ROTARI
– Duca longobardo di Brescia, verosimilmente nato agli inizi del VII secolo come si legge nel prologo dell’Editto delle leggi della sua stirpe (da lui stesso fatte codificare per la prima volta), era figlio di un certo Nandinig del lignaggio degli Harodos, che potrebbe essere una denominazione etnica riferibile alla tribù degli Harudes, originaria dello Jutland.
Nel succitato prologo Rotari elencava i propri antenati risalendo addirittura di undici generazioni, fino a un capostipite di nome Ustbora (tra Nandinig e Ustbora si disponevano Notzone, Adamundo, Alaman, Hiltzone, Wehilone, Weone, Fronchone, Fachone e Mammone).
Nel 636 venne eletto re dei Longobardi dopo la morte del predecessore Arioaldo. Secondo Fredegario (Chronica, IV, 70), in seguito al decesso di Arioaldo i Longobardi consentirono alla vedova Gundeperga (figlia del re Agilulfo e di Teodolinda e sorella di Adaloaldo, che a sua volta aveva regnato prima di Arioaldo) di scegliersi un nuovo marito cui trasferire la dignità regia, secondo un costume non infrequente presso la stirpe (la stessa Teodolinda, rimasta vedova di Autari, aveva a suo tempo sposato e reso in tal modo monarca Agilulfo). Gundeperga avrebbe allora preso come consorte Rotari, il quale lasciò per lei la moglie (dal nome ignoto) che già aveva. La fonte franca lamenta però che poco dopo le nozze Rotari recluse la moglie nel palazzo di Pavia, costringendola a una vita monacale, nel mentre egli si accompagnava a svariate concubine. Gundeperga avrebbe accettato con spirito cristiano la propria sorte, conducendo rassegnata un’esistenza di digiuni, veglie e preghiere, fino all’intervento di un legato franco inviato presso Rotari dal re merovingio Clodoveo II, il quale ricordò al longobardo che Gundeperga era imparentata con i Franchi e che questi non avrebbero più tollerato che costei continuasse a essere umiliata. Di fronte a tale ammonizione Rotari si sarebbe affrettato a restituire la regina ai suoi onori.
È da notare che Paolo Diacono (Historia Langobardorum, IV, 47), con palese errore, considera Gundeperga consorte non di Rotari, ma del suo figlio ed erede Rodoaldo. Egli riporta anche l’episodio della calunnia mossa da un tale contro Gundeperga di essersi macchiata di adulterio; il re Rodoaldo avrebbe allora concesso a un servo di nome Carello di combattere in duello contro l’accusatore per provare l’innocenza della regina, e dopo il successo del suo campione la donna sarebbe stata subito reintegrata nella propria dignità. Anche in Fredegario (Chronica, IV, 51) si parla di un’accusa pretestuosa di adulterio contro Gundeperga, collocata in modo corretto al tempo del primo marito Arioaldo, precisando che l’asserito amante sarebbe stato il duca Taso e attribuendo il nome di Pitto al campione che si sarebbe battuto per scagionare la regina. Al di là delle confusioni di date e nomi, la presenza della notizia in entrambe le fonti può far supporre che vi sia alla sua radice un nucleo di verità.
Fredegario ricorda come Rotari, appena salito al trono, abbia provveduto a ristabilire l’ordine nel regno riconducendo all’obbedienza molti duchi ribelli all’autorità regia. In quel frangente sembra si sia cercato di instaurare un nuovo e più stretto rapporto pure con il lontano Ducato di Benevento, tradizionalmente autonomo, se è vero che il duca Arechi inviò a Pavia il proprio figlio Aio, peraltro avvelenato durante il trasferimento, come riferisce Paolo Diacono (Historia Langobardorum, IV, 42), con una bevanda somministratagli dai Romani durante una sosta a Ravenna, che non lo uccise ma lo rese insano di mente.
