RUDINÌ, Antonio Starrabba, marchese di
Uomo di stato, nato a Palermo il 16 aprile 1839, morto a Roma il 7 agosto 1908. La sua famiglia, di antica nobiltà provinciale, era originaria di Piazza Armerina. Compiuti gli studî di legge all'università di Palermo, appartenne poi a quel gruppo di nobili siciliani avversi al dominio borbonico nell'isola, i quali nel 1859, dopo che il Piemonte s'affermò nella vita politica italiana, s'adoperarono in segreto a sollevar l'isola in nome della monarchia sabauda, e parteciparono a quel tentativo rivoluzionario del 4 aprile 1860, che fu soffocato nel sangue. Costretto all'esilio, s'imbarcò su una nave francese per Genova, dove apprese le mirabili gesta della spedizione dei Mille. Proclamato il regno d'Italia, il R. fu per qualche tempo addetto al ministero degli Affari esteri a Torino, quindi recatosi a Palermo (1864), vi fu nominato sindaco, rimanendo in quella carica per molti anni, e a lui, alla sua attività ed energia, si dovette se la città ebbe una rapida trasformazione, adattata alle esigenze dei grandi centri della penisola.
La Sicilia era in quel tempo agitata da forti passioni, alle quali avevano contribuito varie cause, ad es. l'introduzione della coscrizione militare, l'imposizione e la troppo rigida esazione di nuove imposte, l'incameramento dei beni delle soppresse corporazioni ecclesiastiche; e il malcontento era alimentato e sfruttato dal partito reazionario e da chi invocava l'autonomia dell'isola. Conseguenza di questo malessere fu il moto rivoluzionario scoppiato a Palermo il 16 settembre 1866, che il governo non previde in tempo; e quando bande armate percorsero la città, il R., noncurante del pericolo a cui si esponeva, con poche guardie nazionali e con un piccolo nucleo di granatieri scese coraggiosamente in strada per tentare di fronteggiare la ribellione. Costretto a ritirarsi nel municipio, mentre il suo palazzo avito era devastato, respinse sdegnosamente la proposta di scendere a patti con i rivoltosi; e dopo sei giorni di lotta sanguinosa, quando furono giunti a Palermo rinforzi di truppa, il moto rivoluzionario fu potuto domare e sanguinosamente reprimere. Per l'energico contegno, da lui dimostrato in questa occasione, il R. si meritò il plauso del governo, ed ebbe la nomina a prefetto della città.
Nel 1868 fu chiamato a reggere la prefettura di Napoli, e diede prova di possedere tali qualità di amministratore, che, dimessosi Luigi Ferraris da ministro dell'Interno, L. F. Menabrea, presidente del consiglio, lo scelse a sostituirlo (22 ottobre 1869), sebbene non fosse deputato e avesse varcato da poco i trent'anni. Fu subito eletto o per il collegio di Canicattì; e rimasto poco più d'un mese ministro poiché il Menabrea si dimise il 14 dicembre 1869, si schierò alla camera nel partito della pura destra, al quale rimase fedele, con pochi altri colleghi, quando il Depretis iniziò il trasformismo. Giunto il Crispi al potere (7 agosto 1887) fra l'aspettativa generale del paese, il R. rinunziò all'opposizione sistematica, da lui assunta dopo la caduta della destra (18 marzo 1876), ma non appoggiò incondizionatamente il ministero, definendosi "un solitario della politica", e anzi col suo grande conterraneo ebbe alla camera un duello parlamentare rimasto celebre, poiché il Crispi, trascinato dalla foga della sua passione politica, rimproverò al R. la sua azione durante il moto palermitano del settembre 1866. Caduto il Crispi dal potere, il R. ne assunse l'eredita (6 febbraio 1891), e recò sorpresa che con uomini di destra, da L. Luzzatti a P. Villari, egli avesse unito G. Nicotera, affidandogli il ministero dell'Interno, e accolto l'appoggio dei radicali, specialmente di F. Cavallotti.
Il suo ministero che fu detto "della lesina", perché ebbe per compito di restaurare le dissestate finanze dello stato, durò fino al 15 maggio 1892; fu chiamato a ricostituirlo il 10 marzo 1896, dopo la definitiva caduta del Crispi. Il R., dimostratosi sempre avversario della politica di espansione in Africa, non recedette da questo suo atteggiamento quando tornò al potere, e la sua fu una politica di rinunzia, caratterizzata dalla cessione di Cassala all'Inghilterra. Dovette dimettersi il 1° giugno 1898 per i fatti del maggio precedente, durante i quali il governo non dimostrò l'energia necessaria a soffocare in tempo un moto rivoluzionario; e da allora in poi s'appartò dalla vita politica.