienti facoltose. Nonostante ci fossero stati vari tentativi da parte di riviste come Margherita (dal nome dalla regina d’Italia), e altre iniziative di diffondere l’idea di una moda italiana e naturalmente di produrla, i tempi non erano ancora maturi. In Italia mancava la consapevolezza di una cultura della moda legata ai processi identitari della nazione, come invece era maturata in Francia a partire dal XVII secolo.
Il viaggio e la permanenza di Genoni a Parigi furono provvidenziali perché le consentirono di conoscere un sistema della moda organizzato e moderno che fremeva di una grande creatività. E a Parigi non solo imparò metodi di lavoro nuovi, ma ebbe anche la possibilità di mettere a frutto le sue idee e i suoi progetti. Trovò lavoro presso una sartoria italiana, e poi anche in un atelier di rue de la Paix ove si impratichì nel disegno tecnico e creativo, e apprese i metodi della elaborata catena produttiva e del processo creativo nella realizzazione degli abiti. Le interessò, in particolare, perfezionare le tecniche di confezione e di ricamo. Come riporta un documento della figlia, Fanny Podreider (disponibile sul Portale degli Archivi della moda del Novecento), Rosa lavorò presso note e affermate case di moda che le consentirono di familiarizzare con le metodologie di disegno e le strategie del marketing. In quest’ambito i francesi erano maestri, come il noto Paul Poiret, uno dei primi che per pubblicizzare le sue collezioni, inviava le modelle nei luoghi del bel mondo parigino perché esibissero le sue creazioni.
A Parigi Genoni comprese che il disegno e la produzione dell’abito erano il risultato di un lavoro di squadra e che la conoscenza della tradizione e della storia delle arti erano una componente cruciale del processo creativo di un abito o di una collezione. Grazie a questa esperienza all’estero, capì quanto la moda fosse intimamente collegata alla storia di una nazione e di un popolo. Da qui la sua riflessione sull’Italia e sul progetto, abbracciato in seguito, della creazione di una moda italiana che si sposasse organicamente a una coscienza della propria identità e capacità professionale ed estetica. Ma fu proprio di Genoni anche il tentativo, negli anni che seguirono il suo rientro in Italia, di fissare un racconto della moda italiana creando un programma didattico di storia della moda che in Italia non esisteva. Infatti sebbene il made in italy come marchio collettivo sarebbe stato lanciato solo dopo la seconda guerra mondiale, ha una storia lunga e complessa che affonda le sue radici nelle botteghe artigiane medievali e rinascimentali della penisola. Di ciò Genoni fu consapevole e lo espose chiaramente nei suoi scritti, trovando al tempo stesso la prima fonte di ispirazione dei suoi abiti nella grande tradizione rinascimentale.
Dopo il rientro a Milano nel 1888, la sua passione per la moda, l’attivismo politico e il femminismo si alimentarono reciprocamente e diventarono la base per la battaglia di Genoni per la creazione di una moda italiana, diversa e indipendente dalla moda parigina.
Nello stesso anno, la sartoria Bellotti le offrí un lavoro fisso come specialista nella creazione di sontuosi costumi per i balli al teatro La Scala durante la celebrazione del carnevale, un periodo in cui le case di moda e le sartorie della città lavoravano freneticamente. Ma la sontuosità dei costumi che creava per l’alta società milanese non le fece ignorare le condizioni difficili in cui vertevano gli operai e le donne che confezionavano quegli stessi vestiti. Infatti, dal 1893 partecipò alle molte battaglie e rivendicazioni che coinvolgevano i primordi della Lega femminile o Lega promotrice degli interessi femminili fondata a Milano nel 1881 da Anna Maria Mozzoni, con la quale Genoni partecipò al Congresso socialista di Zurigo nel 1893. La Lega raggruppava sarte e modiste e occupò un ruolo chiave nel collegare le lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento e tessile con il movimento per l’emancipazione delle donne e la lotta per l’uguaglianza e il diritto all’istruzione. Le donne e le sarte impegnate nelle battaglie operaie chiedevano infatti di essere riconosciute nella loro soggettività e dignità di lavoratrici. Al riguardo Anna Kulishoff scrisse un importante documento intitolato Alle sarte di Corso Magenta (1898), l’appello fatto dalla Lega femminile evidenziò la consapevolezza delle condizioni del loro lavoro e quella dell’orgoglio della loro produzione artigianale: «Facciamo vedere che anche noi siamo vive, che abbiamo una coscienza, che la nostra dignità si ribella alla oppressione e alla noncuranza con cui siamo trattate. Da questa lotta trarremo energia e coraggio per assurgere a maggiori aspirazioni, le quali ci spingeranno alla ultima conquista: alla parità di diritto con l’altro sesso» (cit. in Imprenti, 2007, p. 154).
