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Al centro della regione dei Grandi Laghi, il Ruanda è stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile che nel 1994 ha bruscamente risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. L’allora segretario delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali parlò di ‘genocidio ruandese’. Superata la fase di massima emergenza, una genuina competizione multipartitica è oggi ostacolata dall’azione del presidente della repubblica Paul Kagame, che monopolizza il sistema politico. Molti dissidenti politici operano dall’estero, nel tentativo di coalizzarsi per contrastare quello che considerano la dittatura del partito di governo, il Rwandese Patriotic Front (Rpf), confermato alle elezioni legislative di settembre 2013 con il 76,2% dei voti.
Ex colonia tedesca, poi mandato internazionale affidato al Belgio e infine, con l’indipendenza nel 1962, legato all’influenza del Belgio e soprattutto della Francia, il Ruanda di Kagame e dell’élite anglofona del Rpf, formatasi negli anni dell’esilio ugandese, ha attuato una svolta storica entrando nel Commonwealth (novembre 2010) e coronando così la sua piena reintegrazione nella comunità internazionale.
Gli anni della guerra civile sono all’origine dell’attuale assetto politico del paese. Dopo aver a lungo tentato di costruire l’unità nazionale attraverso la discriminazione dei Tutsi, il regime a partito unico (Mouvement révolutionaire national pour le développement), guidato da Juvénal Habyarimana e appoggiato dalla maggioranza hutu, entrò in crisi nel settembre 1990, quando il Prf avviò una serie di azioni armate dalle sue basi in Uganda. Il Rpf era formato da esuli tutsi che, in gran parte, avevano militato nel Resistance Army del presidente ugandese Yoweri Museveni. Incalzato dal Rpf, Habyarimana annunciò nel luglio 1991 la transizione al multipartitismo e aprì a un lungo negoziato che, il 4 agosto 1993, portò alla firma degli accordi di pace di Arusha.
Il 6 aprile 1994, l’aereo sul quale Habyarimana viaggiava assieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira venne abbattuto da un missile: morirono entrambi. A tutt’oggi non è stata fatta luce sull’episodio che ha scatenato accuse vicendevoli tra il Rpf e i sostenitori di Habyarimana. Nel 2006 un giudice francese ha concluso che fu proprio Kagame a ordinare l’abbattimento del velivolo per poter dare il via a quell’offensiva politica e militare che lo avrebbe poi portato al potere: in risposta, il governo di Kigali interruppe le relazioni diplomatiche con Parigi, riprese poi nel 2010.
A torto o a ragione l’abbattimento dell’aereo presidenziale venne preso a pretesto dagli estremisti hutu per massacrare gli oppositori. Tra l’aprile e il luglio 1994 furono 800.000, forse un milione, i Tutsi e gli Hutu moderati a essere uccisi dalle bande dell’Interahamwe (organizzazione paramilitare degli Hutu), mentre due milioni di ruandesi cercarono riparo in Tanzania, Burundi e Congo (allora Zaire). La forza di pace delle Nazioni Unite, che era stata dispiegata a seguito degli accordi di Arusha, venne attaccata e, dopo l’uccisione di alcuni militari di nazionalità belga, lasciò il paese, incapace di fermare il conflitto.
Sotto l’offensiva del Rpf le forze armate ruandesi vennero rapidamente sconfitte e, nel 1994, il Rpf pose fine alla guerra civile, costituendo un governo di transizione che portò alla presidenza della repubblica e a capo dell’esecutivo due Hutu moderati, rispettivamente Pasteur Bizimungu e Faustin Twagiramungu. Le leve del potere rimasero però saldamente nelle mani del Rpf e, in particolare, dell’allora ministro della difesa Paul Kagame. La scalata al potere dei Tutsi fu coronata nel 2000, quando Kagame si impossessò della presidenza per poi essere confermato alla guida del paese con risultati plebiscitari alle elezioni del 2003 (95% dei voti) e del 2010 (93% dei voti).
