Rosario Gregorio
Storico tra i maggiori del tardo Settecento europeo, impose l’idea – destinata a durare – delle fondazioni normanne della monarchia siculo-napoletana, pur nella storica evoluzione di differenti istituti dei Regni di Napoli e di Sicilia. Editore autorevole di cronache e diplomi dell’età aragonese, contemporaneo di Giovanni Meli, contribuì in modo decisivo alla scoperta dei falsi e alla denuncia della ‘menzogna saracina’ dell’abate siculo-maltese Giuseppe Vella.
Rosario Gregorio nacque il 23 ottobre 1753, nel quartiere palermitano dell’Olivuzza, da Francesco di Gregorio e Benedetta Balestrini. Battezzato, gli furono imposti i nomi di Gaspare Rosario Giovanni. Perdette il padre (27 aprile 1761) ancora fanciullo e, destinato dalla madre allo stato ecclesiastico, fu ammesso nelle scuole gesuitiche. All’atto dell’espulsione dei gesuiti, Gregorio aveva solo tredici anni: sarà accolto per concorso nel seminario dei chierici. Ricevette la tonsura e gli ordini minori il 23 settembre 1768. Nei ‘regi studi’ di Palermo (dal 1769), ebbe come maestri Giuseppe Nicchia per la filosofia, il ‘newtoniano’ Nicolò Cento per la matematica, Francesco Carì per la teologia e Francesco Saverio Romano per il greco – ai quali tutti Domenico Scinà (1827), il maggior allievo del Gregorio, avrebbe riconosciuto il merito di avere reso comuni «e la diritta maniera di filosofare, e la critica e la sodezza nelle sacre discipline, e lo studio delle lingue, e il gusto e i buoni studi».
Nel 1775 egli disponeva di una dottrina, non solo teologica, notevole, ma non di un patrimonio sacro: con un fidecommesso amministrato dagli oratoriani, nel 1776 poté essere ordinato diacono e sacerdote nel monastero delle Stimmate. L’anno successivo l’arcivescovo Sanseverino lo avrebbe chiamato a insegnare teologia nel seminario dei chierici: vi insegnò fino al 1783, avendovi a discepolo lo Scinà che avviò allo studio di David Hume. Sono di questi anni i tre volumi di Institutiones theologicae: sui ‘luoghi teologici’ (1779); sulla Trinità e la creazione degli angeli e dell’uomo (1780); sul peccato originale, l’incarnazione, il culto dei santi e la grazia di Cristo (1781). Un’opera invero notevole, né solo per il sicuro controllo dell’imponente apologetica, di parte cattolica e protestante, ma per la netta opzione di una ‘storia naturale della religione’ (il saggio di Hume vi è discusso e consigliato) e per l’approccio antropologico che preludono alle scelte storiografiche imminenti.
Gregorio era già socio dell’Accademia del Buon Gusto e vi aveva letto «sopra l’origine e le ragioni della letteratura siciliana nell’epoca greca» (13 settembre 1777), «sopra i fondamenti della letteratura in Sicilia avanti l’epoca greca» (15 novembre 1777) e «sopra la letteratura di Sicilia alla prima epoca» (settembre e novembre 1778, marzo 1779). Di queste dissertazioni solo la seconda è pervenuta: tre le età ‘alte’ di questa storia di Sicilia: la greca, che culmina nel ‘secolo di Gelone e di Gerone’; la normanno-sveva e infine la ‘austriaca’, l’età di Filippo II. Vi è dunque una storia ‘interna’ della Sicilia, che segue il processo per stadi della ‘storia naturale della società’, e dentro di essa i periodi, in cui virtù di principi e prosperità del popolo la chiamano a svolgere – secondo lo schema di Voltaire e di Gabriel Bonnot de Mably – ruoli di incivilimento per l’umanità intera.