Nonostante le buone intenzioni, risultò molto difficile organizzare le numerose sarte che allora lavoravano nei laboratori delle città, a causa dei profondi pregiudizi sociali nei loro confronti come donne operaie nel campo della moda. C’era infatti una discriminazione di genere verso il mestiere del sarto e della sarta. Benché entrambi fossero organizzati in una lega e i loro diritti venissero rivendicati in una pubblicazione chiamata Il Sarto, permanevano ambiguità di giudizio sulla professione se eseguita da un uomo o da una donna. Infatti, alcuni articoli nella rivista assumevano posizioni conservatrici e paternalistiche quando parlavano delle sarte che non a caso venivano per lo più chiamate sartine ed erano spesso accusate di non essere abbastanza impegnate politicamente e di essere prive di moralità.
Alcune delle motivazioni tipiche di tale atteggiamento provenivano anche da pregiudizi sul mondo della moda ritenuto frivolo, perché legato alla bellezza e all’eleganza, un mondo popolato di donne eleganti che potevano permettersi le toilettes lussuose prodotte dalle sarte: in netto contrasto con quello della maggior parte degli operai e operaie che lavoravano nell’industria e che non potevano comprare gli abiti e gli oggetti che producevano. Ci sono quadri dell’epoca che consentono di gettare una luce diversa su queste complesse dinamiche sociali, di classe e di genere. Pensiamo a due dipinti dell’artista veneziano Ettore Tito (1859-1941) che rappresentò donne di origine modesta per le strade della Serenissima, San Marco (1899), e La fà la modela (1884). Nel primo quadro si vedono due donne di modeste condizioni che passeggiano per piazza S. Marco. Una vestita modestamente con il capo coperto mostrando un atteggiamento remissivo con lo sguardo abbassato, mentre l’altra sembra quasi posare per una fotografia di moda. Appare in primo piano con uno scialle rosso, il suo sguardo rivolto a qualcuno, il profilo bellissimo, un fiore tra i capelli. Con il suo atteggiamento, quasi da diva, la donna con lo scialle rosso si impone con la sua soggettività. Infatti più che vedere piazza S. Marco, ciò che si impone è la donna in primo piano con uno sfondo abbastanza sfocato del luogo iconico veneziano. Nello splendido esempio del 1884, una giovane donna passeggia lungo i canali veneziani. In questo dipinto il luogo è facilmente riconoscibile. Mentre la donna cammina (come una modella), altri passanti la ammirano e lei mostra i dettagli del suo abito, il pizzo della camicetta, il ventaglio, le scarpette a punta. Anche le donne di condizioni modeste diventano così ‘visibili’ sulla scena pubblica grazie alla maniera di vestirsi.
Tra il 1893 e il 1894, Genoni conobbe l’avvocato Alfredo Podreider nel circolo di Pietro Gori, intellettuale anarchico, giornalista e poeta. Podreider divenne presto il suo compagno di vita, con il quale nel 1903, ebbe una figlia di nome Fanny. Si sarebbero sposati soltanto nel 1928.
Nel 1895 Rosa fu assunta come première dalla prestigiosa H. Haardt et fils, ubicata in corso Vittorio Emanuele 28, che aveva varie filiali a Sanremo, St. Moritz e Lucerna. Per la sartoria di Milano, che contava un personale di 200 persone, Genoni si recava una volta l’anno a Parigi per tenersi aggiornata sulle tendenze della moda e per l’acquisizione dei figurini. In questo periodo riviste come Margherita, La donna e altre presentavano un nuovo stile per le donne, anticipando quello che sarebbe diventato un classico per eccellenza, il tailleur: gonna, camicetta e giacca. Gradualmente gli abiti si stavano semplificando eliminando tutti i vari strati di sottovesti e busti rigidi. Del resto queste tendenze erano presenti anche in altri Paesi e la moda rifletteva il nuovo ruolo delle donne in una società che andava trasformandosi e modernizzandosi. Nel 1903, Genoni fu promossa al ruolo di direttrice della Haardt e i numerosi dipendenti lavoravano ormai sotto la sua guida. In tale contesto lei promosse non solo i modelli della Casa Haardt, che riproducevano su richiesta i modelli francesi, ma propose anche una serie di modelli originali da lei creati per convincere le donne a seguire una nuova moda, quella che tra breve avrebbe proposto come moda italiana.