La comunità internazionale ritornò in Ruanda con uno sforzo umanitario imponente nell’ambito della United Nations Assistance Mission in Rwanda (Unamir), che terminò solo nel 1996. Il processo di riconciliazione nazionale e ricomposizione sociale passò anche per la Costituzione ad Arusha, nel 1994, del tribunale internazionale su mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha perseguito gli ideatori e pianificatori del genocidio, mentre le migliaia di esecutori materiali sono stati individuati e processati a partire dal 2001 attraverso un sistema di corti (le gacaca), organizzate sulla base del diritto consuetudinario tradizionale. Nel giugno 2012 la «Bbc» annunciò la fine di tutti i processi. La nuova Costituzione del 2003 proibisce ogni esplicito riferimento all’etnicità in termini divisivi e competitivi e censura le pratiche di controllo o monitoraggio in chiave etnica.
Essere Tutsi oggi significa appartenere a una comunità che è sopravvissuta a più di un massacro in chiave etnica, dei quali quello del 1994 è stato soltanto l’ultimo e il più importante. Ma anche essere Hutu significa appartenere a una comunità legata a una storia di persecuzioni. In particolare significa essere sopravvissuti ai massacri perpetrati in Burundi, Congo e Ruanda settentrionale. Furono le manipolazioni introdotte dal colonialismo a creare un senso divisivo e potenzialmente conflittuale di identità tra due gruppi che, in effetti, condividono la stessa lingua, la stessa organizzazione sociale e gli stessi valori religiosi.
Oggi il Ruanda attraversa una fase cruciale per le sue relazioni internazionali. Da quando il Rpf è salito al potere nel 1994, i donatori stranieri, in particolare Regno Unito e Usa, sono stati generosi: hanno rimpinguato le casse statali fornendo fondi pari a quasi la metà delle entrate pubbliche annuali. Tuttavia, le accuse di sostegno da parte del governo ruandese al gruppo ribelle del M23, una milizia filo ruandese insediata siche opera a est della Repubblica Democratica del Congo, alcuni donatori hanno sospeso gli aiuti. In particolare gli Usa hanno tagliato l’assistenza militare per un valore di 500.000 dollari.
A livello regionale, i rapporti del Ruanda rimangono quindi tesi con il Congo, dove, tra l’altro, si rifugiano le milizie delle Forces démocratiques de libération du Rwanda (Fdlr), formato da Hutu ostili all’attuale governo ruandese. Complessa anche la relazione con la Tanzania che, nell’estate 2013, ha espulso diverse migliaia di ruandesi. Rimangono, al contrario, alleati il Kenya e l’Uganda, impegnati in un’opera di integrazione regionale nell’ambito della Comunità dell’Africa Orientale.
Il Ruanda è il secondo stato più densamente popolato dell’intero continente africano, con una popolazione che, secondo le statistiche del 2012, supera i 460 abitanti per chilometro quadrato. Almeno l’85% dei ruandesi dipende dall’agricoltura per la propria sussistenza. La guerra civile ha lasciato in eredità al paese, oltre ai morti e ai profughi, migliaia di orfani e di persone in prigione in attesa di giudizio.
Il 71% della popolazione adulta è alfabetizzata, ma solo il 6% ha ricevuto un’istruzione superiore. Dopo la fine della guerra civile il governo ruandese ha fatto della ricostruzione e riqualificazione del sistema scolastico una delle sue principali priorità. La speranza di vita del paese, seppure ancora bassa, cresce progressivamente e dai 27 anni dei primi anni Novanta è passata oggi a 55 anni. A seguito della guerra, i Tutsi, che erano già in minoranza, sono ulteriormente diminuiti e si stima rappresentino oggi solo il 15% della popolazione. I Tutsi legano la loro storia all’aristocrazia pastorale che governò il regno del Ruanda, fondato dal primo re (mwami) Ruganzu I Bwimba tra il 15° e il 16° secolo, e formalmente abolito solo nel 1959. Gli Hutu, il gruppo di maggioranza, sono una popolazione bantu che tradizionalmente era dedita all’agricoltura e nello stato postcoloniale ha spesso fornito manodopera salariata a basso costo. Una piccolissima minoranza (1%) è composta dai Twa, abili cacciatori e raccoglitori pigmoidi: sono scarsamente integrati nella società e vengono spesso considerati come paria.
Lingue ufficiali del Ruanda sono il kinyarwanda, una lingua bantu parlata da tutta la popolazione, il francese, la lingua dell’ex dominatore belga, utilizzata nell’istruzione superiore, e l’inglese, impiegato per gli affari e i commerci. Il kiswahili (o swahili), la lingua veicolare dell’intera Africa Orientale, è parlata in molte zone del paese. La stragrande maggioranza della popolazione è cristiana (56,5% cattolici e 37% protestanti), anche se non sono poche le contaminazioni sincretiche con riti e credenze tradizionali.