Il 23 febbraio 1778 l’arcivescovo conferiva a Gregorio il beneficio dell’arciconfraternita dell’Unione dei Miseremini della chiesa di S. Matteo del Cassero: ne comportava la rettoria, e in passato era stato unito con la dignità di cappellano maggiore – ora tenuta dall’arcivescovo di Eraclea in partibus, Alfonso Airoldi, da poco (aprile 1778) rientrato a Palermo come giudice del Tribunale di Regia monarchia. Di Airoldi Gregorio divenne presto cliente; e Airoldi fu a sua volta tramite con l’antiquaria napoletana, dalla quale il giovane storico fu chiamato all’illustrazione dei sepolcri regi, riaperti nel corso dell’ammodernamento della cattedrale di Palermo. Nasce per questa via lo storico della Sicilia medievale. Aveva anche fatto «una raccolta delle iscrizioni saraceniche esistenti in Sicilia», destinata alla nuova edizione delle Iscrizioni di Sicilia (1784) di Gabriele Lancillotto Castelli e Giglio, principe di Torremuzza; non conosceva ancora l’arabo, e furono Christoph Gottlieb von Murr e Oluf Gerhard Tychsen a leggere i caratteri arabi ricamati sulle maniche del ‘camice’ che aveva vestito il cadavere di Federico II. La loro lettura porta a concludere che quel camice fosse in origine un dono dei Saraceni a Ottone IV in occasione della sua venuta in Italia (1209), invitato dagli stessi Saraceni di Sicilia alla conquista dell’isola. Alla sua morte il camice sarebbe poi entrato in possesso di Federico II. A meritar commento è la forte caratterizzazione del disegno, la capacità ordinatrice di una filosofia della storia che esalta la congettura a procedimento liberatorio dagli schemi semplificati dell’ideologia. E il ‘muratoriano’ Gregorio la ripercorreva, questa via della congettura, come metodo, ormai trapasso dall’antiquaria alla storia. Ma come mai un dono saraceno a Ottone avrebbe vestito il cadavere dell’imperatore svevo? La Sicilia era, all’atto della riconquista, popolata di Saraceni:
E comecché questi, essendo già dall’ozio delle arti e delle ricchezze inviliti, avessero perduto l’antico natural vigore, pure l’antico studio per la credenza loro perduto non aveano. Quindi i Normanni, da una parte seguendo il sistema da essi nei principii tenuto nel signoreggiare ai popoli vinti, a coloro non imposero che i militari servigi e l’obbligo di pagare un qualche tributo; e dall’altra, avuto in considerazione il lor numero, e perché non si spopolasse l’isola, fu loro accordato il libero e pubblico esercizio della religione musulmana.
È il grande tema, storiografico e politico, della ‘conquista’ e della polarità (meta)storica tra vinti e vincitori. Da una parte i Normanni, che ai popoli conquistati lasciavano «una tal libertà che sovente era incompatibile coi supremi dritti della sovranità»; e dall’altra i Saraceni, quasi i Galli del Mably, ‘coi loro ordini civili’, con propri magistrati, e «la più parte […] si vivevano allo stesso modo che gli altri sudditi cristiani».
Ad avvicinare Gregorio alla storia araba fu Domenico Caracciolo, dall’ottobre 1781 in Sicilia nell’ufficio di viceré. E fu sempre Caracciolo a volere l’elezione (dicembre 1783) di Gregorio a canonico della cattedrale di Palermo.
Il 26 luglio 1785 Airoldi venne autorizzato a concedere sussidi al Gregorio «applicatosi alla storia di Sicilia, ed alla illustrazione dell’epoca oscurissima dei Saraceni». Del 7 agosto 1785 è però anche il regio dispaccio che istituì la cattedra di arabo nell’Accademia palermitana, assegnata all’abate Giuseppe Vella, il quale venne redigendo (1784) il suo romanzo storico, L’arabica impostura. Ma a Jean-Jacques Barthélemy, nel novembre 1786, Gregorio scriverà illustrando il processo critico che lo faceva dubitare dell’autenticità della ‘traduzione’ del maltese.
Io vi trovavo altri mesi, altra cronologia, altra geografia, uno stile monotono e informe e gli Arabi che vi si vedon dentro sono senza religione, senza costumi e dettagli morali, insomma senza quei caratteri nazionali che distinguono un popolo dall’altro […]. Intanto io mi trovavo avere raccolte alcune iscrizioni, osservate le monete pubblicate dall’Adler ed altri diplomi io aveva veduti e tradotti. E non ci trovavo alcuna uniformità.
Così senza maestri, Gregorio apprese l’arabo – tanto quanto basti ad affrontare un argomento di diplomatica che avrebbe contribuito a distruggere il laborioso e grossolano falso di Vella – e pubblicò la dissertazione De supputandis apud Arabes Siculos temporibus (1786). Forte dell’appoggio politico di Caracciolo ora a Napoli, Gregorio attaccò contemporaneamente la Storia civile della Sicilia di Giovanni Evangelista Di Blasi, regio storiografo; e se ne ebbe per reazione l’apologia di questi al suo attacco a Vella. Nei primi mesi del 1787 si trovava però a Napoli e vi sarebbe rimasto fino al settembre «per queste librerie [di Napoli] a dissotterrare monumenti per rischiarare e commentare molti manoscritti arabi, li quali si trovano da lui [Gregorio] acquistati o pure a lui consegnati».
Con queste parole Caracciolo lo presentava a Francesco Maria Venanzio d’Aquino principe di Caramanico. Ma l’ambiente politico napoletano era agitato dal dibattito aperto da una ‘rimostranza’ di Saverio Simonetti (20 luglio 1786) sulla natura dei feudi in Sicilia. L’autonomia ‘nazionale’ della Sicilia in fatto di diritto pubblico, e persino privato, sotto la monarchia normanno-sveva e la peculiarità del diritto feudale siculo esaltata dalla legislazione aragonese erano i pilastri sui quali poggiava la salda barriera che baroni e magistrati isolani opponevano da decenni alla politica antifeudale della monarchia. La rottura venne con il Vespro (1282) e con i capitoli Si aliquem del re Giacomo d’Aragona e Volentes di Federico III d’Aragona, le cui interpretazioni hanno generato dispute secolari. Per Gregorio, tratto nell’aspro dibattito da una «e semplice, e piana, e letterale interpretazione» del capitolo Volentes, «si argomenta assai manifestamente che, se prima di una tal legge i feudi erano inalienabili, da indi in poi hanno i feudatari acquistato la facoltà di alienarli». Per il dettato della legge e «l’uniforme consenso dei comentatori»,
egli è incontrastabile che per dritto feudale siciliano la natura de’ feudi si è mutata, che i feudi per la loro alienabilità si debbono considerare come allodi, e che la parola di eredi comprende ancora gli estranei. Cose tutte ripugnanti al comune ed antico dritto feudale, ed ora convenienti ai feudi siciliani per lo capitolo Volentes.