Parallelamente al suo lavoro nella sartoria Haardt, nel 1905 cominciò a insegnare presso la Scuola professionale femminile della Società Umanitaria. Quest’utima era stata fondata a Milano nel 1893 dall’imprenditore e uomo d’affari mantovano Moisè Loira con intenti filantropici per lo sviluppo educativo e socio-culturale delle classi meno abbienti. Qui elaborò un vero e proprio programma di moda suddiviso in varie sessioni di storia, disegno e teoria che si affiancarono alla creazione di un laboratorio di sartoria.
I primi anni del Novecento furono anni cruciali per la città di Milano così come per lo sviluppo del progetto Genoni sulla moda. Fu infatti in questo periodo che pose le basi culturali e teoriche per tradurre le sue idee in pratica. Ciò emerse chiaramente dalla scelta di presentare le sue creazioni realizzate nella sartoria dell’Umanitaria all’Esposizione universale di Milano del 1906, sia dal testo dell’opuscolo Per una moda italiana che accompagnò la mostra.
Bisogna ricordare che le arti decorative ebbero un ruolo importante nell’Esposizione milanese e poterono contare su un padiglione di 20.000 metri quadri. I progetti di Milano per l’esposizione universale del 1906 furono però ostacolati da un incendio che devastò numerosi edifici compreso il padiglione dell’Architettura e la mostra del Duomo di Milano. I lavori di ricostruzione iniziarono subito dopo l’incendio e in quaranta giorni si riuscì a ripristinare lo spazio espositivo. A Genoni, che aveva precedentemente esposto la sua collezione di abiti nella galleria delle arti decorative, fu richiesto di produrre a tempo di record dei nuovi modelli. Riuscì a realizzarli e il suo lavoro venne adeguatamente premiato in quanto le fu conferito il Grand Prix della giuria internazionale.
Nella collezione espose modelli che esprimevano i concetti portanti del suo approccio alla moda. Questi erano ispirati al Rinascimento italiano e ai suoi artisti di eccezione, da Pisanello a Botticelli, Raffaello, Leonardo Da Vinci, ma anche a Nicolò Barabino (pittore genovese dell’Ottocento) che le aveva ispirato un abito casual e sportivo con una gonna pantaloni. Con questo progetto la Genoni voleva dare identità e dignità alla moda italiana con le sue industrie nel tessile e nell’ambito degli accessori, e valorizzare il sapiente lavoro artigianale delle sarte, soprattutto quelle che lavoravano con lei all’Umanitaria.
Si possono vedere due dei modelli presentati a Milano nel 1906, Il Manto di corte ispirato a Pisanello, e l’abito Primavera ispirato al noto affresco di Botticelli, nelle fotografie che accompagnano il suo primo libro, Per una moda italiana (1909, seconda edizione 1910 con aggiunta di testo in inglese, stampato dalla Tipografia Ercole Balzaretti di Milano).
La sua rivisitazione del passato mirava a un progetto di riappropriazione e conoscenza delle proprie radici storiche, ma allo stesso tempo a una moderna interpretazione e traduzione di quello stesso passato, offrendo soluzioni contemporanee che potessero conferire una distinta identità alla moda che si produceva in Italia. O meglio alla moda che, secondo Genoni, avrebbe dovuto essere lanciata con il marchio ‘Italia’, un marchio che poteva iniziare a competere con quello ormai riconosciuto della Francia. La strada era molto lunga da percorrere e certo i tempi non erano ancora maturi, ma la sua era un’‘utopia’ che sosteneva il lavoro quotidiano in vista di un progetto futuro.
Nel 1908 a Roma dal 23 al 30 aprile si svolse il Primo Congresso nazionale delle donne italiane (cfr. C. Frattini, Il Primo Congresso delle donne italiane Roma 1908, opinione pubblica e femminismo, Roma 2008). Genoni partecipò in quanto delegata dell’Umanitaria nella sezione delle Arti decorative e lesse una relazione che sarebbe poi stata pubblicata per intero in Vita Femminile (1908). Il suo discorso fu centrato sul problema della mancanza di una moda italiana nel quadro generale di rinnovamento della vita nazionale industriale e artistica.
Volle sottolineare che la donna italiana era depositaria del decoro e della bellezza, che esistevano artigiane di grande inventiva e lavoratrici della moda in ogni sua articolazione. Quindi espose il suo progetto: attingere al glorioso passato nazionale per trovare l’ispirazione; attivare una necessaria collaborazione con l’industria; mobilitare tutte le risorse per sviluppare le arti applicate finalizzate all’attuazione di una moda nazionale; fondare istituzioni di scuole professionali femminili.
Genoni volle poi divulgare la sua proposta in varie riviste, come Il Marzocco, Vita d’arte, Vita femminile, L’Eleganza invitando le donne celebri a farsi ambasciatrici della moda italiana. Aderirono le attrici Dina Galli e Lyda Borelli, la baronessa Maria de Lindenberg e la principessa Letizia Bonaparte, moglie del duca Amedeo d’Aosta.
