RIDOLFI, Ruberto
RIDOLFI, Ruberto (Roberto). – Nacque a Firenze, nella parrocchia di S. Jacopo sopr’Arno, il 18 novembre 1531 da Pagnozzo di Giovanfrancesco, del ramo dei Ridolfi di Piazza, e da Maddalena di Alessandro Gondi (Firenze, Opera di S. Maria del Fiore, reg. 9, c. 331).
Il fratello maggiore era Giovanfrancesco (1526-1597) e fra le sue sorelle vi era Isabella, che sposò nel 1539 il banchiere Benvenuto Olivieri, ex socio di Filippo Strozzi. Il cardinale Niccolò Ridolfi, un lontano parente, si interessò all’educazione di Ruberto. Una lettera di Giovanfrancesco al cugino Ludovico Ridolfi, del settembre 1546, indica che il cardinale intendeva mandare Ridolfi a studiare all’Università di Padova e che gli suggeriva anche di visitare Bagnaia dove trascorreva la sua villeggiatura. Aggiunge che «Messer Benvenuto vedrà di darli un Maestro che lo solleciti et tiri inanzi perché non perda tempo et se harà voglia questo li metterà meglio […] che essere Mercante» (Londra, Royal Holloway Library, Tuke Collection, A.39). Non abbiamo alcuna prova che Ridolfi abbia iniziato i suoi studi, e un anno dopo sembra essere al lavoro con il cognato, Benvenuto Olivieri, nell’omonima banca romana (Giovanfrancesco Ridolfi a Ludovico Ridolfi, Roma, 4 luglio 1547, ibid., A.38).
Mentre era a Roma durante il conclave in cui fu eletto Pio IV, Ridolfi era conscio dell’importanza di mantenere contatti presso la corte medicea. Scrisse al duca Cosimo nell’estate del 1560 a proposito dell’appalto delle miniere di Siena. Ma già nel 1562 si era trasferito a Londra. Questa data si deduce da un memoriale in cui egli afferma che nel 1570 aveva vissuto ben nove anni in quel Regno. Ridolfi si unì a una comunità italiana che doveva contare diverse centinaia di membri. Così come altri, Ridolfi esportava lane e importava sete, oltre a essere un attivo finanziere. Approfittò dei suoi contatti per procurare cavalli e cani da caccia. Francesco de’ Medici gli scrisse il 15 maggio 1565 chiedendo chinee da presentare alla sua futura sposa Giovanna d’Austria. Nella sua replica del 10 agosto, Ridolfi confermò che aveva una licenza per esportarne sei in Toscana, anche se un mese dopo affermò che ne aveva in effetti spedite quattordici, insieme a «cani bracci et levrieri» (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 517, cc. 289r-290r). Ridolfi suggerì che un dono del duca alla regina Elisabetta di «qualche bello e buon’ cavallo del regno di Napoli, ovvero, un paio delli sua leoni» sarebbe stato molto apprezzato.
Stabilì anche contatti con la comunità diplomatica londinese, in particolare con gli ambasciatori spagnoli. Nel 1568 affittò una casa da Battista Cavalcanti nel quartiere di Bridge Ward, dove viveva con altri due mercanti stranieri e cinque servitori. Il censo registra la sua appartenenza alla fede cattolica anche se non andava in chiesa, come gli italiani di fede protestante, ma frequentava la messa in casa dell’ambasciatore spagnolo.
Per i primi nove anni del regno di Elisabetta, le misure di controllo della popolazione cattolica, sia i recusants che praticavano la loro fede in segreto sia quelli più audaci, erano perlopiù limitate alle sanzioni previste dall’atto di Uniformità del 1559. Ma l’arrivo della regina di Scozia Maria Stuart in Inghilterra (maggio 1568) e la ribellione del Nord (novembre-dicembre 1569) modificò l’atteggiamento del governo. In più, portò al rapido sviluppo delle operazioni spionistiche di Elisabetta da processo rudimentale a macchina efficiente e sistematica, capeggiata dal segretario William Cecil – in seguito Lord Burghley – e da Sir Francis Walsingham, che si unì a lui nel dicembre del 1568.