La scelta di Gregorio interpretò il passaggio dalla linea dura del Caracciolo al ‘compromesso’ di Caramanico, successore di Caracciolo nella carica di viceré (1786) e protagonista di una politica più conciliante verso l’aristocrazia siciliana; quando nel 1789, per scelta del nuovo viceré, divenne regio professore di diritto pubblico siciliano nell’Accademia, Gregorio chiuse frettolosamente la stagione di studi arabi, pubblicò i due grossi tomi della Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere (1790), e si preparò attraverso l’insegnamento a costruire la sua storia della Sicilia dal ‘conquisto’ normanno a Filippo II.
La Rivoluzione francese imporrà un’accelerazione improvvisa al conflitto interno: per un verso si stempera ‘l’amaro della feudalità’, per l’altro incombe lo spettro del ‘giacobinismo’. Gregorio lavorò con furia alla sua storia di Sicilia: lesse e rilesse i suoi autori, Hume e ora, in particolare, Mably. Ma più urgente gli parve stabilire, mentre dilagava la polemica sui falsi di Vella e sul ‘modello feudale’ attribuito a Ruggero, il vero storico fondamento della monarchia meridionale che ha a Palermo la prima sede. Agli alunni del corso di diritto pubblico Gregorio lesse prima il percorso della storiografia moderna sulla Sicilia, ne saggiò le fonti e dispose sull’ideale scansia i grandi tomi dell’antiquaria e dell’erudizione europea; infine disegnò il piano della sua Storia. E nel 1794, sistemando l’ordine delle lezioni, egli pubblicò la sobria e orgogliosa Introduzione. Aveva già scritto gran parte del maggior lavoro, e il titolo della grande opera sarà un calco delle Observations sur l’histoire de France dell’ammirato Mably: Considerazioni sopra la storia di Sicilia. L’opera non vedrà la luce che a partire dal 1805, e alla morte dell’autore – avvenuta a Palermo il 13 giugno 1809 – le bozze corrette del quinto tomo giacevano sul tavolo di Gregorio: in tutti questi anni, dal 1790 al 1805, lo storico aveva trascritto dagli archivi delle chiese di Patti, di Agrigento, di Cefalù diplomi e diplomi, e tenuto con puntualità i corsi. Era rimasto per dieci anni tempestosi ai margini della vita pubblica: per lui avrebbe parlato la sua opera, ché per essa la storia della Sicilia da Ruggiero a Filippo II entrava nella grande storia dell’Europa moderna.
La considerazione del nesso presente/passato, tema difficile e importante, si unisce, nella grande opera di Gregorio, all’altro non meno importante dell’unità del Regno. Con la ritrovata unione
questi due beatissimi regni, i cui destini sono naturalmente comuni e reciproci gli interessi, ritornarono per sistema alla felice costituzione di avere un proprio monarca, e di sentire immediatamente gli effetti della potenza e beneficenza di quello.
Soggetto delle Considerazioni rimane, comunque, la ‘nazione siciliana’. Il concetto e il termine prendono rilievo quando Gregorio considera la conquista musulmana: se il popolo siciliano dai musulmani vinto, ne adottava le forme civili, «trasfondeasi e a così dire incorporavasi con la nazion vincitrice, e non potea perciò ritenere segno o vestigio alcuno della sua antica esistenza morale». Se il popolo siciliano, «sebbene avesse prima sotto i Saracini ritenuta la sua religione, il suo dritto privato, pure essendo stato sotto il dominio di una nazione, che avea diversa e detestata religione, ed altre usanze ed altro dritto, usciva dirò così da uno stato di contorcimento e di compressione», l’impresa normanna oscilla fra conquista e ‘crociata’. Come darvi legittimità? Nella prefazione, dopo aver notato però che i vinti serbavano senza un proprio diritto pubblico «la qualità di nazione», Gregorio trova che «non desiderava il popolo siciliano di essere restituito alle forme del governo bizantino, […] se non dimenticato, certamente non caro»; e però «i Normanni non avevano ragione alcuna di rispettare e di ritenere ne’ anche in menoma parte una costituzione politica, che fosse stata in Sicilia; ed essi realmente non ve ne trovarono alcuna: a dire il vero, poteano essi trattare i Siciliani come un popolo nuovo e senza alcun dritto pubblico, e pronti in conseguenza e disposti a ricevere quello che avrianvi i loro liberatori adattato, come sopra un’ignuda e vota superficie un nuovo edifizio». In ciò comportandosi ben diversamente dal normanno Guglielmo, che in Inghilterra «non tenendo conto delle introduzioni anglo-sassoni, vi adottò lo stesso dritto pubblico di Normandia», e «pose ancora ogni sua opera a far prevalere in quel regno i costumi e sino il linguaggio dei Franchi», aprendo così l’occasione di non brevi conflitti. Non così Ruggieri il Conte: se introduce il sistema feudale, mantiene «ai naturali la proprietà loro» e li abilita persino «a una certa specie di magistratura» locale. Ma la feudalizzazione introdotta per opera e volontà del conquistatore non riguardò che le terre tolte ai musulmani.