Nel 1909 nacque il Comitato per una moda di pura arte italiana, presieduto da Giuseppe Visconti di Modrone, che faceva parte dell’entourage della regina Elena, imprenditore nel settore tessile, soprattutto di velluti, e esperto di profumi per i quali Gabriele D’Annunzio trovava nomi accativanti; Franca Florio e altre signore dell’industria, Borsalino, Lanerossi, Jesurum, patrocinarono l’iniziativa. Nel 1910 il Comitato indisse un concorso su Vita italiana per un abito da sera. Fu un grande successo. Il primo premio fu conseguito da un disegnatore faentino: Francesco Nonni. I modelli dei primi quattro vincitori, realizzati dalla sartoria Haardt, vennero poi acquistati dalla baronessa de Lindenberg.
Il 1908 fu un anno importante anche perché Genoni decise di vestire la donna, e di conseguenza se stessa, come portatrice di una nuova sensibilità. Attraverso lo studio delle sculture greco-romane e del drappeggio concepì una nuova versione della femminilità, libera dagli schemi. Un corpo femminile accompagnato dal drappeggio che, pur non completamente libero dal corsetto, poteva muoversi e appropriarsi sempre di più di uno spazio autonomo.
Nel suo libro Per una moda italiana troviamo due versioni dell’abito Tanagra che appare ancora più moderno non solo per il disegno e per come riuscì a trasformare l’ispirazione, ma anche per il fatto che fu uno dei primi esempi di abito dinamico. Genoni scelse di vestirsi così proprio per presentare la sua relazione al Congresso di Roma: lo riportò lei stessa nella didascalia che accompagna la sua foto nel libro. Nella pagina accanto è immortalata la grande diva Lyda Borelli che indossa lo stesso abito, ma con una diversa versione del drappeggio che non copre le mani. Colpiscono due aspetti: la foto della sarta/designer che si presenta come modella e modello, e il fatto che lo stesso abito sia indossato da una diva del carisma della Borelli. Ma anche è illuminante confrontare questa foto di Genoni con le foto delle donne di quel periodo che, adottando la moda del tempo, appaiono prigioniere di uno stile molto più ingessato. Basta guardare la foto di copertina della Domenica del Corriere che ritrae le donne del Congresso del 1908 per capire il contrasto tra la fluidità dell’abito Tanagra e l’uniformità sartoriale delle giacche che segnavano un busto costretto da un aderente corsetto. Allora si comprende che il Tanagra fu l’abito manifesto di Genoni. Infatti in una delle lettere, datata 3 maggio 1915 (ben sette anni dopo la sua prima apparizione), di Alfredo Podreider, compare la seguente richiesta: «Vuoi che ti mandi l’abito greco-romano?» (New York Public Library, Schwimmer-Lloyd collection, Ms. Col. 6398, Box 58). Questa lettera le fu inviata mentre era impegnata con le altre femministe contro la guerra a L’Aia nel 1915 (v. oltre). L’abito Tanagra pur rivoluzionando l’arte del vestire ai primi del Novecento, ha una forza che mette in crisi gli stessi dettami temporali della moda. È un abito che sfida le sequenze temporali lineari e condensa il ritmo del movimento del corpo della donna proprio nella sua essenza dinamica. L’abito Tanagra per Genoni incarnò la liberazione della donna.
Le idee guida di Genoni risalgono alla tradizione rinascimentale, soprattutto al primo Rinascimento e al suo classicismo delle linee; ma anche alla classicità greco-romana che lei rivisita modernizzando e reinterpretando il drappeggio; alla attualizzazione dell’abito casual e sportivo, con le gonne pantaloni e gli abiti da viaggio. Si vedano i riferimenti e le foto nel suo Per una moda italiana all’abito «aereo-trotteur. Prima di salire in dirigibile» e l’altro «In dirigibile. Modello precedente colla sottana agganciata al corpetto e col cappello ridotto a cappuccio». Si noti questa sua maniera di proporre l’abito come qualcosa di dinamico e trasformabile solo con piccoli accorgimenti. In questo caso con uso di spille, bottoni e drappeggi. Ciò pone l’accento su due elementi: il valore del modello e del disegno e la possibilità di chi veste di modificare l’apparenza dell’abito a seconda delle circostanze. L’altra fonte d’ispirazione per Genoni era la tradizione dell’abito regionale italiano. Infatti sempre in Per una moda italiana inserisce una foto e un disegno ispirati ai «costumi popolari italiani». E vi troviamo due modelli che realizzò nel 1909, uno ispirato a un costume sardo per l’attrice Gina Favre e un altro a un costume tradizionale della comunità italo-albanese di Caraffa (Catanzaro).