Nell’estate del 1569 si manifestò la prima seria crisi del regno di Elisabetta. Essa fu causata dal progetto di far sposare Maria a Thomas Howard, duca di Norfolk e cugino di Elisabetta, e di rimetterla sul trono scozzese. In un’epoca in cui le divisioni religiose erano di vitale importanza, Norfolk era ben noto per le sue simpatie cattoliche anche se rimase protestante per tutta la vita. Inoltre, era anche il principale rivale di Cecil alla corte di Elisabetta.
In quanto finanziere di un certo livello, Ridolfi aveva contatti con molti nobili della corte e inoltre descriveva se stesso come «nuntio segreto» di Pio V, forse sin dal 1566. Il nuovo ambasciatore spagnolo, don Guerau de Spes, giunse a Londra nel settembre del 1568 e la sua mancanza di esperienza provocò subito uno scontro con Cecil ed Elisabetta sulla delicata questione delle navi spagnole con il loro prezioso carico di monete destinato al duca d’Alba. La cattura delle navi causò un embargo commerciale e spinse l’Inghilterra sull’orlo di una guerra con la Spagna. Nel gennaio del 1569 de Spes fu messo agli arresti domiciliari a causa di ripetute indiscrezioni diplomatiche. Alba inviò Gian Luigi (Chiappino) Vitelli, marchese di Cetona, a negoziare con la regina, e nel frattempo Ridolfi fu scelto dai lord cattolici inglesi come intermediario tra loro e lo stesso ambasciatore, una situazione che portò all’intensificazione del complotto e alla consegna da parte di Ridolfi di un cifrario sicuro.
In una lettera del giugno 1569 scritta dall’ambasciatore francese presso la corte inglese, Bertrand de Salignac de La Mothe Fénélon, a Maria Stuart si notava che Ridolfi era «très propre et de très bonne et honneste qualité pour bien conduyre cest affaire» (Correspondance..., 1838-1840, II, p. 53). L’affare in questione era il matrimonio segreto di Maria e l’incombente guerra commerciale cui Ridolfi suggeriva alla Francia di unirsi. L’ambasciatore aggiunse che Cecil si fidava molto di lui. Cecil non poteva sapere che Ridolfi aveva ricevuto 12.000 corone da Pio V per distribuirle fra i sostenitori cattolici, né che a fine settembre aveva passato 2916 sterline da de Spes al consigliere principale di Maria, John Leslie, il vescovo di Ross.
Quando Cecil ed Elisabetta ebbero conferma dei piani matrimoniali, la fuga di Norfolk gettò ancora più dubbi sulla sua lealtà e Maria fu rapidamente trasferita al sicuro e i porti furono chiusi. Howard fu imprigionato nella Torre di Londra, mentre Ridolfi e gli altri furono arrestati per tradimento il 7 ottobre. Ridolfi fu interrogato in italiano da sir Francis Walsingham su venticinque capi d’accusa ma, nonostante i sospetti di Elisabetta che alcune delle sue risposte fossero lontanissime dalla verità, non si trovò alcuna prova contro di lui e fu rilasciato su cauzione di mille sterline, anche se rimase agli arresti domiciliari. Ridolfi scrisse da Londra a suo fratello Giovanfrancesco, il 26 novembre 1569, proclamando la sua innocenza (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 544A, cc. 679-680).
La stessa Elisabetta affermò che era sempre ben disposta verso gli italiani e pronta a rilasciarlo e a fidarsi della sua promessa che si sarebbe solo occupato di commercio (Cecil a Walsingham, 11 novembre 1569). Non sappiamo esattamente cosa avvenne durante l’interrogatorio di Ridolfi in casa di Walsingham, ma è possibile che egli accettasse di agire come doppio agente per conto degli inglesi. Ciò si potrebbe dedurre da un’altra lettera a Cecil del 22 ottobre, in cui Walsingham suggerisce che, avendo avuto l’opportunità di conoscerlo meglio, Ridolfi sarebbe stato idoneo per un tale impiego.
