RUFFINI, Iacopo, Giovanni e Agostino
– Nacquero a Genova rispettivamente il 22 giugno 1805, il 22 settembre 1807 e il 17 febbraio 1812 da Bernardo e da Eleonora Curlo, figlia del marchese Ottavio.
Dalla loro unione nacquero anche, tra il 1799 e il 1815, altri otto figli. Originari di Finalmarina, i Ruffini si erano stabiliti a Genova tra il 1792 e il 1793 nei pressi di casa Curlo. Bernardo, laureatosi in legge nel 1786, dopo un’iniziale adesione alle idee dibattute nei circoli repubblicani cittadini, era approdato a posizioni unitarie e aveva privilegiato, rispetto all’attivismo politico, il consolidamento di carriera e reputazione nella natia Finale e a Genova. Conosciuta e poi sposata la diciottenne Eleonora Curlo, di dodici anni più giovane, si impegnò nel salvataggio di ciò che restava del patrimonio del suocero – costituto dalle case, dai poderi e dai terreni del marchesato di Taggia – che l’anziano Ottavio aveva dilapidato, venendo interdetto nel 1775. L’erosione dei beni materni e la non sufficiente agiatezza raggiunta dal padre – che pure divenne magistrato e ottenne la carica di vicepresidente del tribunale di prima istanza ‒ avrebbero condizionato, con accenti e ricadute diverse, la vita dei fratelli Ruffini.
Nell’atmosfera di un’infanzia serena grazie ai frequenti soggiorni a Taggia presso lo zio Carlo, canonico, dovette insinuarsi il senso di frustrazione del padre il quale, collocato in pensione nel 1815, si acconciò ad accettare la giudicatura del Molo, un impiego ‘minore’ nella Genova appena annessa al Piemonte, seguito nel 1822 dalla nomina a viceprefetto e nel 1831 a prefetto, incarico tuttavia mai esercitato. Ragazzi intelligenti, ma insubordinati, in soggezione del padre e al contempo da lui svincolati, i figli integrarono gli studi al Collegio Reale con l’erudizione impartita dallo zio Giacomo in una casa troppo affollata di fratelli e di parenti. Si plasmò in quegli anni la fortissima complicità con la figura materna: indebolito o stroncato il suo potenziale di autorevolezza da una disavventura coniugale occorsale da giovane sposa, Eleonora compì soprattutto su Iacopo, Giovanni e Agostino un investimento emotivo che poteva forse ‘indennizzarla’ rispetto alla vita coniugale e rendere esclusivo il rapporto con i tre fratelli che, a loro volta, generazionalmente contigui, si scoprirono più affini tra loro rispetto al primogenito e agli ultimi nati. Microcosmo affettivo nella grande famiglia, quello formato dalla madre con i tre figli avrebbe dunque agito da moltiplicatore delle emozioni e delle passioni già nutrite della sensibilità romantica del tempo, esasperandole.
Nel 1823 iniziò l’amicizia e la frequentazione con Maria Drago Mazzini e il figlio Giuseppe, nato lo stesso giorno di Iacopo: questi, abbandonata nel 1819 la scuola dei padri somaschi, si era impiegato come notaio, mentre Giovanni restava in collegio e Agostino, undicenne, terminava gli studi a Taggia. Il 23 luglio di quell’anno il fratello maggiore Vincenzo, prossimo alla laurea in medicina, si suicidò gettandosi da una finestra di casa: il senso di morte e di tragedia annunciata entrava così in casa Ruffini colpendo soprattutto Iacopo, il quale si considerò l’erede spirituale del fratello orientandosi verso gli studi medici. La sospensione e la ripresa degli studi finirono per avvicinarlo ancor più a Giovanni – che nel frattempo, chiusa l’Università come sanzione per la partecipazione degli studenti al moto rivoluzionario del 1821, aveva iniziato i corsi di filosofia a casa dei docenti e si sarebbe laureato nel 1828 in giurisprudenza ‒ e ad Agostino, con i quali condivideva gli stati d’animo e gli interessi per il fumo, la poesia, il melodramma tipici della formazione e della sociabilità dei ‘nati con il secolo’.