Nel 1915 Genoni partecipò come delegata italiana al Congresso internazionale delle donne per la pace organizzato da Aletta Jacobs e altre attiviste internazionali all’Aia, in Olanda, dal 28 aprile al 1° maggio.
Genoni fu tra le pacifiste più convinte, e come le donne che avevano animato il movimento internazionale del pacifismo, rimase fermamente convinta che la guerra non poteva essere considerata un veicolo per la rigenerazione di una società dormiente, o un mezzo per giustificare la violenza bestiale di potenti nazioni pronte a sopraffarne altre in nome del progresso e della civiltà (cfr. E. Gentile, L’Apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Milano 2008) L’incontro di Genoni con il movimento internazionale delle donne, come le americane Jane Addams (premio Nobel per la pace, 1931) e Emily Greene Balch (premio Nobel per la pace, 1946) e la femminista ungherese Rosika Schwimmer, che poi si trasferi negli Stati Uniti, fu molto sentito. Infatti si trova testimonianza della corrispondenza tra Schwimmer e Genoni nel materiale della Schwimmer-Lloyd collection conservato presso la New York Public Library (NYPL).
Se il Primo Congresso delle donne italiane aveva contribuito a legittimare il ruolo di Genoni come creatrice di moda, ma anche i legami con le industrie femminili e la posizione di attivista politica e intellettuale, il Congresso dell’Aia la mise in contatto con una ben più ampia comunità: il movimento del pacifismo e del femminismo internazionale. Il congresso dell’Aia (che vide la presenza di 1230 delegati da tutto il mondo) avrebbe portato alla creazione del Partito della pace delle donne e segnò l’inizio del movimento internazionale della pace.
Genoni fece il suo intervento in francese rivolgendosi in un tono accorato e lucido «Alle mie sorelle latine». È necessario sottolineare che uno degli elementi importanti di questa fase della Genoni fu proprio l’internazionalismo. È in questa luce che va compreso anche il suo contributo alla creazione di una moda nazionale precorritrice del made in Italy. In lei l’amore per le tradizioni culturali, la storia e la bellezza dell’Italia erano profondamente intrecciati a temi che ben si sposavano con un progetto internazionale. Nel suo discorso all’Aia sottolineò: «mi sento sorella di tutte le donne di ogni Paese e di ogni razza». E qui oltre a esortare alla grazia: «Come italiana parlo a voi come vere sorelle e invoco Grazia per il mondo intero, ma persino più Grazia per il mio Paese che sarà trascinato in un terribile conflitto», fece anche proposte concrete. Chiese infatti che si operasse una revisione dei testi di storia che contenevano una esagerata idealizzazione del militarismo e inoltre espresse la volontà di insegnare una «consistente moralità sia delle nazioni che degli individui» e anche di boicottare i «giocattoli che rappresentano armi» e di «fare un appello ai governi per creare insieme al Ministero della Guerra qualcosa come un Ministero della Pace, che studia e dirige tutto quello che concerne idee pacifiste». La sua relazione (NYPL, Schwimmer-Lloyd collection, Mss. Col. 6398, box 58) si concluse con un appello alla cristianità e alla «Grazia», invocata per ben sei volte nel breve documento e trascritta con lettere maiuscole a segnarne l’enfasi sia nello scritto sia nella relazione, e con un invito a far sì che le parole «perdono, fraternità, amore possano abbracciare il mondo intero». Ancora una volta anche nella conclusione fece appello all’internazionalismo. Genoni si firmò come delegata delle seguenti associazioni italiane: Pro Humanità, fondata dalla Genoni con sede nella sua residenza a Via Kramer, 6 a Milano; Per la donna, Roma; Le donne per la pace, Vicenza; Pro arbitrato, sez. autonoma Torino; Lega dei Paesi neutri, Lugano.
In una lettera di Podreider (ibid.) si trova notizia che il discorso della Genoni fu bene accolto. Nella lettera si riporta uno degli apprezzamenti apparsi nella stampa in cui si sottolinea che era stato assai «remarquable». Genoni poi fu una delle inviate speciali, insieme all’olandese Aletta Jacobs, all’inglese Chrystal Macmillan e a Rosika Schwimmer, che incontrarono all’Aia, il 7 maggio 1915, il Primo ministro Pieter Cort van der Linden e poi a Londra (con Jane Addams e Aletta Jacobs) il 13 maggio, il ministro degli Esteri Sir Edward Grey. Le femministe intendevano proporre che fosse istituita una commissione di esperti per la cessazione del conflitto. La prospettiva era destinata a naufragare data la portata del conflitto e il successivo coinvolgimento degli Stati Uniti (Paulicelli, 2015, p. 89; NYPL, Rosika Schwimmer Papers, box 499, folder 6).