Il rispetto dei diritti umani rimane fortemente a rischio in un sistema politico formalmente multipartitico, ma di fatto lontano da una vera dialettica democratica. Per esempio alcuni membri dei partiti antagonisti al Rpf, il Parti social démocrate e il Parti libéral, sono stati nominati ministri. Corruzione delle forze dell’ordine, condizioni insostenibili negli istituti di pena ed evidenti limiti alla libertà di stampa e di espressione costituiscono il quadro di riferimento per un regime sostanzialmente autoritario, che non si è fatto scrupolo di colpire gli oppositori, addirittura utilizzando la legislazione che bandisce le ‘divisioni etniche’. Il controllo del governo è molto stringente sui diversi gruppi o associazioni che tentano di contrastare apertamente la sua autorità.
Nonostante le donne siano quotidianamente svantaggiate rispetto agli uomini nell’accesso all’istruzione, alla salute e alle principali risorse sociali ed economiche, il Ruanda ha mantenuto per due legislature consecutive il primato di paese con la più alta percentuale di presenza femminile in Parlamento. La rappresentanza di genere pressoché paritaria è stata favorita dalla rottura di schemi sociali arcaici provocata dalla guerra civile, dagli investimenti fatti nel settore dell’istruzione e dal dettato costituzionale, secondo il quale almeno il 30% dei deputati devono essere donne.
L’economia ruandese ha registrato una considerevole crescita negli ultimi anni. Trainato dai buoni risultati registrati nel settore agricolo (tè, caffè e altri prodotti agricoli destinati alla vendita), il tasso di crescita del pil ha raggiunto, nel 2013, il 7,5%. Accanto alle grandi imprese a monocoltura, sono molte le piccole o piccolissime aziende agricole a conduzione familiare che praticano un’agricoltura di sussistenza. Il settore dei servizi (in particolare telecomunicazioni e turismo) offre grandi potenzialità di crescita, soprattutto da quando è stato lanciato il programma per diffondere Internet wireless in tutto il paese. La mancanza di manodopera specializzata, però, resta un limite importante allo sviluppo. Il Ruanda è uno dei paesi africani che hanno maggiormente agito per riformare la propria economia, anche se i cambiamenti non hanno raggiunto risultati significativi nella riduzione della povertà e della disoccupazione. A maggio 2013, il governo ha approvato il secondo piano strategico di sviluppo economico e riduzione della povertà (Edprs 2), attraverso il quale mira a raggiungere un tasso annuo medio di crescita dell’11,5% nel quinquennio 2013-18. La sua capacità di attuarlo sarà però limitata dalla carenza di entrate, soprattutto a seguito della riduzione degli aiuti esteri, che ha provocato un significativo deterioramento della situazione di bilancio.
Le privatizzazioni di grandi imprese fornitrici di servizi e di grandi aziende agricole, assieme alla riforma dell’amministrazione pubblica, hanno ridotto la corruzione: secondo i dati elaborati da Transparency International, nel 2012 il Ruanda era al 50° posto su 176 paesi, segnando un netto miglioramento rispetto agli anni precedenti. L’inflazione si è notevolmente ridotta, scendendo dal 22% nel 2008 al 4,7% nel 2013, grazie a un’accorta politica monetaria e alla crescita del prezzo dei prodotti agricoli ed estrattivi sui mercati mondiali. Tra i principali capitoli di spesa si collocano l’istruzione e l’amministrazione pubblica, ma anche la spesa militare.
Nonostante il ruolo trainante dell’agricoltura per lo sviluppo del paese, almeno il 28% della popolazione ruandese non raggiunge il livello minimo di sicurezza alimentare. L’economia informale è molto estesa, contribuendo al 48% del pil (nel 2008), con conseguenze negative dirette sulla capacità del sistema di tassazione.
Kenya e Uganda, oltre che alleati politici, sono anche tra i maggiori partner commerciali.