Alle popolazioni soggette i Normanni imposero tributi e servizi. Se il tributo era ‘contribuzione ordinaria e annuale’, il servizio invece si prestava «in diverse maniere, e in certi casi straordinari, e secondo che giudicava il principe esser richiesto ai bisogni pubblici e alle circostanze». Il capitolo 7 del libro II tratta «la condizione e la relazion vicendevole delle parti che componeanla, e la relazione della nazion tutta all’ordine pubblico».
Le condizioni civili formano lo stato di ogni individuo: e sebbene a determinar quelle concorrano in modo particolare le leggi e le disposizioni del governo, pure le costumanze e gli usi dei tempi più che le leggi politiche aveano allora impressa una certa e special forma agli individui, onde non solo i dritti e le relazioni di quelli, ma anche le diverse classi in cui venia distribuita la nazion tutta ne risultavano.
L’intenzione politica di Ruggeri, «il più sapiente dei legislatori di quel tempo», si coglie nel rapporto che il re istituisce fra quell’ordine civile e l’ordine pubblico (politico): un grande intervallo vien posto tra ‘ordine nobiliare’ (i possessori di feudo) e ‘ordine popolare’ (borghesi e rustici). Se questi ultimi vennero, i borghesi almeno, abilitati a «una certa rappresentanza nella interna amministrazione loro», non furono tuttavia «abilitati ad una rappresentanza politica». Le autentiche memorie del tempo chiamano ‘le corti generali’ corti di grandi, di prelati e di nobili. Peraltro,
essendo allora i parlamenti di costituzione feudale, siccome le popolazioni feudali erano contenute nel barone, così le demaniali nel principe: onde se ne inferia, che se ciascun barone rappresentava in parlamento il suo vassallaggio, nel modo istesso vi rappresentava tutto il demanio il sovrano.
E infine, «sebbene le nostre popolazioni fossero già innalzate sotto i Normanni quasi a uno stato di corporazione, e i borgesi avessero in ciascun luogo una civil rappresentanza, non aveano pure quella consistenza e quella forma, che dopo lor die’ l’imperador Federigo». Ma «essendo già stato tutto il dritto politico fondato e costituito in Sicilia dal re Ruggieri, da ora innanzi non debbonsi aspettare che correzioni, riforme, o altri cangiamenti fatti agli antichi sistemi».
Toccò a Federico II constatare quella dissoluzione dello Stato politico. E il giovane sovrano
si propose di ristabilire da una parte le leggi normanne già andate in disuso, ed altre nuove leggi egli ordinò: secondo questo disegno commise al suo cancelliere Pier delle Vigne, perché compilasse un codice, il quale comprendesse non solo le costituzioni da lui ordinate, ma quelle ancora dei re normanni, che ei volle autorizzare espressamente.
Siamo nel 1806. Napoli francese affronta il tema della ricezione dei codici e Gregorio canta l’elogio del codice di Federico:
Fu veramente questo codice opera superiore a quel secolo, e degna del gravissimo ingegno di Federigo: in tempi, in cui niun principe e niuna nazione non che non avea un codice pubblico e bene ordinato di legislazione, ma forse ancora gli editti i capitolari le assise di altre nazioni giacevansi incognite e negli archivi sepolte, e da per tutto viveasi di sole costumanze, mentre in Sicilia le stesse costituzioni dei re normanni erano quasi dimenticate e pressoché sconosciute, seppe il primo l’imperador Federigo immaginare un corpo di Dritto, e comprenderlo in un codice, il quale contenesse leggi a stabilire il sistema politico, ed a regolare le azioni e i giudizj: già era in quel tempo risorto il dritto romano, e disegnò Federigo e seppe recare ad effetto una compilazione di leggi ad esempio dei Teodosj e dei Giustiniani.
Il disegno del libro III delle Considerazioni è così tracciato con linee chiare e brevi: Federico innova rispetto al ‘diritto politico’ normanno, e gli angioini lo seguiranno.
Era stata finalmente dal re Ruggieri l’autorità giudiziaria costituita in modo in Sicilia, che un tribunale ed una curia suprema composta da un maestro giustiziero e da più giudici a tutte le corti locali e provinciali soprantendea, e distinta dal Consiglio Reale di stato, come tribunale ordinario amministrava da per tutto giustizia in supremo ed eminente grado. Federigo non solo mantennela nelle antiche prerogative, ma dielle ancora più stabile e più certa forma, e maggiori giurisdizioni.
