ruere
Latinismo (cfr. Ep VI 15 e 19, Eg I 22), che ricorre due volte, in rima.
Nella similitudine di Pd XXX 82 (Non è fantin che sì sùbito rua / col volto verso il latte...) L. Venturi notò " la veemenza del desiderio e l'umiltà del Poeta che si paragona all'infante, il quale affamato slanciasi verso il latte " (Le similitudini dantesche, Firenze 1889, 189): rua va quindi inteso come " si volga con impeto ", " si slanci ".
Anche nella frase (If XX 33) che i Tebani assediati gridavan tutti, in coro, ad Anfiarao inghiottito insieme col suo carro dalla voragine (Dove rui, / Anfïarao? perché lasci la guerra?), rui - che " ha un arcano potenziamento fonico nella finale risonanza di ‛ Anfiarao ' " (Grabher) - sembra dare miglior senso quando - anziché come " precipiti ", secondo l'interpretazione vulgata (cfr. Theb. VIII 84-85 " At tibi... qui... praeceps / per inane ruis? ": parole di Plutone ad Anfiarao) - lo s'intenda semplicemente, senza l'idea del cadere che subito dopo è espressa dal v. 35 (E non restò di ruinare a valle...), come " corri impetuosamente ", " ti avventi " (Pézard: " Où te vas-tu ruant? ").
Ne risulta accentuato lo scherno sarcastico della domanda, quasi i Tebani volessero dire: " Come! non ti slanci più contro di noi? preferisci correre altrove? ". D. probabilmente si ricordò anche di Aen. X 811, dove Enea ammonisce l'imprudente Lauso: " Quo moriture ruis maioraque viribus audes? ". Stazio, che è qui la fonte principale di D., accenna appena all'irrisione dei Tebani (VIII 225-226 " nunc funera rident / auguris ignari "); D. v'insiste " nell'intento di dare aspro e beffardo rilievo al contrasto tra la vana scienza dell'augure e la sua misera fine " (Sapegno).