Oltre allo scrupolo di ripristinare la disciplina nel regno, che con minime eccezioni sin dalla sua fondazione, quasi settant’anni prima, era sempre stato contraddistinto da un’accentuata instabilità politica interna, con lotte intestine all’aristocrazia e la contrapposizione di ampi settori di questa al potere regio, Rotari s’impegnò anche in un grande sforzo bellico contro i residui territori bizantini dell’Italia settentrionale, allo scopo di rendere più stabili e sicuri i confini del proprio dominio, estendendoli al contempo verso le coste tirrenica e adriatica. Forse nei primi mesi del 644 egli guidò una vasta offensiva lungo l’arco altotirrenico che gli permise di impossessarsi di tutti i centri litoranei dell’odierna Liguria, inclusa Genova (Fredegario, Chronica, IV, 71, elenca tra le conquiste anche Albenga, Varigotti, Savona), da Luni fino al confine con il Regno dei Franchi, erodendo pressoché del tutto ogni presenza imperiale nell’area. Sulla frontiera orientale il re aveva invece attaccato, tra il 639 e il 641, il caposaldo bizantino di Oderzo, cuneo imperiale in un entroterra veneto tutto controllato dai Longobardi, che proteggeva la linea costiera in mano all’impero e ostacolava i collegamenti stradali del Regno longobardo dal cuore della regione veneta, e specialmente dal Ducato di Treviso, verso l’importante Ducato del Friuli. Dopo la presa longobarda di Oderzo (che venne ulteriormente, e definitivamente, devastata dal re Grimoaldo nel 667), nella regione l’impero venne scacciato in via definitiva dalla terraferma e rimase confinato alla sola fascia di lagune dislocate lungo la costa.
La stessa sede dell’amministrazione bizantina dovette essere collocata in ambito costiero-lagunare a Cittanova-Eracliana; il cronista venetico Giovanni Diacono (Istoria Veneticorum, I, 6), che scrisse agli inizi dell’XI secolo, ricorda come dopo la caduta di Oderzo per mano di Rotari anche il vescovo di quella città fu costretto a trasferirsi a Eracliana, con l’autorizzazione del papa Severiano.
Un ulteriore importante successo militare di Rotari fu costituito dalla vittoria da lui riportata sulle truppe dell’esarcato nei pressi del fiume Panaro (che Paolo Diacono, Historia Langobardorum, IV, 45, chiama Scultenna, antico nome del tratto superiore appenninico di quel corso d’acqua), datata alla fine del mese di novembre del 643. Lo scontro, nel quale perì lo stesso esarca Isacio, contribuì a stabilizzare proprio lungo la linea del fiume il confine con l’esarcato, in precedenza particolarmente instabile.
A lungo si è ritenuto che esso, prima dell’intervento di Rotari, corresse attraverso la zona compresa fra Parma e Guastalla, ma i ritrovamenti di sepolture longobarde, databili fra la fine del VI e gli inizi del VII secolo, nel Modenese hanno indotto a ricollocarlo in quest’ultimo ambito già alla vigilia della campagna rotariana. In ogni caso, questo tratto di frontiera fra il Regno longobardo e l’esarcato appare esser stato assai meno consolidato di quello più settentrionale, lungo il Po, protetto da una linea di castelli bizantini appositamente eretti, e ciò spiega sia gli interventi nell’area cui fu già costretto a suo tempo Agilulfo, sia la necessità dell’ulteriore e risolutiva spedizione di Rotari. Nella battaglia sul Panaro, secondo Paolo Diacono, gli imperiali lasciarono sul campo la cifra iperbolica di ottomila uomini, riportando una pesantissima disfatta. In seguito a queste vicende, favorite anche dalla contingente debolezza dell’esarcato per le lotte intestine causate dagli usurpatori Giovanni di Conza ed Eleuterio, i Longobardi riassunsero anche il pieno e definitivo controllo della città di Modena.