Tuttavia, appena laureatosi (22 giugno 1829), Iacopo si trovò a dover assistere la madre, provata dall’allontanamento e dalla morte del figlio Carlo, cui seguì, nel novembre 1832, la perdita del gracile Fortunato, appena sedicenne, malato di tisi. Furono quelli gli anni in cui casa Ruffini, già cenacolo di appassionate discussioni letterarie («L’amicizia ch’io strinsi coi giovani Ruffini – ed era per essi e per la santa madre un amore – mi riconciliò con la vita», così Giuseppe Mazzini, Note autobiografiche, in Id., Scritti editi e inediti, LXXVII, Imola 1938, p. 8), si trasformò con naturalezza nel laboratorio per un possibile progetto politico: viaggi misteriosi, giuramenti e discussioni scandirono il comune impegno clandestino nella carboneria genovese. L’arresto di Mazzini il 13 novembre 1830 fece provare ai Ruffini un senso di autentico smarrimento, superato solo nella seconda metà del 1831 con la ripresa dell’attività cospirativa per costruire la rete della nuova associazione concepita da Mazzini, la Giovine Italia, la cui congrega genovese funse da modello per altre repliche sul territorio, secondo una strategia innovativa, perché orizzontale, di reclutamento e di proselitismo: «da studente a studente, da giovine a giovine, l’affratellamento si diffuse più assai rapidamente che non era da sperarsi» (ibid., p. 81), irraggiandosi nella riviera di Ponente e negli Stati sardi. Quella febbrile e misteriosa attività si svolgeva in casa Ruffini in pieno divario generazionale con il padre ultrasessantenne, ostile all’attivismo dei figli non per fedeltà verso il governo, «ma per quella sfiducia che i carbonari ebbero per i giovani» (Giovanni Ruffini e i suoi tempi, 1931, p. 63).
L’ondata repressiva che nella primavera del 1833 colpì la rete dei militanti in Piemonte e in Liguria, qualche mese più tardi in Lombardia e nell’Italia centrale, fece registrare l’arresto di Iacopo, la notte del 14 maggio 1833, quello di Agostino, pochi giorni dopo, e quello di Ottavio, il fratello maggiore (il quale, scambiato forse per Giovanni, resse la parte per diciassette giorni consentendo al fratello di mettersi in salvo in Francia): fu quella una profonda cesura nella vita del terzetto e della famiglia, capace di avviare ‘a caldo’ un processo di iconizzazione dei fratelli, soprattutto di Iacopo: il quale, dopo le fucilazioni di alcuni compagni, temendo di non reggere psicologicamente agli interrogatori, nella notte tra il 18 e il 19 giugno si tolse la vita tagliandosi una vena del collo con un chiodo strappato alla porta della cella nella torre di palazzo ducale. Due giorni dopo, procurati dal padre i passaporti, Agostino e la madre salparono per raggiungere Giovanni a Marsiglia, dove allo sbarco trovarono ad accoglierli Mazzini con la compagna Giuditta Sidoli.
Iniziò così la dimensione dell’esilio, destinata a farsi vita vera prolungata per anni, documentata dalle frequenti lettere alla madre (quelle della madre ai figli furono con ogni probabilità distrutte), un corpus sul quale tra fine Ottocento e inizio Novecento si sarebbe concentrata l’attenzione dei primi studiosi, Carlo Cagnacci e Arturo Codignola, e si sarebbe costruito il paradigma dei «martiri borghesi» (Faldella, 1895-1897, V).
Tra Francia, Svizzera e Inghilterra, nel lessico familiare criptato che indicava nella cugina Emilia Giuseppe Mazzini, Giovanni e Agostino declinarono ognuno a modo proprio, per condividerli con Eleonora, il senso di fatalità che finiva per sovrastare la famiglia e le oscillazioni emotive, le ansie, le angustie della vita da esuli, trascorsa inizialmente con lo stesso Mazzini e con la cerchia intima di amici, come il ligure Giuseppe Elia Benza. Se la madre fu in quella fase la depositaria unica delle confessioni sul sentire politico e sulla vita affettiva dei figli, il padre, giudicato duramente soprattutto da Agostino, in pratica ne sostenne come poté i costi dell’esilio e le martellanti richieste di soccorsi, ipotecando e alienando quei beni salvati con tanta fatica dal dissesto del suocero. Sarebbe stato Mazzini a far rivalutare ai figli la figura paterna, prima che la morte cogliesse Bernardo, già per certi versi un troppo a lungo sopravvissuto, il 4 aprile 1840. Il 3 maggio 1839 la morte del fratello maggiore Ottavio, sprofondato nell’elitismo e forse caduto dalle scale, aveva accentuato in Agostino il senso di angosciosa sopraffazione: «I tuoi figli debbono dunque morir tutti? E tutti d’una morte terribile?» (Giuseppe Mazzini e i fratelli Ruffini, 1893, 2011, p. 219), aveva scritto alla madre.