Il 25 febbraio 1570, un paio di mesi dopo l’esito disastroso della ribellione del Nord, Pio V scomunicò la regina Elisabetta con la bolla Regnans in excelsis. Nel suo successivo memoriale Ridolfi dichiarò di avere ricevuto ottanta copie stampate e manoscritte (certamente un’esagerazione) della bolla e di aver personalmente supervisionato la loro affissione a Londra. Una copia fu in effetti appesa alla porta del vescovo di Londra il 25 maggio, ma da John Felton, martirizzato nell’agosto del 1570, e non da Ridolfi. All’epoca, egli riferì l’incidente al papa in una lettera da Londra. Il 1° luglio Ridolfi esortava il papa a ordinare che la bolla fosse pubblicata nelle Fiandre, in Francia, Spagna e Portogallo, e in più a sospendere il commercio con gli inglesi, visto che la sopravvivenza del reame inglese dipendeva esclusivamente dal commercio aperto.
Nell’agosto del 1570 Thomas Howard fu liberato dalla Torre di Londra. Secondo alcune testimonianze successive, Ridolfi fece visita al duca di Norfolk a Londra una settimana dopo il rilascio e lo sollecitò a chiedere il sostegno militare del duca d’Alba. Norfolk inizialmente rifiutò, ma in pochi mesi egli cambiò atteggiamento. Questa è la versione passata alla storia come il complotto Ridolfi, ma che allora venne semplicemente chiamata, in spagnolo, «la empressa de Inglaterra». Ridolfi dovette offrire un quadro persuasivo del supporto internazionale per il piano: in una lettera del 16 aprile 1570 John Marsh, una delle spie facenti parte della rete di Cecil, aveva già informato il segretario inglese che «diversi Italiani ad Anversa gli [i lord cattolici] hanno accreditato 160 mila corone, di cui ho mezza idea, sebbene non la certezza, che Ridolfi abbia fornito la maggior parte» (Relations politiques, 1886-1888, V, pp. 627 s.). Norfolk diede a Ridolfi una lista di nobili da contattare. Questo era un atto di tradimento. William Barker, servitore del vescovo di Ross, affermò in seguito che Ridolfi frequentava, e soprattutto si fidava, di Arundel, Lumley, Montague e Wriothesley, conte di Southampton (Calendar of the manuscripts of the Most Hon. the Marquis of Salisbury, 1883, p. 528).
Scrivendo di nuovo al papa il 1° settembre, Ridolfi prospettò l’idea che il duca d’Alba avrebbe potuto invadere l’Inghilterra dall’Olanda e, con l’aiuto di una nuova ribellione cattolica capeggiata da Norfolk, la religione cattolica sarebbe stata restaurata, Elisabetta uccisa, forse da Vitelli, e Maria messa sul trono.
Il 25 marzo 1571 partì dall’Inghilterra, con le istruzioni di Elisabetta per discutere la fine della guerra commerciale e con le lettere di Norfolk e Maria per assicurare il sostegno al complotto. Qualche anno più tardi, Giovan Battista Adriani (1583, XXII, p. 9) descrisse come Ridolfi «ripassò in Fiandra al Duca d’Alba per inanimirlo all’impresa; ma egli non punto mosso dal suo proponimento di allungare il negozio, intraponeva or’una et or’altra scusa». Alcuni giorni dopo un pacchetto di lettere di Ridolfi indirizzate al vescovo di Ross venne intercettato a Dover, forse grazie a un’altra spia, William Sutton. Il messaggero Charles Bailly fu imprigionato a Marshalsea. Da questo momento tutta la corrispondenza venne letta da Cecil e Walsingham usando un elaborato sistema di intercettazione organizzato all’interno della prigione. Anche il vescovo Leslie fu arrestato a metà maggio e sotto la minaccia della tortura scaricò tutte le colpe su Maria e Norfolk. Maria invece negò di avere alcuna conoscenza di Ridolfi e del complotto, ma l’ampiezza dell’intrigo distrusse ogni residuo di fiducia che Elisabetta poteva avere in lei.