Dobbiamo ricordare che in questo periodo coloro che si schieravano contro la guerra e, in particolare le donne con la loro debole cittadinanza, non ebbero vita facile: furono accusati di essere antipatriottici e sovversivi. Tutte le donne che parteciparono al Congresso dell’Aia vennero sorvegliate dalla polizia Genoni inclusa. Si trova documentazione nel casellario politico nell’Archivio centrale dello Stato a Roma sul fatto che sia Genoni sia Podreider furono schedati come sovversivi e sorvegliati. Non sono però documentati arresti, anche con l’avvento del fascismo, periodo in cui la Genoni sembrò interrompere l’attivismo che aveva caratterizzato gli anni precedenti.
Il suo viaggio a L’Aia creò ansia e molte preoccupazioni da parte di Carolina Podreider, madre di Alfredo, come si legge in una lettera indirizzata a Genoni in cui parla del fatto che Fanny fosse ammalata, facendo appello alle responsabilità materne di Rosa. Anche le lettere di Podreider hanno un tono preoccupato e sottolineano il fatto che la missione di pace delle donne non avrebbe portato a risultati tangibili, proibendole di continuare la missione con la delegazione delle donne per recarsi in America. Queste lettere sono anch’esse conservate nella collezione Schwimmer-Lloyd (6398, box 58), insieme ad altre due lettere di un’amica di Genoni, Luisa Dentici (ibid.), tra cui una molto lunga e dettagliata, che riporta notevole preoccupazione per la sua missione e la sua stessa riuscita. La informa che a Milano imperava un clima molto ostile al non interventismo e che l’entrata in guerra dell’Italia era imminente. Ma anche sottolinea l’impossibilità di reperire fondi per la causa della pace per mezzo di cartoline di propaganda non interventista. Dalle lettere sembra che le due donne si conoscessero bene. Tuttavia, di Luisa Dentici, che fece parte del sindacalismo rivoluzionario esprimendo posizioni molto radicali – nel 1914 aderì alla linea interventista di Benito Mussolini e nel 1919 partecipò alla manifestazione di piazza San Sepolcro che sancì la nascita dei Fasci di combattimento – non appare traccia in altri documenti o scritti che riguardano Rosa Genoni.
Genoni al rientro continuò la sua battaglia per la pace con varie attività di propaganda, conferenze, articoli giornalistici e anche aiuti ai soldati in guerra. Come esempio tradusse e pubblicò un pamphlet sui principi umanitari e sul pacifismo di Henri Lambert (1862-1934), un ingegnere belga (Un autre aspect de la question européenne e une solution, Londra 1915; trad. it. Milano 1915). Allo stesso tempo continuarono i suoi rapporti con il pacifismo internazionale come testimoniano i newsletter o bollettini, che davano dettagliati resoconti delle iniziative nei diversi Paesi preparati dai comitati delle donne per la pace. Vi si trova un interessante riferimento a una cartolina di Genoni in cui comunica che avrebbe voluto dare delle lezioni «usando una lanterna magica come base per introdurre i temi della pace» e pertanto chiede alle donne fotografie adatte (NYPL, Schwimmer-Lloyd collection, 6398, box 58, newsletter n. 5, settembre-novembre 1915).
Genoni continuò il suo insegnamento all’Umanitaria, diresse la sartoria e progettò di scrivere testi sulla storia della moda per i suoi corsi. Il suo progetto pedagogico si intrecciò anche al suo progetto politico. Voleva creare una storia per immagini in modo da poter ispirare la creatività delle sue allieve. Anche per questo raccolse una serie di diapositive forse con l’intento di proiettarle come pensava di fare per le foto sulla pace. La figlia Fanny, racconta nel suo testo dattiloscritto, come nel 1918 cominciasse a selezionare le immagini (circa 200, la collezione venne realizzata in collaborazione con l’Istituto Minerva di Roma) da usare per le sue lezioni e anche come fonti visive per i suoi testi di storia della moda. Bisogna ricordare come a quei tempi lo studio della moda non era istituzionalizzato e mancavano libri accessibili per le allieve operaie dell’Umanitaria. Genoni concepì tre volumi di Storia della moda attraverso i secoli, ma pubblicò solo il primo nel 1925. La prefazione al volume è interessante perché il suo intento è quello di fornire uno strumento concreto per insegnare e istituire corsi di storia della moda e di ‘pratica di design’ in Italia, cosa che naturalmente all’epoca era del tutto inesistente.
