ROTARI
. Re longobardo (636-656). Restaurò l'ordine interno, combatté il separatismo dei duchi, diede nuovo impulso alla guerra contro i Greci, completando le conquiste longobarde ai loro danni (v. longobardi, XXI, p. 476). Ma la sua opera più importante è la promulgazione dell'editto.
L'editto di Rotari. - Le leggende conservano il ricordo di legislatori longobardi, come Gambara, anteriori a Rotari. Ma Rotari fu colui che offrì il nucleo primigenio allo sviluppo di tutta la legislazione longobarda. Il 22 novembre 643, vietando ai sudditi di allegare altre norme che non fossero in esso comprese, pubblicò un corpo di norme che avrebbe dovuto riflettere fedelmente la lex, pur con innovazioni, emendamenti, semplificazioni, complementi. La principale materia gli fu offerta dalle antiquae leges patrum non peranco fermate nella scrittura, ma accertabili attraverso il ricordo del re stesso e degli antiqui homines, depositarî delle tradizioni avite (cadarfredae).
Sono trecentottantotto capitoli, che trattano della repressione dei reati contro lo stato (1-14), contro la incolumità delle persone (15-147) e delle cose (148-152), del diritto ereditario (153-177), del diritto di famiglia (178-226), dei diritti reali (227-244), dei diritti di obbligazione (245-258), della responsabilità per i servi (259-270), dei danneggiamenti (271-358), delle obbligazioni (359-366). I capitoli 367-388 sembrano aggiunti per riparare a omissioni o per derogare a norme precedentemente segnate. Un certo ordine si riscontra nelle singole serie dei capitoli: manca un sistema generale; nessuna divisione in libri e in titoli; rade rubriche.
R. non ha creduto però di dar fondo a tutto il diritto. Ha considerato l'opera sua come suscettibile di ampliamenti. Ed egli stesso ha aggiunto più tardi i capitoli 386-388, proprio quando vietava di dare credito ad altri esemplari che a quelli i quali fossero usciti dalla cancelleria regia con l'autenticazione del notaio Ansoaldo.
Si è esagerato nel raffigurare l'editto di R. come lo specchio più lucido e fedele delle istituzioni longobarde; ma si è esagerato ancor più nel farne una specie di codificazione delle norme romano-volgari. La sua sostanza è fondamentalmente germanica. E, per quanto ancora dai più si sostenga che egli intendesse rivolgersi insieme ai Longobardi e ai Romani; nei quali si ravvisarono volentieri i poveri di cui paternamente si preoccupava, è probabile che egli si rivolgesse soltanto alla nobilissima gente dei Longobardi. Se così non fosse stato, non avrebbe dato unicamente risalto alla collaborazione dei custodi delle tradizioni longobarde. Si è supposto che nell'ombra abbiano collaborato alla sua opera anche Romani; ma è sempre notevole che la loro cooperazione non sia apparsa in ogni caso degna di rilievo. Tanto più notevole in quanto R., sebbene lo facesse approvare dalle assemblee armate, non presentò il suo editto come una semplice raccolta di Weissthümer o come un diritto popolare per eccellenza; ma mise spesso in evidenza la sua volontà. Era abbastanza libero nelle sue iniziative.
Lo volle redatto in latino. Un latino tutt'altro che elegante e corretto, anche se molta parte delle irregolarità, che gli editori ci hanno posto sott'occhio, possa essere dovuta alle tante e poco curate trascrizioni, attraverso le quali è giunto nei manoscritti anche più autorevoli che ora sono a nostra disposizione. Non vi fu soverchio rispetto per la grammatica e per la sintassi. E, benché ai compilatori non fossero ignote le leggi romane (specialmente il codice giustinianeo e le novelle giustinianee), si fece frequente ricorso a dizioni volgari.
Non era, del resto, facile il rendere latinamente le parole e i concetti germanici. Fu necessario conservare talvolta la parola germanica ponendola a fianco della latina o facendola seguire dall'equivalente latino. L'enunciato è generalmente semplice e chiaro, nonostante l'imperfezione della tecnica legislativa che consentiva a stento di ridurre le norme speciali sotto le norme superiori da cui dipendevano e si lasciava troppo guidare dalla singolarità dei casi.
R. pubblicò il suo editto al principiare del settimo anno del suo regno. Avvolto, com'era stato, in aspre lotte con i Bizantini, può sembrare meravigliosa la rapidità con la quale condusse a termine l'arduo assunto, benché d'una certa fretta di composizione potrebbero essere indizio le contraddizioni e le ripetizioni non del tutto evitate. E conviene pur domandarsi se la rapidità dell'impresa non sia stata agevolata dalla preesistenza di qualche canovaccio. Qualche manifestazione legislativa del popolo longobardo si ebbe certamente prima del 643; ma si trattò certamente di editti particolari. Il canovaccio non va ricercato in essi. Si è pensato piuttosto alle leggi visigotiche. N. Tamassia specialmente ha insistito su codesti confronti. Le relazioni con le leggi visigotiche spiegherebbero bene le coincidenze di forma e di contenuto che si possono anche riscontrare con altre leggi barbariche come la burgunda, la salica, la bavarica e l'alemanna. Di solito i confronti si fanno con la recensione leovigildiana: ma, forse, è, da pensare a legislatori più antichi come Eurico o, magari, Teodorico I. Leggendo l'editto di R., che spesso presenta glossemi e glossemi a glossemi, si ha ad ogni modo l'impressione di ritocchi fatti su una trama precedente. Non sarebbe difficile dietro al testo il ricostituirne un altro che potrebbe essere stato un progetto della commissione composta da R., ma che potrebbe anche essere stata l'opera di un altro legislatore, adattata al popolo longobardo che, pur avendo molti istituti comuni, ne aveva anche di proprî.
V. anche longobardi: Diritto; liutprando.
Bibl.: C. Turk, Die Langobarden und ihr Volksrecht, Rostock 1835; P. Merkel, Geschichte des langobardischen Rechts, Berlino 1850, trad. it., E. Bollati, Torino 1857; De Rozières, Mémoires sur l'histoire du droit des Lombards, Parigi 1864 (in Recueil de l'Académie de législation, XII); P. Del Giudice, Le traccie del diritto romano nelle leggi longobarde, Milano 1887 (in Rendiconti dell'Istituto lombardo, XVIII-XIX); id., Sulle aggiunte di Rachis e di Astolfo nell'Editto longobardo, in Rendiconti dell'Istituto lombardo, ivi 1902 e in Nuovi studî di storia e diritto, ivi 1913; C. Calisse, Diritto ecclesiastico e diritto longobardo, Roma 1888; N. Tamassia, Le fonti dell'editto di Rotari, Pisa 1889; id., Römisches und westgötisches Recht in Grimoalds und Liutprands Gesetzegebung, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung, XVIII (germ. Abt.), p. 148 segg.; id., Il capitolo 19 di Liutprando e i Digesti, Padova 1901; A. von Halban, Das römische Recht in den germanischen Volksstaaten, Breslavia 1901, II, pp. 1-203. Per ulteriore bibliografia cfr. E. Besta, Storia del diritto italiano, sotto la direzione di P. Del Giudice, I, i, p. 133 segg., Milano 1923.