RUGGERO di Andria
RUGGERO di Andria. – Conte di Andria, maestro connestabile, maestro giustiziere del Regno di Sicilia, figlio di Riccardo, esponente della famiglia normanna de Ollia, originaria di Oully-le-Tesson, nel Calvados, e di Sebasta (nota solo grazie a un atto di donazione, risalente al 1136, emanato a favore dei benedettini dell’abbazia di Montevergine); se ne ignorano data e luogo di nascita.
La prima menzione di Ruggero è fornita dallo pseudo Falcando che lo ricorda tra i baroni del Regno membri della corte palermitana nel 1155, quando – essendo re Guglielmo I gravemente ammalato – il governo del Regno fu delegato al grande ammiraglio Maione di Bari. Non si conosce però il suo ruolo nella rivolta baronale capeggiata da Roberto III di Loritello nel 1156 contro il sovrano, risoltasi con la sconfitta dei congiurati e l’arresto di alcuni di essi. Molto probabilmente Ruggero dovette aderire alla fazione ribelle e, come Simone di Sangro, riuscì a fuggire. Di lui, infatti, si perdono le tracce almeno fino al 1166 quando risulta tra gli otto conti creati dalla regina Margherita nella generale pacificazione voluta dalla sovrana dopo la morte di Guglielmo I. Rogerius filius Riccardi ottenne la Contea di Albe, presso L’Aquila, e insieme continuò a conservare la titolarità dei feudi paterni avellinesi.
Nel 1168 fu incaricato – dai dieci nobili che avevano procurato l’allontanamento di Stefano di Perche da Palermo – di rendere esecutiva la decisione di espellere dal Regno il conte Gilberto di Gravina, cugino della regina Margherita. L’allontanamento del conte Gilberto creò le condizioni per l’assegnazione a Ruggero dell’importante Contea pugliese di Andria, fino ad allora retta dal figlio del conte di Gravina, Berteraymus. Iniziò da quel momento la prestigiosa carriera politica di Ruggero che gli fece ottenere, per oltre un ventennio, incarichi di grande responsabilità e una posizione di netta preminenza nel seno della corte regia.
Nel 1176 fu investito della carica di maestro connestabile e maestro giustiziere di Apulia e Terra di Lavoro, funzioni che conservò almeno fino al 1189, come risulta da una serie di atti emanati in quegli anni. Con Tancredi di Lecce fu a capo dell’esercito regio che contrastò il tentativo dell’armata imperiale di bloccare gli aiuti di Guglielmo II alla Lega lombarda; mentre nel 1177, insieme a Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno, fu incaricato di recarsi a Venezia per curare i termini della trattativa di pace tra il re di Sicilia e l’imperatore Federico I. Accolto a corte con grande onore dopo la missione diplomatica, Ruggero attese invano l’arrivo degli ambasciatori imperiali. Si trattenne a Palermo fino agli inizi del 1178 per poi fare ritorno nei suoi feudi pugliesi.
Per il decennio successivo, sino alla morte di re Guglielmo II, sono scarse le notizie relative alla sua attività. Nel 1189, una lettera di papa Alessandro III ai due maestri connestabili e maestri giustizieri regi, Ruggero di Andria e Tancredi di Lecce, attesta la loro posizione di diretti interlocutori del pontefice e della Curia romana, pur essendo ancora in vita il sovrano.
Dopo la morte senza eredi diretti di Guglielmo II, Ruggero fu coinvolto nei contrasti per la successione al trono. Il matrimonio tra Enrico VI e Costanza d’Altavilla autorizzava la rivendicazione del trono di Sicilia da parte dell’imperatore. Nonostante – ancora in vita Guglielmo II – a Troia i maggiori vassalli (tra i quali Ruggero di Andria) avessero prestato giuramento di fedeltà alla figlia di Ruggero II, gli ambienti della feudalità regnicola, consapevoli che la electio regis spettava ai magnati del Regno, sostennero in prevalenza una soluzione che privilegiasse una successione per linea maschile, soprattutto allo scopo di scongiurare il pericolo della sottomissione diretta del Regno al potere imperiale. La corte si spaccò nel sostegno a due diverse candidature: quella di Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero (III) d’Altavilla duca di Puglia (e quindi nipote di Ruggero II), sostenuta dalla fazione che faceva capo al vicecancelliere Matteo di Aiello; e quella del conte d’Andria, appoggiata, invece, dal partito dell’arcivescovo di Palermo, Gualtiero Offamil. Prevalse la promotio regia di Tancredi, soprattutto in ragione del suo legame di consanguineità con la dinastia regnante, nonostante i sostenitori del conte di Andria avessero tentato di dimostrare natali altrettanto nobili per il loro candidato.
Il contrasto tra le due fazioni si acuì al punto da trasformarsi in scontro armato. Ruggero di Andria e il partito che ne aveva sostenuto la candidatura regia, come già accaduto in passato per altre ribellioni della feudalità, invocarono l’intervento dell’imperatore di Germania. L’intenzione era quella di opporre al proprio avversario un esercito potente e non certo quella di sostenere la rivendicazione imperiale della corona di Sicilia. Tancredi diede allora incarico a suo cognato, Riccardo conte di Acerra, di reprimere la rivolta e questi si assicurò, prima di scendere in campo, l’aiuto militare del pontefice e del Comune romano. La rapida avanzata lungo l’Adriatico sino in Puglia dell’esercito imperiale di Enrico di Kalden e l’altrettanto rapido, e non spiegato, rientro in Germania (maggio-settembre 1190) indebolirono le schiere dei ribelli e Ruggero di Andria, dopo aver lasciato suo figlio Roberto a presidiare il castello di Sant’Agata dei Goti (presso Benevento), decise di rinserrarsi con le sue truppe nel castello di Ascoli Satriano. Secondo la testimonianza di Riccardo da San Germano, il conte di Acerra concentrò tutte le sue forze nell’espugnazione di Ascoli e, non riuscendo a prendere la città, ingannò Ruggero con la richiesta di un colloquio, quindi lo imprigionò e lo fece uccidere (fine del 1190).
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