Il periodo a Ginevra nel 1834, dove Mazzini stava preparando la spedizione in Savoia, cui Giovanni prese parte ma che si risolse in un fallimento, fu ancora caratterizzato dalla sintonia dei fratelli con Mazzini, in quell’atmosfera da ‘innamoramento politico’ che Paul Harro Harring avrebbe di lì a poco descritto nelle sue Mémoires sur la Jeune Italie. Ma già dal 1833 singoli comportamenti di Mazzini avevano recato alla suscettibilità dei due Ruffini ferite taciute e malsanate che, nel tempo, avrebbero favorito, come un humus sotterraneo, l’affiorare e il crescere di una vera e propria incomprensione, quando non insofferenza e irritazione, a tratti gelosia, nei suoi confronti: «È una natura d’artista [...] difficile da sbrogliare. Io non vorrei avere né il suo cuore né il suo animo» (Giovanni alla madre, 16 giugno 1836, in Codignola, 1925-1931, II, p. 177). Quei sentimenti andarono intensificandosi dopo il passaggio dalla non più ospitale Svizzera all’Inghilterra, nel gennaio 1837, e vennero puntualmente evidenziati nelle lettere alla madre da Londra che rivelano un clima fatto di tensioni per motivi ideologici ma anche materiali, tipico delle difficoltà in cui si dibattevano gli esuli risorgimentali.
Il progressivo distacco di Giovanni e Agostino ‒ realizzatosi tra il 1840 e il 1841, quando il secondo partì per Edimburgo e il primo pose fine alla coabitazione con Mazzini ‒ può essere considerato paradigmatico del processo di disconoscimento e disamoramento che la generazione dei primi mazziniani sperimentò nei confronti del leader, del suo messaggio e dei suoi metodi di lotta: che tra i più aspri critici vi fossero proprio gli amici della prim’ora non deve stupire, come non deve stupire che Mazzini, colpito dolorosamente dall’evoluzione di un rapporto fraterno fortemente empatico, stigmatizzasse con la Sidoli e la madre un ripiegamento e un indebolimento della «potenza d’amare» (Arisi Rota, 2010, p. 208) dei due fratelli che in realtà esprimevano un umano disallineamento emotivo rispetto alla continua ed estenuante tensione richiesta dalla lotta clandestina e dall’intransigenza del leader.
All’inizio degli anni Quaranta l’insofferenza nella cerchia dell’esilio londinese ‒ inasprita dalle ristrettezze economiche che spinsero i fratelli e l’amico esule modenese Angelo Usiglio, aiutati dalla madre e da Maria Mazzini, a cimentarsi un po’ ingenuamente con il commercio di alimenti e manufatti italiani ‒ portò Agostino a tentare la fortuna nell’insegnamento privato a Edimburgo e Giovanni a trasferirsi a Parigi: qui, sostenuto dal poco danaro inviatogli dalla madre e da qualche lavoro di traduzione, nel circuito dei fuorusciti e dei cantanti lirici italiani, il 29 settembre 1842 ricevette da Michele Accursi la richiesta di Gaetano Donizetti di rifare il libretto di Ser Marcantonio, testo di Angelo Anelli per un’opera di Stefano Pavesi andata in scena alla Scala nel 1810. Ne derivò il libretto del Don Pasquale, a cui Giovanni lavorò dai primi di ottobre al 7 novembre, ricavandone un compenso di 500 lire. Nel frattempo, Donizetti vi aveva apportato tali e tante modifiche che Ruffini non volle firmare il lavoro, che uscì difatti siglato ‘M. A.’ fungendo Accursi da prestanome, e andò in scena con grande successo il 3 gennaio 1843 al Théâtre Italien.
La corrispondenza documenta quelli parigini come anni di ripiegamento emotivo e di quasi cinico fatalismo, nell’ossessione di cattivi raccolti di olive a Taggia – unica entrata significativa sulla quale Eleonora poteva contare per sostenere i figli esuli, soprattutto il non parsimonioso Giovanni. Questi, divenuto intimo di Celeste Menotti, fratello di Ciro – anch’egli protagonista di tentativi imprenditoriali, nel campo del sapone e delle stoffe impermeabili, stroncati dalla concorrenza ‒ confessava una precoce vecchiezza mista all’insofferenza con cui, assieme ad Agostino, che mai si sarebbe ristabilito in Italia (lettere del 7 e 14 aprile 1845), si dissociò dalle suppliche della madre per ottenere loro una mitigazione delle condanne.