Rotari era di confessione ariana, come tutti i re longobardi in Italia prima di lui, con l’eccezione del solo Adaloaldo, che era stato battezzato cattolico. L’adesione all’arianesimo, dottrina condannata come eretica dalla Chiesa al Concilio di Nicea del 325, per i monarchi e per l’aristocrazia dei Longobardi (così come accadeva presso la quasi totalità delle stirpi barbare, tranne i Franchi) significava soprattutto la volontà di affermare anche per questa via la propria identità distinta da quella della maggioranza romana, cattolica, in una fase storica in cui la necessaria coesistenza nel territorio del regno fra i due gruppi etnici non presupponeva ancora un reale processo di fusione tra gli stessi. Il definitivo abbandono dell’arianesimo da parte dei Longobardi avvenne per gradi nella seconda metà del VII secolo, soprattutto a partire dal regno di Ariperto (653-661), accompagnando e allo stesso tempo accelerando la formazione di una nuova società etnicamente e culturalmente integrata. Al tempo di Rotari si può riscontrare, tuttavia, il riproporsi della coppia re ariano/regina cattolica (Gundeperga), che aveva avuto quale sua più celebre espressione anteriore quella costituita da Agilulfo e Teodolinda, capace di sintetizzare al vertice del regno la dicotomia religiosa dello stesso e di costituire, nella propria duplicità, un termine di riferimento accettabile per tutti i sudditi, inclusi i Romani. Rotari, il cui arianesimo è sottolineato da Paolo Diacono (Historia Langobardorum, IV, 42) solo per annotare che, malgrado il suo credo errato, il monarca fu un uomo valente e degno d’ammirazione, si dimostrò per molti versi attento alle necessità della Chiesa cattolica, come già lo era stato per esempio Agilulfo, in ragione di una politica di maggior coinvolgimento delle élites romane e delle istituzioni cattoliche nella vita del regno, utile ad allargare la base del suo potere e ad ampliare il consenso. Così, nel 649 egli favorì la partecipazione dei vescovi cattolici del suo regno a un concilio celebrato a Roma, nel mentre facilitava pure la ripresa della serie episcopale in molte sedi rimaste a lungo vacanti, come, per esempio, Siena. Concesse anche un diploma al monastero di Bobbio, con il quale si ribadiva l’indipendenza, già stabilita da papa Onorio I, dell’importante cenobio appenninico dal vescovo di Tortona. L’Historia Langobardorum codicis Gothani, breve testo redatto tra la fine dell’806 e la metà dell’810 e confluito in un manoscritto che tramanda il codice delle leggi longobarde, annovera quale massimo merito del regno di Rotari (probabilmente con eccessiva enfasi), oltre alla codificazione normativa, proprio il fatto che al suo tempo i Longobardi iniziarono a collaborare in modo più assiduo con il clero cattolico e a farsi attenti alle disposizioni dei canoni ecclesiastici.
In generale, le fonti come quelle di Fredegario e Paolo Diacono esaltano della figura di Rotari soprattutto la sua capacità di garantire pace e disciplina al proprio regno, sia con l’esercizio della forza contro ribelli interni e nemici esterni (e in questo egli può essere accostato al predecessore Agilulfo), sia attraverso il rigore della legge. Proprio la codificazione del diritto da lui promossa figura, sia nelle testimonianze antiche sia nella storiografia moderna, come il risultato più importante da lui conseguito, quello capace da solo di tramandare nel tempo la memoria del suo nome. Il 22 novembre 643, nel palazzo regio di Pavia, Rotari promulgò un Editto che raccoglieva per la prima volta in forma scritta il patrimonio normativo dei Longobardi, sino a quel momento trasmesso solo oralmente per il tramite di esperti in grado di ricordare e tramandare tutto il complesso delle leggi della stirpe e di evocarle al momento della loro applicazione. Il recupero di tale corpus di norme compiuto dal monarca con il necessario concorso dell’aristocrazia e del popolo-esercito, gli altri poli che, con il re, esprimevano il potere nella società longobarda, si tradusse in un codice che venne ratificato per gairethinx, cioè dall’assemblea degli uomini liberi membri dell’esercito (exercitales, o, in longobardo, arimanni), in ossequio alla tradizione tribale. Lo scopo dichiarato nel prologo di una simile operazione era quello di tutelare, tramite una legge più certa perché scritta, i poveri dagli abusi commessi a loro danno dai potenti, con il re artefice della codificazione che si offriva dunque come protettore dei suoi sottoposti e garante della giustizia. In realtà le motivazioni che spinsero Rotari a una tale iniziativa restano difficili da cogliere appieno ed è probabile che discendessero da intenti molteplici, anche se convergenti nei loro obiettivi di fondo. Tra questi, il tentativo di rafforzare il ruolo del re alla vigilia delle campagne militari in Liguria e nel Veneto, che mobilitarono l’intero esercito longobardo, impegnandolo in un conflitto duro e rischioso. Con la promulgazione dell’Editto è possibile che Rotari abbia puntato a ottenere il sostegno degli exercitales assicurando loro protezione contro le angherie dei potentes, per ricompattare così l’intero popolo-esercito attorno al re in vista di un impegno militare di particolare entità. In una simile prospettiva, come a suo tempo sostenuto da Gian Piero Bognetti, l’Editto avrebbe rappresentato soprattutto un «espediente politico», più significativo per l’atto stesso di essere composto ed emanato che per il suo contenuto specifico, funzionale al consolidamento del potere regio tanto quanto i successi bellici ottenuti da Rotari contro i Bizantini e la sua azione di disciplina dell’aristocrazia all’interno del regno. Inoltre, il re longobardo, promuovendo la sua codificazione, si presentava anche quale emulo del massimo esempio storico di monarca-legislatore, l’imperatore Giustiniano, il padre del Corpus iuris civilis, qualificando ulteriormente il proprio ufficio nell’imitazione del modello romano. Tuttavia, al re dei Longobardi restava preclusa la possibilità di presentarsi tra i suoi quale fonte del diritto, come avveniva invece nella tradizione romano-imperiale, dal momento che nel costume della sua stirpe la norma non era ritenuta fluire dalla volontà del monarca, ma era concepita piuttosto di origine pattizia, sorgente in seno al gruppo tribale per cooperazione dei diversi soggetti coinvolti.