Federico non stravolse mai il ‘sistema normanno’. Ed è la certezza del diritto a ispirare tutta la riforma. Abolendo il duello giudiziario, Federico precede san Luigi: «Fu egli certamente il primo, che dopo la oscurità di tanti secoli, e ripugnantivi i costumi pubblici, seppe intorno agli anzidetti articoli formare una nuova scienza, e nuova e più regolare disciplina introdurre nei tribunali». E nondimeno:
Tanto ordine e tanta intelligenza, onde chiara mostravasi la solidità delle pruove giudiziarie ordinate da Federigo, siccome dovea certamente da una parte introdurre una disciplina più regolare nei tribunali, così dovea nel tempo istesso avere grandissima efficacia a discreditare gli usi insensati e militari dei giudizj di Dio e dei duelli. Pure non si dee quì dissimulare, che se i primi furono del tutto proscritti, né ricorre di essi in tempi dopo altra memoria, i costumi pubblici e le antiche abitudini manteneano tuttora i secondi, né Federigo istesso poté resistere in tutto al delirio universale del secolo […].Tanto è vero, che le leggi son vane, ed è il legislatore impotente, quando non sono preparati i costumi.
L’importanza del capitolo V del libro III (la riforma fredericiana del potere locale) si coglie già nell’avvio:
Pure il maggior grado di rappresentanza fu quello di essere stati ammessi nei parlamenti. Vedea Federigo, che da per tutto in Europa davasi ai comuni importanza e vigore, e già alcuni tra i Sovrani chiamavanli alle corti generali della nazione ad opporre i suffragj e la unione di quelli al corpo feudale. Federigo fu per avventura tra i primi ad ammettere i nostri comuni nei parlamenti; [ma] «non lasciò di perder di vista, che questa istituzione potea degenerare in gravissimi abusi, e che poteano quei corpi attribuirsi in processo di tempo dritti e facoltà da procurarsi una ingerenza diretta e preponderante nelle cose politiche; e certo dovea renderlo assai cauto e sollecito l’esempio pericoloso e vicino delle città italiane.
La storia di Corrado e di Manfredi conferma i timori e la saggezza dell’imperatore. Nella logica ‘politica’ del grande racconto, i Vespri son quasi un incidente di percorso. Eppure «i tempi che seguirono dopo la espulsione degli Angioini alterarono di mano in mano gli uffici di giurisdizione e gli antichi ordini di amministrazion di giustizia». La causa? Se
da quell’epoca in poi avea acquistata la nazion tutta una forza nuova, e rappresentanza tale cui nei precedenti governi non avea osato né anche di aspirare […], di tutta la nazione quelli che vennero allora a più alto stato, e innalzaronsi a nuova importanza, furono i baroni ed i nobili.
Né venne la correzione dal potere locale nonostante tra la fine del governo angioino e l’inizio di quello aragonese
si fosse annunziato solennemente, che l’Isola si governava a Comune, pure questo governo era in mano dei soli baroni e dei militi: ed ei certamente dee recar maraviglia, come non molto tempo innanzi, ossia alla morte di Corrado, e nel baliato di Manfredi, avendo osato le principali città siciliane, e tra queste Palermo e Messina, crearsi un proprio lor podestà, e costituirsi alla stessa maniera delle repubbliche italiane, poi quelle stesse popolazioni, dimentiche affatto di ciò che avevano in tempi meno propizj osato, e attaccate alle antiche loro abitudini, altro non fecero nell’interregno, che prestare le armi e il furor loro ai grandi, e si tennero pienamente soddisfatte delle immunità che lor concedeansi, senza né anche avere immaginato, che poteano allora procurarsi forme più stabili e più significanti di corporazione. […] Pure compresela assai chiaramente il re Federigo, e recolla ad effetto. Da una parte avea egli continui e pressanti bisogni, cui non altri poteano soddisfare che le varie popolazioni […]. Dall’altra parte non era egli soddisfatto dei principali tra i magistrati, per li quali aveva ordinate continue e gravi riforme; e teneanlo parimenti sollecito gli umori assai vivi e alcuna volta istemperati dei nobili, a cui le più sagaci provvidenze degli altri governi di Europa in uno stato simigliante non aveano saputo in quel tempo che contrapporre i Comuni.
Quantunque i principi aragonesi fossero i soli legittimi eredi, e gli unici successori al trono della Sicilia, pure conosceano chiaramente, che senza uno straordinario sforzo dei nuovi lor sudditi non vi si potean mantenere. Ciò spezialmente ebbe luogo sotto Federigo […]. Se i siciliani si videro allora abilitati a tante speranze, aveano insieme acquistato tale e sì straordinario grado di forza pubblica, qual facea mestieri a superare tanti ostacoli, ed a resistere con successo agli sforzi continui di tanti nimici e sì possenti. La nazion tutta da gran tempo volontariamente e con entusiasmo armata, e fatta per emulazione e per uso bellicosa, avea non solo nelle imprese di terra, ma acquistata ancora grande perizia e possanza nei fatti di mare: che se questa generosa abitudine, e valor sì grande nelle armi era utile anzi necessario in istato di guerra, non lasciava di essere pericoloso e certamente incomodo nei tempi di pace.