Già dal 1837 nella vita di Giovanni, grazie alla comune amicizia con il padrone di casa ed esule lomellino del 1833, Giulio Robecchi, era entrata una presenza femminile destinata a marcarne fortemente l’esistenza: Cornelia Turner, di quasi tredici anni più anziana, separata dal marito medico a Livorno e appartenente a una famiglia, i Chastel de Boinville, emigrata in Inghilterra allo scoppio della Rivoluzione francese. Alla morte di Robecchi, Giovanni andò ad abitare con la Turner e la madre di lei a Montmartre, costruendo un rapporto di amore pacato e rassicurante che lo allontanò ulteriormente dalla prospettiva di un rientro in Italia («Ormai son giunto a quell’età in cui si rinunzia agli amori o gli amori rinunziano a noi», scriveva ad Agostino nel novembre 1847, rifiutando un impiego a Brighton; Giovanni Ruffini e i suoi tempi, 1931, p. 377) e gli fece scegliere Parigi come dimora ideale. Qui nell’ottobre 1847 presentò Cornelia a Mazzini, giunto in segreto nella capitale francese, e qui assistette con una sorta di ostentato disincanto alla costruzione delle barricate nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 1848: «Io mi sento vecchio, rimasto addietro» (ibid., p. 379), confessava al fratello a riprova di quanto l’accelerazione di vita sperimentata in gioventù lo avesse lasciato prosciugato e scettico, desideroso di ripiegarsi negli affetti domestici.
L’inattesa elezione sua e di Agostino a deputati al Parlamento subalpino fu un brusco risveglio che lo colse in piena crisi d’identità: non più repubblicano, ma neanche albertista, rientrò in Italia alla fine di maggio del 1848. Durante gli spartani mesi torinesi, tentato di passare tra i ranghi ministeriali ma consigliato da Cornelia a restare, coerente, all’opposizione, Giovanni ebbe per solo amico Francesco Arese, mentre Agostino, sofferente per i primi sintomi della paralisi che lo avrebbe minato, si dimise e tornò a Genova. Qui ritrovò Enrica Jenkin, già conosciuta a Edimburgo nel 1846, malata di tisi, con la quale instaurò un rapporto affettivo tormentato di cui restano poche tracce (le lettere furono probabilmente distrutte), ma che durò fino al 1853, e in cui si insinuò un sentimento per Giovanni e una conseguente gelosia per Cornelia. Nell’orizzonte di Giovanni dovette a quel punto entrare la possibilità di ricevere un incarico diplomatico, cui evidentemente ambiva e che il governo presieduto da Vincenzo Gioberti gli aveva già proposto il 22 dicembre 1848 in forma di una missione a Genova presso il commissario straordinario Domenico Buffa, incarico da lui rifiutato. Di lì a poco si profilò invece la destinazione come inviato straordinario e plenipotenziario piemontese a Londra, mutata, per intercessione di Cornelia presso Gioberti, in missione diplomatica a Parigi.
Istruzioni per la delicata missione: lavorare affinché la Francia sostenesse i diritti italiani nell’imminente conferenza di Bruxelles ossia «l’indipendenza compiuta della Penisola e l’unione delle Province Lombardo-Venete e dei Ducati col Piemonte. Conciliare l’interesse dell’Austria, il cui dominio nella penisola è precario e apparente» (Giuseppe Mazzini e i fratelli Ruffini, 1893, 2011, p. 364), fare infine leva sull’interesse per la causa italiana presso il nuovo presidente della Repubblica Luigi Bonaparte.
Ruffini si mise al lavoro in un contesto pressoché proibitivo, tra difficoltà esterne («le simpatie delle Potenze si riducono a sterili espressioni di compatimento», scriveva il 19 gennaio 1849; ibid., p. 240) e interne dovute agli uomini avversi al sistema costituzionale che, nella legazione, remavano contro un homo novus, difficilmente assimilabile («Io ero un galeotto, oggi sono un repubblicano, un mazzinista, che fa due parti in commedia»; ibid., p. 251). Convintosi nella delicata congiuntura che la ripresa della guerra fosse per il Piemonte inevitabile, e che la Francia non si sarebbe mossa in suo aiuto, colpito da disturbi di origine nervosa, presentò le dimissioni il 23 marzo 1849, lo stesso giorno della battaglia di Novara: il suo posto, dopo l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, sarebbe stato affidato a Gioberti.