La legge, secondo tale concezione, affondava le proprie radici nella memoria collettiva della tribù ed era convenuta fra il re, il popolo-esercito e i membri più potenti dell’aristocrazia, chiamati nell’Editto «iudices». Tutti costoro ‘trovavano’ insieme le norme nel patrimonio della tradizione tribale, in cui esse preesistevano e in cui risiedeva ogni legittimità, e le evocavano ‘ricordandole’, per ratificarle infine tramite gairethinx. Insomma, anche nell’atto di primario valore politico costituito dall’emanazione di un codice di leggi scritte, un’iniziativa che rappresentava l’espressione di una delle attività maggiormente qualificanti la carica regia, e che rinviava agli imperatori romani, un monarca longobardo della metà del VII secolo non era in grado di emanciparsi dall’obbligato consenso degli altri poli tradizionali del gruppo etnico; e l’incapacità di sottrarsi a simili condizionamenti, sconosciuti invece al princeps romano, era ribadita pure dall’impossibilità, dichiarata dallo stesso Rotari, di abrogare antichi usi, come il duello giudiziale, che pure si ritenevano errati ma che non ci si permetteva di sopprimere in quanto costume della stirpe.
La necessità di richiamarsi alla tradizione tribale, nella quale risiedevano il fondamento e la legittimità della norma, spiega perché nel prologo alle leggi fossero inseriti il già ricordato elenco degli antenati di Rotari e la lista dei re suoi predecessori, sedici in tutto, fino a un primo antichissimo monarca dei Longobardi di nome Agilmundo. La medesima funzione svolta da questi cataloghi, che rappresentano la più antica forma di narrazione storica, è adempiuta in tre codici manoscritti che tramandano l’Editto (su un totale di sedici) da un racconto più articolato della storia dei Longobardi, la cosiddetta Origo gentis Langobardorum, redazione scritta, in versione latina, del VII secolo, dell’ancestrale saga nazionale dei Longobardi, collocata a premessa della raccolta normativa. Il racconto dell’Origo parte dalla genesi mitica della tribù, in un’epoca e in un luogo imprecisabili, con l’assunzione del nome di «longobardi», cioè «lunghe barbe», e l’adozione del culto del dio della guerra Wotan. Alla saga delle origini segue un più sbrigativo riassunto delle successive migrazioni dei Longobardi attraverso il continente europeo e in direzione del Mediterraneo, fino all’arrivo e allo stanziamento in Italia. L’Editto fu compilato in latino, la lingua per eccellenza del diritto scritto, adoperata anche da quasi tutte le altre stirpi barbare per codificare le proprie consuetudini, con la sopravvivenza solo di alcuni termini longobardi, sovente glossati nel testo perché non più immediatamente comprensibili alla metà del VII secolo. Tali relitti linguistici permettono almeno di intuire l’originaria struttura dei titoli di legge tramandati oralmente nella lingua dei Longobardi, ricchi di allitterazioni e assonanze per facilitarne la memorizzazione. I redattori dell’Editto, per la stesura del quale concorsero longobardi che conoscevano le leggi e romani che le tradussero e misero per iscritto nella loro lingua, poterono avvalersi di insigni modelli di compilazione, quali il Corpus iuris giustinianeo e il Codex di Teodosio. La materia complessiva appare ripartita in un totale di 388 titoli, in genere brevi, secondo uno schema sufficientemente ordinato per blocchi di argomenti omogenei, sebbene non manchino delle anomalie, con alcuni singoli titoli di legge inseriti tra altri dal contenuto del tutto differente. Si inizia con i reati commessi contro l’autorità pubblica (1-13), e poi ci sono quelli contro i privati e i loro beni (14-152), seguiti da sezioni attinenti le successioni (153-177), i matrimoni (178-223), le manomissioni di servi (224-226), la proprietà e le obbligazioni (227-252), i reati minori e i danneggiamenti (253-358), la procedura (359-366), e infine un gruppo di titoli dal carattere