Ma di tutta la nazione quelli che «innalzaronsi a nuova importanza» furono pur sempre i baroni e i nobili. Con il Vespro e i vent’anni di conflitti che seguirono la struttura di governo dell’isola vacillò (collassò) e dovette attendere a lungo una ricomposizione. In questi termini gli antichi ordini politici non poterono più esistere nella loro forma originaria, si indebolirono fino a dissolversi. E lo storico verrà osservando
di tempo in tempo i vizj interni, e i principj di decadenza, e di scioglimento, e i rimedj applicativi; i quali, mentre alteravano le istituzioni normanne e sveve, non serviano che a provvedere al momento, sinché si manifestò dissoluta tutta la costituzione, quando non fu più sostenuta dalla virtù personale del principe.
Il male era nella radice. E nondimeno Federico «per avventura avriavi apportato rimedio, se fosse stato possibile di subordinare alle leggi le circostanze e i costumi». Ché Federico III non fu solo abile guerriero, e buon restauratore del potere regio; egli fu soprattutto, non meno di Federico II, un politico di lungimirante saggezza: il terzo eroe della Storia di Gregorio dopo Ruggieri e l’imperatore Federico.
Ei fu sin da quei tempi considerata come una saggia operazione politica, e da cui non potea non risultarne che un miglior ordine delle monarchie e degli stati, la disposizione di potersi tra i privati alienare i feudi, come un mezzo efficacissimo a diminuire gli ampj e preponderanti corpi feudali: […] Il re Federigo prescrisse la sua legge in Sicilia con assai maggior semplicità […]. Dichiarò adunque […], che ogni conte e barone e feudatario, e chiunque dalla corte immediatamente tenesse feudo, o parte di esso, potesse liberamente venderlo, pegnorarlo, donarlo, permutarlo, e legarlo e disporne nelle ultime sue volontà […] sì veramente che volle preferita la Real Corte, se infra un mese somministrasse la stessa somma, che erasi convenuta tra i contraenti. […] Egli è chiaro, che mentre con questa legge serbavansi i dritti del fisco, rientravano a così dire nel tempo istesso nella massa comune delle proprietà i feudi, abilitandone i possessori a un libero e perpetuo commercio.
Negli anni Ottanta la difesa di Gregorio della legislazione ‘siciliana’ poteva così diventare il punto di equilibrio dell’intera storia. Eppure non sarebbe bastato: «mentre i costumi pubblici nudrivano le sette e i partiti, il Principe con le leggi cercava di spegnerli inutilmente. Egli è pur certo, che se furono di ordinario raffrenati dal re Federigo i nobili e i grandi, non si videro giammai riformati e corretti». Dopo il debole governo di Pietro, e il buon governo del principe Giovanni, le fazioni tornarono a esplodere. Gregorio constata al tempo stesso la decadenza della vita e delle istituzioni ecclesiastiche e identifica, però, una vasta zona intermedia, che interpreta il desiderio di ordine e di pace della ‘nazione’, e che tuttavia non sa darsi un centro, oscillando instabile fra l’una e l’altra fazione: e contribuendo per tal via a frustrare ogni progetto costruttivo.
Ora in questo stato di cose qual governo potea avervi, e come mai sussister poteano i magistrati, che ne sono i ministri e i rappresentanti? Veramente la stessa forma esterna dell’antico dritto pubblico allor disparve, né al più di quello rimasero che le sole rovine, e vote apparenze.
Il libro V, di cui Gregorio vide solo le bozze, doveva narrare di questa anarchia e della ‘potenza e virtù’ con cui Martino procederà alla restaurazione del diritto pubblico siciliano: una restaurazione che agisce come una ‘liberazione del popolo’:
Parve al primo giunger nell’isola del principe aragonese scosso dal suo lungo letargo il popolo siciliano, e sollevato a migliori speranze, e delle sue fortune occupatosi, mostrò cupidissimamente di volersi liberare dal dominio dei grandi.
Ma in una Sicilia corrotta dall’anarchia e in cui i grandi del Regno si arrogavano il ruolo di arbitri supremi della cosa pubblica i Comuni non risposero alla sollecitazione:
l’anarchia avea già spenta nei siciliani ogni ricordanza degli articoli più importanti del lor dritto pubblico, e fatta già perdere la tradizione delle loro antiche usanze. […] E il popolo, che non sa contenersi giammai ne’ debiti limiti, dalla servitù, che venia di soffrir sotto i grandi, appena restituito in libertà, trascorse immantinenti sotto un principe buono quasi in una certa licenza: poiché si videro appena chiamati con la più leal confidenza i Comuni a cooperarsi con lui ad una riforma, invece di applicarsi a ripigliare gli antichi e legali sistemi, pretesero riformare, e il governo, e la corte.