Nella nuova amara stagione di esilio degli anni Cinquanta, mentre Agostino combatteva la sua malattia, Giovanni, sempre afflitto da ristrettezze economiche, iniziò a scrivere, forse incoraggiato da Cornelia: nel gennaio 1852 uscì sul Chambers un racconto sul lotto ispirato alla passione per il gioco di una vecchia domestica di casa Ruffini, mentre prendevano corpo i capitoli di un romanzo biografico, dato in lettura ad Agostino, che ne pronosticò il successo: acquistato dall’editore Constable di Edimburgo per 2500 franchi, Lorenzo Benoni (1853) condensava la storia della formazione politico-sentimentale dei giovani Ruffini e del loro ambiente familiare in un registro che piacque molto ai recensori e al pubblico inglese, ma anche francese, grazie al network di ammiratrici attivato da Cornelia per favorire la circolazione del romanzo, che vendette 5000 copie in soli otto mesi e che Mazzini confessò di aver divorato in una sola notte. Messosi al lavoro su richiesta dell’editore per scrivere un seguito, Giovanni si bloccò quando Agostino morì, il 3 gennaio1855, a Taggia. Qui, tuttavia, nella casa di famiglia che divenne villa Eleonora, portò a termine Il Dottor Antonio, stampato in novembre, accolto ancora con entusiasmo dai lettori, tra cui William Ewart Gladstone e Charles Dickens, ma non dai recensori inglesi, e che non coprì le spese di stampa. La seconda metà degli anni Cinquanta, così cruciale per la politica europea e le sue ripercussioni sulla questione italiana, fu segnata dalla morte della madre a Taggia, l’11 novembre 1856, e dai soggiorni con Cornelia in riviera dedicati alla stesura di altre opere come il caricaturale Paragreens e i romanzi Lavinia e Vincenzo ‒ dramma politico di una famiglia piemontese divisa tra conservatori reazionari e liberali ‒, meno fortunati dei primi due romanzi, che avevano beneficiato dell’empatia del pubblico inglese per la causa italiana. La morte di Cornelia Turner a Parigi (25 ottobre 1874) e quella di Enrica Jenkin poco dopo privarono Giovanni delle figure femminili che, oltre alla madre, avevano segnato la sua esistenza. Rientrato ombra di sé stesso in Italia nel 1875, si stabilì definitivamente a Taggia, dove si spense il 3 novembre 1881.
Opere. Di Giovanni Ruffini: Don Pasquale. Dramma buffo in tre atti posto in musica da G. Donizetti (prima rappresentazione: Parigi, 3 gennaio 1843); Lorenzo Benoni or Passages in the life of an Italian, Edinburgh-London 1853; Doctor Antonio. A tale, Edinburgh-London 1855; The Paragreens on a visit to the Paris universal exhibition, Edinburgh-London 1856; Lavinia, London 1860; Vincenzo, or Sunken Rocks. A novel, Liepzig 1863; Sanremo rivisitato, versione dall’inglese per cura di alcuni amici dell’autore, Sanremo 1865; A quiet nook in the Jura, Edinburgh 1867. Di Agostino Ruffini: Modifiche e aggiunte al libretto del Marino Faliero di G.E. Bidèra, posto in musica da G. Donizetti (prima rappresentazione: Parigi, 12 marzo 1835); le traduzioni di F.L.Z. Werner, Saggio sulla letteratura europea degli ultimi cinquant’anni. Letteratura alemanna, Bruxelle 1838; Il ventiquattro febbraio. Tragedia, Milano 1844.