eterogeneo, che danno quasi l’impressione di essere aggiunte finali su argomenti rimasti in precedenza trascurati (367-388). Una peculiarità dell’Editto longobardo rispetto alle altre codificazioni delle stirpi barbare è rappresentata dall’ampio spazio dedicato alla materia procedurale e civile rispetto a quella penale, che invece altrove è largamente prevalente. In chiusura, veniva precisato che una copia del codice, certificata per mano del notaio palatino Ansoaldo, era conservata nel palazzo di Pavia, affinché potesse fungere da testo di riferimento ufficiale in caso di qualsivoglia dubbio o contestazione. Il titolo 386 dell’Editto prevedeva esplicitamente per i re successori di Rotari la possibilità di aggiungere al codice ulteriori leggi, sempre ‘ricordate’ e ‘recuperate’ attingendo alla tradizione e quindi concettualmente non create ex novo, sebbene in diversi casi, soprattutto con Liutprando, si siano avute disposizioni di effettiva innovazione. Della facoltà di incrementare l’Editto si avvalsero Grimoaldo (662-671), Liutprando (713-744), Ratchis (744-749), Astolfo (749-756) e i principi di Benevento Arechi II (758-787) e Adelchi (853-878), autoproclamatisi eredi e continuatori del Regno longobardo dopo la conquista di quest’ultimo (ma non di Benevento) a opera del franco Carlomagno nel 774. In ogni caso, non tutte le leggi dei Longobardi furono codificate nell’Editto di Rotari e dei suoi successori, dal momento che accanto alla norma scritta si mantennero in vigore numerose consuetudini, in longobardo cawarfide, che continuavano a regolare molti aspetti della vita della società longobarda. Inoltre, su base documentaria sembra potersi riscontrare anche un qualche scarto fra le disposizioni della norma codificata e la prassi, per cui la risoluzione di molte controversie poteva avvenire, specie in ambito privatistico, secondo modalità difformi dalla lettera del codice, in forme transattive e arbitrali. Con ogni probabilità restarono fuori dell’Editto anche diverse disposizioni regie originate da situazioni contingenti e dal carattere transitorio, orali o scritte che potessero essere.
La loro esistenza è suggerita dai due testi noti come Memoratorio de mercedes commacinorum e Notitia de actoribus regis, rispettivamente una sorta di capitolato d’appalto composto sotto Grimoaldo o Liutprando per i maestri muratori impegnati nella costruzione o nel restauro di varie tipologie di edifici e un preceptum di Liutprando per una categoria di pubblici ufficiali, gli actores regis, con compiti soprattutto amministrativi; due compendi normativi prodotti per necessità specifiche che però finirono per essere inseriti nell’Editto, lasciando così traccia permanente di sé.
Un nodo critico a lungo dibattuto è stato quello di quali fossero i soggetti cui l’Editto si applicava, se cioè esso valesse per i soli Longobardi ovvero coinvolgesse anche i Romani viventi nel regno. Al tempo di Rotari le leggi raccolte nell’Editto dovettero riguardare solo i Longobardi, mentre i Romani continuarono ad avvalersi del proprio ius, in un sistema giuridico binario in cui vi era semmai il problema di come regolare le cause che opponevano individui soggetti a diritti diversi, che dovettero aumentare nel corso del tempo con l’intensificarsi delle relazioni fra i barbari immigrati e la popolazione autoctona. Con la fusione tra i due gruppi etnici che si perfezionò soprattutto nella seconda metà del VII secolo, in seguito all’ingresso dei Romani nell’esercito e quindi nel ceto dirigente, l’Editto finì però per estendersi a tutti i sudditi, ora non più distinguibili su base etnica, acquisendo appieno carattere di diritto territoriale del regno (e poi del Principato di Benevento, suo erede). In ogni caso, ciò non significò la piena uniformità giuridica, poiché rimasero vigenti nel regno altri sistemi normativi a cominciare da quello romano, che restò quale diritto del clero.