Nell’introduzione al volume, che uscí per l’Istituto italiano d’arti grafiche a Bergamo, Genoni sottolinea una serie di aspetti che prenderanno corpo negli anni a venire. Afferma che «la storia della moda» è «la storia dei popoli: è la storia delle razze, dei ceti, delle rivoluzioni, di questa travagliata umanità, che senza accorgersene adotta anche nel vestito delle ferree leggi, che essa crede di dominare, ma di cui è completamente schiava» (1925, p. VI). Ma oltre a questa storia, a Genoni premeva sottolineare che: «Il libro aspira essenzialmente ad uno scopo pratico. […] Dare alla lavoratrice questa possibile gioia, questa insperata elevazione, questa geniale indipendenza e con ciò fornire nuovo impulso a tutta la produzione nel campo del vestito, il quale è come la casa, che necessita di tutte le più svariate manifestazioni dell’arte e della decorazione; questo sarebbe il più fulgido miraggio e la più grata e nobile ricompensa per il nostro modesto lavoro» (ibid.).
Il libro contiene delle istruzioni per il taglio e la preparazione dei modelli di carta per poi poter creare l’abito. Una sorta di breviario anche di modellistica. Uno degli argomenti che ritorna qui con insistenza è il drappeggio dell’abito greco-romano, mentre vi sono varie immagini delle statuette di Tanagra che avevano ispirato il suo abito manifesto del 1908. Aspetti teorici, storici e pratici continuarono ad animare il lavoro di Genoni fino al 1933, anno in cui si dimise dall’insegnamento all’Umanitaria «per ragioni di famiglia ed anche per limite di età»: Genoni aveva 66 anni (Biblioteca Umanitaria, fascicolo 254 -1/3). Nella lettera di dimissioni (Milano, Archivio storico della biblioteca Umanitaria, f. 254, 1-3, 26 ottobre 1933), fa un dettagliato resoconto delle sue attività per la scuola, la sua campagna per la creazione di una moda italiana, e l’impostazione dei suoi programmi pedagogici a seguito anche dell’incarico, ottenuto dopo il 1906 da parte dell’Umanitaria, di visitare le migliori scuole professionali parigine per apprendere metodi e tecniche da trasferire in Italia. Si sofferma inoltre nel descrivere l’organizzazione di «proiezioni luminose» per addestrare le allieve «alla memoria visiva». Ribadisce l’intento di aver voluto formare le lavoratrici con una preparazione culturale e teorica, e non solamente con l’addestramento nel lavoro manuale del cucito. La preparazione teorica e storica doveva rimanere, secondo Genoni, fondamentale per produrre un modello di alta qualità professionale. Sempre in questo documento afferma il suo intento di «fare delle proprie allieve non delle semplici operaie che sappiano ben cucire ma delle artiste che creano». E fa riferimento al fatto che le sue idee per la creazione di una moda italiana sembravano essere diventate uno degli assunti della creazione dell’Ente della moda voluto dal regime nel 1932. La lettera testimonia il suo progetto e sintetizza le tappe della sua carriera durante i ventisette anni all’Umanitaria.
Negli anni successivi intensificò sempre di più i suoi interessi per la teosofia, affascinata dalle conferenze di Rudolf Steiner che ebbe modo di seguire anche insieme alla figlia Fanny. Tuttavia il suo interesse si era manifestato già a partire dal 1919 quando la stessa Genoni aveva introdotto il giovane fratello Ernesto (1885-1975) alla filosofia di Steiner che avrebbero incontrato in Svizzera negli anni Venti. Ernesto, fratello prediletto di Rosa, che aveva frequentato l’Accademia di belle arti di Milano grazie al suo aiuto, trasferitosi definitivamente in Australia alla fine della prima guerra mondiale, si dedicò con passione alla teosofia applicandola all’agricoltura biodinamica, diventando così fondatore e leader di questo movimento in Australia (cfr. J. Paull, Ernesto Genoni: Ausralia’s pioneer of biodynamics agriculture, in Journal of Organics, 2014, vol. 1., n. 1, pp. 57-81).
Questa fase diversa dell’attivismo politico e femminista della Genoni si connota di un altro tipo di approccio all’esistenza, forse più vicino all’interesse pedagogico, formativo ed educativo. Tuttavia non esistono ancora materiali bibliografici che gettino luce sull’ultima parte della sua vita.
Nel 1940, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Rosa Genoni andò a vivere nella casa di famiglia a Varese. Alfredo Podreider era venuto a mancare nel 1936 e la famiglia si era trasferita prima a Nervi e poi a Sanremo.