Fonti e Bibl.: Genova, Istituto mazziniano-Museo del Risorgimento, Carte Ruffini, cc. 28, 29, 30-34, 66; Carte Universitarie, cc. 66, 71-73, 76; Dono Lazzari, c. 45 (copialettere); Pisa, Scuola normale superiore, Fondo Arturo Codignola; Roma, Museo centrale del Risorgimento, varie lettere di e a Giovanni in vari fondi tra cui Carte Susanna Hoerner e Carte Ersilio Michel; lettere di Agostino; lettere di Eleonora Ruffini; fotografie; Archivio storico diplomatico del Ministero degli Affari esteri, Carte della Legazione Sarda a Parigi, 1849 (inventario: Le legazioni sarde a Parigi, Berna, L’Aia, Lisbona e Madrid, a cura di F. Bacino, Roma 1951, p. 32). Si vedano inoltre: [P. Harro Harring], Mémoires sur la Jeune Italie et sur les derniers événements de Savoie par un témoin oculaire, Paris 1834; A. Linaker, G. R., Torino 1882; Giuseppe Mazzini e i fratelli Ruffini. Lettere raccolte e annotate dal prof. Carlo Cagnacci, Porto Maurizio 1893, nuova ed. Arma di Taggia 2011; G. Faldella, I fratelli Ruffini. Storia della Giovine Italia, I-VII, Torino 1895-97; Incunaboli della Giovine Italia. Lettere di A. R. a Federico Rosazza, a cura di G. Faldella, Torino 1896; Nella solenne inaugurazione del monumento ai fratelli Ruffini e a Domenico Ferrari, Taggia, 12 aprile1896, Sanremo 1896; M. Pertusio, La vita e gli scritti di G. R., Genova 1908; A. Lazzari, La fuga di G. R. nel 1833. Con documenti inediti, in Nuova Antologia, 16 luglio 1909, pp. 236-252; Id., Una biografia inedita di I. R., scritta dal fratello Ottavio, in Rivista d’Italia, XII (1909), 2, pp. 471-483; G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Epistolario, I-LVIII, Imola 1909-1941, ad ind.; G. Salvemini, Ricerche e documenti sulla giovinezza di Giuseppe Mazzini e dei fratelli Ruffini, Pavia 1911; A. Lazzari, G. R., Gaetano Donizetti e il Don Pasquale, in Rassegna nazionale, 1 e 16 ottobre 1915; E. Ruffini, Lettere inedite a Giuseppe Elia Benza, pubblicate da A. Lazzari, Città di Castello 1916; A. Lazzari, La giovinezza di I. R., in Rassegna storica del Risorgimento, VII (1920), 4, pp. 629-656; M.R. Bornate, La giovinezza e l’esilio di A. R., ibid., IX (1922), 4, pp. 687-840; A. Codignola, Il padre dei Ruffini, ibid., IX (1922), 2, p. 165-214; Id., I fratelli Ruffini: lettere di G. e A. R. alla madre dall’esilio francese e svizzero (1833-1835), I-II, Genova 1925-1931; G. R. e i suoi tempi. Studi e ricerche, Genova 1931; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il ‘partito d’azione’ 1830-1845, Milano 1974, ad ind.; A.C. Christensen, G. R. and ‘Doctor Antonio’. Italian and English contributions to the myth of the exile, in Browning Institute Studies, 1984, vol. 12, pp. 133-154; E. Morelli, L’esilio di Mazzini e dei fratelli Ruffini, Roma 1990; A.C. Christensen, A European version of victorian fiction. The novels of G. R., Amsterdam-Atlanta, 1996; F. Della Peruta, I fratelli Ruffini e Mazzini: un sodalizio e la sua fine, in Id., Politica e società nell’Ottocento italiano. Problemi, vicende e personaggi, Milano 1999, pp. 201-221; A. Arisi Rota, Il processo alla Giovine Italia in Lombardia (1833-1835), Milano 2003, ad ind.; M. D’Amelia, La mamma, Bologna 2005, ad ind.; G. Fiaschini - F. Icardi - L. Piccardo, Mazzini e i primi mazziniani della Liguria, Savona 2006; A. Arisi Rota, I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani, Bologna 2010, ad ind.; F. D’Amico, Forma divina. Saggi sull’opera lirica e il balletto, a cura di L. Bianconi - N. Badolato, Firenze 2012, pp. 148-153; R. Jolly, The English patient and the Italian Risorgimento. Medical tourism and the body politic in G. R.’s Doctor Antonio, in Journal of victorian culture, XVIII (2013), 3, pp. 387-405; T. Pagano, G. R.’s Doctor Antonio and the healing power of the Italian landscape, in Forum Italicum, XLVII (2013), 2, pp. 287-298; C. Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Roma-Bari 2015, ad ind.; Fraternité en action: frères de sang, frères d’armes, frères ennemis en Italie (1820-1924), a cura di C. Brice, Rome 2017, ad indicem.