Come detto, Rotari svolse la sua azione legislativa nel dovuto rispetto dei principi propri della cultura giuridica longobarda, che imponevano di operare solo nel solco della tradizione, ostacolando ogni tentativo di innovazione reale. Pur tuttavia egli riuscì a discostarsi in alcuni casi dal costume della stirpe, anche in campi di particolare rilievo, per esempio negando il diritto alla faida, cioè alla vendetta privata esercitata dai parenti della vittima di un reato a danno del reo o dei suoi congiunti, che dava luogo a fenomeni di violenza protratta tra interi gruppi familiari, creando disordine sociale. Nell’Editto, all’ancestrale uso della faida si sostituì il meccanismo della composizione, vale a dire il pagamento di una somma di indennizzo versata dal colpevole al danneggiato, o ai suoi parenti, che si basava sul concetto che ogni uomo avesse una propria valutazione economica, il guidrigildo, variabile in ragione del suo rango sociale. La composizione era dunque computata sulla scorta del livello sociale della vittima del reato e sulla tipologia di quest’ultimo e il suo versamento estingueva ogni ulteriore pretesa. Seri dubbi venivano espressi anche verso il duello giudiziale, ulteriore istituto tradizionale per cui le due parti coinvolte in una lite erano chiamate a battersi tra loro, personalmente o attraverso propri campioni, e il cui esito indicava nel vincitore colui al quale si doveva dare ragione. Al duello si cercò di sostituire la pratica incruenta del giuramento, prestato solennemente sulle armi consacrate o sui Vangeli e con il concorso di coniuratores, cioè di persone condotte da ciascuna delle parti a condividere con loro la responsabilità del giuramento, mettendo in gioco il proprio onore, in quanto si era consapevoli che il duello si prestava a molti arbitrii e ingiustizie, addirittura con casi di individui che sfidavano pretestuosamente altri con false accuse sapendo di poterli superare con le armi perché più forti di loro. Tuttavia il duello non poté mai essere abrogato, nemmeno dai successori di Rotari, perché antica cawarfida dei Longobardi. Innovazioni significative rispetto alla tradizione ebbero luogo, più che con Rotari, con i re dell’VIII secolo, in particolare con Liutprando, il quale, in un contesto sociale profondamente trasformato, poté operare mutamenti per esempio nell’ambito del diritto matrimoniale e successorio e a tutela dei soggetti più deboli, recependo istanze cattoliche e addirittura canoni ecclesiastici.
Rotari morì nel 652 dopo sedici anni di regno e gli successe il figlio Rodoaldo, il quale però fu assassinato dopo appena pochi mesi di governo e rimpiazzato a sua volta da Ariperto. Paolo Diacono (Historia Langobardorum, IV, 47) annota che il monarca, seppur ariano, fu sepolto nella basilica di S. Giovanni Battista, senza però precisare la città in cui quest’edificio era ubicato.
Con ogni probabilità si trattava della chiesa di Monza fatta erigere dalla regina Teodolinda; in alternativa si dovrebbe pensare a una delle due chiese dedicate al Battista che all’epoca esistevano a Pavia, una eretta da Gundeperga, l’altra, più antica, detta ‘in Borgo’. Paolo conclude il proprio ritratto di Rotari con un resoconto leggendario teso a ribadire ancora una volta l’apprezzamento per questo re e per la sua azione di governo vigorosa e giusta, malgrado il suo esser stato un eretico. Poco dopo la morte di Rotari, la sua tomba venne profanata nottetempo da un uomo che ne voleva saccheggiare il corredo funebre. Ma appena commesso il gesto sacrilego, al ladro apparve la visione di Giovanni Battista che lo atterrì rimproverandolo di aver osato toccare il corpo di colui che, nonostante non credesse «in maniera giusta», gli si era voluto affidare in morte. Come castigo, s. Giovanni interdisse al profanatore ogni futura possibilità di ingresso nella sua chiesa; e, difatti, da quel giorno ogni qual volta l’uomo si provava a varcare la soglia della basilica, veniva prodigiosamente respinto all’indietro come se un pugile invisibile lo avesse colpito con un forte pugno al collo.
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