La morte del re chiuderà tragicamente una storia e un’epoca e di lì a poco verrà accantonata l’ultima illusione di poter avere la Sicilia un re proprio. Una parabola cui Gregorio dà suggello, avendo in vista la riduzione della Sicilia alla Spagna: «Veramente d’allora in poi cominciò ad essere la massima dominante di un governo lontano di temer sempre e riguardar quindi e accarezzare in Sicilia i grandi e i potenti».
Da che passò quest’Isola per sistema sotto la dominazione di re lontani, e signori di molti ed assai ampj stati, sebbene avesse mantenuta la propria sua dignità, e tutte conservate le prerogative di regno, pure non lasciò di essere involta nelle vicende di quelli, e di partecipare negli interessi, e di risentire i movimenti di una più vasta, e potente monarchia: […] Indi avvenne, che già sin dal fine del secolo decimo quinto i popoli, e i governi, per lo addietro quasi separati e presso che senza niuna comunicazione tra loro, si disposero a nuovi interessi, cominciarono a gareggiar di potenza; e nel tempo istesso nuova luce sopra tutte le scienze successivamente spargendosi, ed arti nuove introdottesi dopo nuove invenzioni e scoverte; assalita nel medesimo tempo la religione da nimici possenti; venne formandosi, e fu pressoché consumata una mutazione grandissima nei sistemi politici, nelle forme civili, nelle leggi e nelle usanze degli stati e dei popoli. Ei pare che in tanto agitarsi, e rinnovellarsi di cose anche la forma politica della Sicilia fondata già dai re normanni, e poi caduta nei tempi dell’anarchia, né ristabilita appieno sotto Martino, abbia dovuto soffrire qualche alterazione, e in fine adottare gli usi novelli cui veniano di mano in mano gli stati tutti di Europa piegandosi insensibilmente.
Nel libro VI, il secondo postumo (1816) che Gregorio aveva apprestato per la stampa, e del quale però non riuscì a veder le bozze, si dispiega la lezione di Robertson; e Gregorio – dopo aver riassunto quella «rivoluzione generale nei governi, negli interessi, nelle leggi, e nelle usanze degli stati, e dei popoli» – può studiarne l’influenza sulla Sicilia. Così da Alfonso a Carlo V si riprende fiato:
Ei pare che in tanto agitarsi, e rinovellarsi di cose anche la forma politica della Sicilia fondata già dai re normanni, e poi caduta nei tempi dell’anarchia, né ristabilita appieno sotto re Martino, abbia dovuto soffrire qualche alterazione, e in fine adottare gli usi novelli cui veniano di mano in mano gli stati tutti di Europa piegandosi insensibilmente.
Priva di re proprio, la Sicilia rimane comunque lontana dal centro europeo:
sebbene nel corso dei tempi sinora descritti sia stata l’Europa tutta agitata da grandi e straordinarj avvenimenti, pure quest’Isola li risentì quasi in distanza e indirettamente, e in quel modo che influir poteano in uno stato subalterno, e dipendente da una più ampia e lontana monarchia, nella stessa guisa che gli sconvolgimenti che avvengono nel centro di un corpo grande colpiscono assai debolmente le picciole ed estreme parti di quello.
Ciò nonostante anche in Sicilia, sulla scia della trasformazione delle forme politiche europee, furono introdotti nuovi istituti: nel parlamento entra la ‘legge pazionata’:
Era certo per se stessa indecente una tal formola ed assurda quella maniera di impetrare con danaro per le leggi che si voleano stabilite, la sovrana approvazione; imperciocché sebbene alcuni capitoli non contenessero che semplici grazie, in altri pure veniasi a costituire una legge.
Ancora più emblematica appare a Gregorio la graduale scomparsa dei giustizieri provinciali e l’usurpazione baronale della giurisdizione civile e penale.
In somma dai tempi di Alfonso sino a Carlo V furono sconvolti i comuni Siciliani da sì continui e torbidi movimenti nell’interno reggimento loro, che propagaronsi quei disordini sino a tempi di appresso, e sino oltra alla metà del secolo decimosettimo. E riflettasi or che sebbene ad eleggere gli ufficiali municipali siasi da principio prescritto per sistema generale che doveasi cominciare dallo squittino, ed estrarne poi a sorte dal bussolo i nominati nelle cedole, pure siccome erano alcune volte questi ordini di elezione proibiti o sospesi, ed alcuna volta e in alcun luogo impedito o lo squittino o il bussolo, quindi avvenne che da questa epoca in poi cominciossi a tenere come consuetudine locale quella, che era in prima e nella sua origine una istituzione generale. Per questa ragione fu introdotto di allora in poi di chiamarsi volgarmente questa forma di elezione privilegio del bussolo.
I baroni ottennero in quest’epoca maggiori privilegi in materia di proprietà (diritti di possesso e ordine di successione), minori gravami, mentre l’acquisto di nuovi diritti e l’estendersi delle giurisdizioni feudali si tradusse anche in nuove rendite nei vassallaggi. «Egli è indubitato che non altrove che nei parlamenti, e nei capitoli ivi proposti e dal re autorizzati, ridussero in assai migliore stato i baroni la lor condizione in quest’epoca». In migliore stato i baroni, in peggior condizione con il demanio il fisco regio.