Alla fine di aprile, Ridolfi raggiunse Roma, dove, esaltato dalla firma della Lega santa contro il Turco, Pio diede il suo sostegno al complotto e spinse Filippo II di Spagna a provvedere ai mezzi necessari. È difficile spiegare come la congiura sia continuata, data l’assenza di una realistica pianificazione e soprattutto la mancanza di segretezza. Durante l’estate i dettagli erano noti a tutte le maggiori potenze, ma Filippo nondimeno approvò questa strategia disperatamente irrealistica per rovesciare il regime Tudor. Il duca d’Alba cercò di contrastare la visione di Filippo. Il 27 agosto si lamentò del fatto che il re facesse affidamento su persone come Ridolfi.
Norfolk fu arrestato all’inizio di settembre del 1571; l’anno successivo fu processato per alto tradimento e giustiziato il 2 giugno 1572. Il nunzio papale in Francia, Fabio Mirto, scrisse a Michele Bonelli, cardinale Alessandrino e legato in Portogallo, il 5 dicembre 1571: «Dio perdoni Ridolfi e il vescovo di Ross che non hanno seguito il mio consiglio di non fare l’impresa» (Calendar of State Papers, 1920, n. 856).
Ridolfi sopravvisse, ma il suo sostenitore Pio V morì poco più tardi. In un memoriale a papa Gregorio XIII (Roth, 1930, pp. 127-132), Ridolfi calcolò le sue perdite finanziarie in 14.300 scudi, ma nessun compenso gli fu concesso.
L’ultima fase della vicenda avvenne nel 1603, quando il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici si preparava a inviare un ambasciatore per congratulare Giacomo VI al momento della sua salita al trono inglese. Di nuovo Ridolfi scrisse un memorandum al granduca descrivendo le sue perdite. Tuttavia, Cecil consigliò all’ambasciatore toscano, il conte Alfonso Montecuccoli, di non sollevare la questione, poiché il re non voleva parlare di sua madre Maria. È significativo che Ferdinando riconobbe il contributo di Ridolfi in una sezione cancellata della sua lettera a Montecuccoli del 19 dicembre 1603 in cui si legge: «veramente il Ridolfi meriti molto nel servitio di questa Regina madre del presente Re» (Crinò, 1957, p. 77).
Dopo essere stato l’ambasciatore toscano a Roma negli anni 1575-76 sotto Francesco I, Ridolfi giocò un ruolo chiave nell’ottenimento del riconoscimento del titolo granducale. Egli raggiunse Giulio Del Caccia e Antonio Serguidi a Madrid e negoziò un consistente prestito e in seguito un sussidio a Filippo nel 1575 mediato dai Fugger. Il consenso spagnolo al titolo arrivò in un diploma del 26 gennaio 1576. Seguirono altri incarichi: commissario d’Arezzo nel 1580, governatore di Pisa nel 1588-89 e, brevemente, anche governatore di Pistoia. Dal 1578 Ridolfi agì come senatore fiorentino mentre suo fratello, il senatore Giovanfrancesco, era a Roma; nel 1600 la posizione fu resa permanente.
Dal suo matrimonio con Lucrezia di Giovanbattista Rustici nel 1574 nacquero quattro figli, dei quali solo tre sopravvissero: Giovanbattista (1578-1641), Elena e Donato (1581-1653). Ridolfi ereditò la proprietà congiunta con suo fratello maggiore della «casa grande dirimpetto alle campane di San Felice» (Crinò, 1957, pp. 77 s.).
Morì a Firenze il 18 febbraio 1612 e fu sepolto in S. Felice in Piazza.
La sua versione degli eventi del 1569-70 fu integrata nella Vita del gloriosissimo papa Pio Quinto di Girolamo Catena.
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