Il 12 agosto 1954 si spense all’età di 86 anni.
Al visitatore, opuscolo distribuito in occasione dell’Esposizione Internazionale di Milano, sezione Abbigliamenti femminili, Milano 1906; Per una moda italiana. Modelli, saggi, schizzi di abbigliamento femminile, 1906-1909, Milano1909, ed. Milano 1910 con aggiunta dei testi delle didascalie in inglese; Storia del costume femminile (Brevi cenni illustrativi della serie di diapositive), Roma 1918; Storia della moda attraverso i secoli: Dalla preistoria ai tempi odierni, I, Bergamo 1925.
Portale degli Archivi della Moda del Novecento, http://www.moda.san.beniculturali.it/wordpress/?percorsi=rosa-genoni-1867-1954-2, una selezione di articoli di Rosa Genoni: Arte e storia del costume. Rivendicazioni femminili nella moda in Vita d’Arte, 1908, vol. 2, f. 11, pp. 202-207; La moda femminile dalle commemorazioni del ’59 all’Esposzione d’arte di Venezia, ibid., 1909, vol. 4, f. 19, pp. 351-358; Nel “Libro d’Oro” della moda italiana, ibid., 1910, vol. 5, f. 28, pp. 163-170; Nel “Libro d’Oro” della moda italiana, ibid., 1910, vol. 5, f. 33, pp. 76-80; I diritti estetici delle folle, Referendum popolare contro le sottane-calzoni, il vestito di bellezza ecc., ibid., 1911, vol. 7, f. 40, pp. 139-143. Si vedano inoltre: La neutralità e la guerra, in L’Avanti, 11 Gennaio 1915; Le donne contro la guerra, ibid., 18 gennaio 1915; Il mio socialismo, in La difesa delle lavoratrici, IV (1915), 21; La Patria, ibid., 23.
F. Podreider, Guida alla raccolta di stoffe di Rosa Genoni Podreider, e breve autobiografia, s.d., il dattiloscritto, conservato presso l’Archivio storico della Società Umanitaria di Milano, è consultabile sul Portale degli Archivi della Moda del Novecento, http://moda.san.beniculturali.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/10/biografia-Rosa-Genoni.pdf; Dizionario biografico delle donne lombarde, 568-1968, a cura di R. Farina, Milano 1995, ad vocem; A. Fiorentini, L’ornamento di “pura arte italiana”: la moda di R. G., in Abiti in festa: l’ornamento e la sartoria italiana (catal., Firenze), Livorno 1996, pp. 40-59; P. Venturelli, “Di necessità in virtù”. La guerra nella moda: da R. G. al lanital e dintorni, in Che c’è di nuovo? Niente: la guerra. Donne e uomini nel milanese di fronte alle guerre. 1885-1945, Milano 1997, pp. 419-426; E. Merlo, Moda italiana. Storia di un industria dall’Ottocento ad oggi, Venezia 2003, p. 47; E. Paulicelli, Fashion under fascism. Beyond the black shirt, Oxford-New York 2004, pp. 27-30, 41-46; F. Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la camera del lavoro (1891-1918), Milano 2007, pp.156 s.; A. Fiorentini, R. G., scheda critico-biografica in Donne protagoniste nel Novecento (catal., Firenze), a cura di C. Chiarelli, Livorno 2013, pp.16-25; M. Boneschi, Da pioniera della moda a militante pacifista. R. G., in M. Boneschi et al., Donne nella Grande Guerra, Bologna 2014, pp. 207-220; E. Paulicelli, R. G. La moda è una cosa seria, Milano 2015; E. Schiavon, Interventiste nella Grande Guerra. Assistenza, propaganda, lotta per I diritti a Milano e in Italia, Milano 2015, pp. 25, 31, 192, 328; D. Calanca, Moda e immaginari sociali in età contemporanea, Milano 2016, pp. 14, 52-57; E. Paulicelli, Italian style. Fashion & film from early cinema to the digital age, London-New York 2016, pp. 26-36; C. Confortini, Past as prefigurative prelude. Feminist peace activists and IR, in a cura di S.L. Dyvik - J. Selby - R. Wilkinson, What’s the point of international relations, London-New York 2017, pp. 83-97 (in partic. p. 87); M.G. Suriano, War, peace, and suffrage: The First italian section of the Women’s international league for peace and freedom, in Living war, thinking peace (1914-1924), a cura di B. Bianchi - G. Ludbrook, Cambridge 2017, pp. 190-203 (in partic. pp. 193 s., 196, 198).
Un ringraziamento particolare a Maria Grazia Suriano per le comunicazioni su Luisa Dentici provenienti da sue ricerche e a Giovanna Ginex.