Dopo il ritiro ufficiale dall’esercito ruandese dal Congo nel 2002, il governo ha inaugurato un ambizioso piano di riordino dell’esercito che ha portato alla smobilitazione di migliaia di soldati e alla formazione di un esercito d’élite di circa 32.000 effettivi, ben addestrato ed equipaggiato. Dopo aver ospitato nelle fasi più cruente della guerra civile la missione Unamir, che ha coinvolto una dozzina di paesi e oltre 200 organizzazioni non governative, il Ruanda ha partecipato con un proprio contingente alle missioni di pace delle Nazioni Unite in Sudan, Sud Sudan e Congo.
La guerra civile in Ruanda aveva contagiato rapidamente i paesi vicini. Le milizie hutu utilizzarono come basi contro il governo tutsi i campi profughi nello Zaire orientale (oggi Repubblica Democratica del Congo, RDC). Nell’ottobre 1996 le truppe ruandesi entrarono in Zaire, scatenando la cosiddetta Prima guerra del Congo. L’esercito ruandese appoggiò l’opposizione di Laurent- Désiré Kabila contro il governo di Mobutu Sese Seko nel tentativo di distruggere le basi hutu in Congo. Al contempo tentò di accaparrarsi lo sfruttamento delle importanti risorse naturali delle province orientali del paese. Proprio il tentativo di Ruanda e Uganda di estendere la loro influenza sul nuovo governo congolese portò alla rottura tra Kabila e i suoi alleati e innescò un’ulteriore fase del conflitto, che coinvolse Angola, Zimbabwe e Namibia a sostegno del governo congolese. Dopo gli accordi di pace siglati nel 2003 a Sun City (Repubblica sudafricana), le truppe ruandesi e ugandesi si ritirarono dal paese tra il 2002 e il 2003. Ma il Ruanda ha continuato ad appoggiare l’attività militare del Congrès national pour la défense du peuple (CNDP), che si oppone al governo di Joseph Kabila, figlio di Laurent-Désiré. L’esercito ruandese ha inoltre continuato a operare incursioni oltreconfine contro le Forces démocratiques de libération du Rwanda (DFLR), il principale movimento hutu che si oppone a Paul Kagame. Dall’aprile 2012 una nuova milizia di militari congolesi, di origine tutsi, finanziati da Ruanda e Uganda, ha deciso di disertare e di riprendere la lotta armata. La milizia, nota come M23, è stata guidata fino a poco tempo fa dal generale Bosco Ntaganda, un militare congolese di lunga carriera, colpito da un ordine di cattura internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Ntaganda è stato poi sostituito da Sultani Makenga. Il nome M23 fa riferimento alla data del 23 marzo 2009, quando l’allora gruppo ribelle CNDP siglò un accordo con Kinshasa, sotto la supervisione di Kigali, per l’integrazione dei ribelli nell’esercito congolese in cambio della fine delle ostilità lungo il confine tra RDC e Ruanda. Le tensioni sono state nuovamente fomentate dalla pubblicazione di un rapporto della MONUC (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo), che ha rivelato il coinvolgimento di Ruanda e Uganda nel sostegno alle forze ribelli. Kigali, accusata di finanziare economicamente e militarmente la milizia ribelle, ha respinto al mittente tutte le insinuazioni sostenendo, invece, che Kinshasa protegge i reduci degli Interawne, le milizie estremiste di origini hutu responsabili del genocidio ruandese del 1994. Nel frattempo, dopo aver assunto il controllo di Goma, capoluogo della provincia congolese del Nord Kivu, i ribelli di M23 avevano dichiarato la loro intenzione di marciare verso la capitale Kinshasa. Nel tentativo di contenere la crisi politico-militare, la diplomazia regionale si è subito mossa, convocando un vertice dei rappresentanti della regione dei Grandi Laghi. Il summit, tenutosi a Kampala il 24 novembre 2012, ha visto la partecipazione dei presidenti di Kenya, Uganda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo, mentre ha rinunciato a parteciparvi il capo di stato ruandese Paul Kagame. Durante il vertice di Kampala è stato lanciato un appello alla responsabilità e un invito al governo di Kinshasa ad ascoltare le ‘legittime rivendicazioni’ dei ribelli. Mentre a Kampala si negoziava, in Congo si combatteva e l’esito del conflitto, che ha visto le forze armate congolesi affiancate da un’irrobustita missione MONUSCO (ex MONUC), ha portato al ritiro del M23 da Goma e alla sua sconfitta nel novembre 2013.