Ma assai più ben composte e più ragionevolmente passarono dopo le cose in Sicilia. Veramente Ferdinando il Cattolico sino al 1502 non riscosse dai siciliani straordinarie contribuzioni, che sole tre volte e per ben lunghi intervalli. Dal 1502 in poi si cominciò a convocare regolarmente i parlamenti in ogni tre anni, e in ciascuno di quelli era sempre conchiuso di pagare per tre anni tre cento mila fiorini: non rade volte se ne ragunavano altri infra i tre anni, ove restando immoto il triennale si offeriva un nuovo sussidio, il quale era dopo prorogato, e ciò non solo a sovvenire alle grandi urgenze dei nostri re e di Carlo V massimamente, ma anche a provvedere agli interni bisogni del regno, come a levare truppe, a fortificar le piazze, ed a fabbricare i ponti. A dir più chiaramente fu compreso ad evidenza che la forza e il nerbo principal dello stato dovea consistere nel danaro da versarsi nell’Erario annualmente, e da impiegarsi dal principe in quel modo che i nuovi sistemi e le introduzioni nuove esigeano. I siciliani ne furono sì fattamente persuasi, che non citarono più da Ferdinando il Cattolico in poi i capitoli di Giacomo, convinti pienamente che le collette non poteano più regolarsi a norma dei casi feudali; e che nella nuova composizione delle cose politiche era necessaria una continua ed ordinaria assegnazione di danaro.
Il bilancio vuol essere positivo: qui, in modo più netto che nei volumi precedenti, Gregorio trae dall’attualità le grandi questioni cui una lettura storica del passato può dare risposta articolata. Riguardo la domanda del ‘re proprio’, che negli anni siciliani della monarchia prendeva toni apertamente antinapoletani, né Gregorio né gli allievi di lui avranno parte nelle ‘rivolte separatiste’, ed egli rimase fino alla morte fedele al processo di unificazione istituzionale dei due Regni di Sicilia e di Napoli. La polemica degli anni Ottanta, se voleva rivendicare il carattere proprio della legislazione siciliana, lo faceva per farne il fulcro del riformismo moderato: la questione feudale gli pareva già allora superata dalle provvidenze di Giacomo e di Federico III che – al pari di Enrico VII – avevano eroso dall’interno la proprietà baronale, rendendo possibile entro l’involucro feudale la formazione di nuova proprietà libera. Ma ora aveva chiarito i termini della ‘rivoluzione’ europea che aveva investito la Sicilia fra Quattro e Cinquecento: i baroni, non più obbligati al servizio, non avevano diritto a intrattenere i privilegi che quelle prestazioni giustificavano; e il sistema dei donativi e della nuova fiscalità restituiva alla monarchia, in una concezione nuova della cittadinanza e del pubblico interesse, quei tratti della costituzione normanna cui Gregorio affidava – fin dalla dedica al sovrano – il presente e il futuro della Sicilia.
I regali sepolcri del Duomo di Palermo riconosciuti e illustrati, Napoli 1784.
De supputandis apud Arabes Siculos temporibus, Palermo 1786.
Rerum arabicarum ampla collectio, Palermo 1790.
Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, 2 tt., Palermo 1791-1792.
Introduzione allo studio del diritto pubblico siciliano, Palermo 1794 (rist. anast. a cura di M. Bellomo, Reggio Calabria 1994).
Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino a’ presenti, 1°-4° vol., Palermo 1805-1807; 5°-6° vol., 1810-1816; 7° vol., 1826; poi in 4 voll., Palermo 1831-1839; rist. in 3 voll., con introduzione di A. Saitta, Palermo 1972.
Discorsi intorno alla Sicilia, Palermo 1821.
Opere scelte del Can. Rosario Gregorio (comprendono l’Introduzione, le Considerazioni, i Discorsi), Palermo 1845; ed. corretta a cura di V. Mortillaro, Palermo 1852.
È in corso una edizione ne varietur dell’intera opera di Gregorio, a cura di G. Giarrizzo, che comprende le inedite Institutiones theologicae e il Carteggio (questi ultimi a cura di L. Gazzè).
D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, 3° vol., Palermo 1827, pp. 164-90.
V. Di Giovanni, Rosario di Gregorio e le sue opere: discorso letto nella festa letteraria del liceo di Palermo il 12 di marzo 1871, Palermo 1871.
N. Rapisarda, Studi su Rosario Gregorio, 2 voll., Catania 1909-1910.
G. Giarrizzo, Nota introduttiva a Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, t. 7, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato Pontificio e delle Isole, Milano-Napoli 1965, pp. 1135-55.
A. Saitta, introduzione a R. Gregorio, Considerazioni sopra la storia della Sicilia, 1° vol., Palermo 1972, pp. 7-28.
A.M. Rao, L’amaro della feudalità: la devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1984.
P. De Gregorio, Vita di Rosario Gregorio, Palermo 1996.
G. Giarrizzo, Gregorio Rosario, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 59° vol., Roma 2003, ad vocem.