RUGGERO I (Ruggero d'Altavilla), conte di Sicilia e Calabria
RUGGERO I (Ruggero d’Altavilla), conte di Sicilia e Calabria. – Nacque in Normandia intorno al 1030 da Tancredi e dalla sua seconda moglie, Fresenda, ultimo di molti figli maschi generati dai due matrimoni.
Solitamente indicato con il titolo di gran conte, in realtà si tratta di un appellativo attestato solo nella documentazione posteriore (Houben, 1997; trad. it. 1999, p. 32).
Intorno al 1055 si trasferì in cerca di affermazione in Italia meridionale, dove già operavano con successo i fratellastri nati dal primo matrimonio del padre e, soprattutto, il fratello maggiore Roberto il Guiscardo, figlio come lui di Tancredi e Fresenda. Costui era da poco succeduto al fratellastro Umfredo a capo della Contea di Puglia e Calabria, che in breve avrebbe assunto il titolo ducale cui sarebbe stato associato l’invito papale a conquistare la Sicilia musulmana.
Ruggero aiutò il Guiscardo a reprimere una ribellione in Calabria e a consolidare il controllo dell’estrema propaggine della penisola, aspettandosi significative ricompense, tra cui forse l’autorizzazione a costituirsi un proprio dominio indipendente. Tali aspettative frustrate generarono profondi attriti con il fratello che tuttavia – consapevole della precarietà del consenso delle popolazioni sottomesse che già tentavano di approfittare dei dissidi – concesse a Ruggero la metà meridionale della Calabria. La rinnovata pur se instabile concordia consentì la completa sottomissione dell’area, culminata nel giugno del 1059 nella conquista di Reggio, dove Roberto fu acclamato duca dalle truppe. Diventava così realistica una spedizione per sottomettere la Sicilia, anche alla luce del concordato di Melfi con il quale, nell’agosto del 1059, Niccolò II confermava il titolo ducale del Guiscardo estendendolo eventualmente alla Sicilia. Non è possibile appurare se l’iniziativa di conquistare l’isola fosse una deliberazione di entrambi i fratelli, come è più probabile, o di uno solo dei due, come alternativamente vorrebbero le principali fonti latine sull’evento.
Dopo uno sbarco esplorativo nei pressi di Messina, risoltosi in una razzia di cavalli, armi e beni, per i due Altavilla si aprì una più consistente opportunità, quando l’emiro Ibn at-Thumnah, che governava l’area sudorientale della Sicilia fino a Catania, sconfitto sotto le mura di Castrogiovanni (l’attuale Enna) e minacciato dall’emiro della Sicilia centro-meridionale, Ibn al-Hawwas, chiese il loro aiuto, recandosi prima a Mileto, per trattare con Ruggero, e poi a Reggio, dove era giunto anche Roberto.
Dopo una prima spedizione nel febbraio del 1061, a maggio Ruggero – alla guida di un ridotto contingente imbarcato su una flottiglia guidata da Goffredo Ridel – approdò a sud di Messina, si impadronì con relativa facilità della città, e avanzò fino a Milazzo e Rometta, posta in posizione strategica sui Peloritani, i cui abitanti si arresero senza combattere. La penetrazione lungo le vie che dai Peloritani portavano ai Nebrodi fu piuttosto agevole, forse anche perché i nuovi arrivati erano percepiti dalle popolazioni indigene come liberatori – almeno così vorrebbero le fonti latine – e consentì nel giro di due anni la sottomissione dell’intero Valdemone (corrispondente all’attuale provincia di Messina), con l’eccezione di Taormina.
L’avanzata fu facilitata dalla minore islamizzazione dell’area, popolata da un consistente (e probabilmente maggioritario) numero di abitanti di religione cristiana – sebbene di rito italo-greco e quindi ritenuti poco affidabili dal punto di vista dei normanni –, nonché dall’azione concertata con l’esercito di Ibn at-Tumnah, almeno fino a quando questi non morì, ucciso forse in un agguato nel 1062. La vittoria campale di Cerami nell’estate del 1063, evento raro in una campagna militare fondata sulle scorrerie e il logoramento del nemico, sancì comunque il definitivo controllo normanno sul Valdemone.
Non ebbe invece successo la penetrazione verso la Sicilia centrale e meridionale: Castrogiovanni, vera fortezza naturale sita al centro della Sicilia a un’altezza di 935 metri, era pressoché imprendibile, mentre a Girgenti fu effettuata solo una scorreria dimostrativa. Anche il tentativo di dilagare nella fertile Piana di Catania fallì per la resistenza di Centuripe, centro fortificato d’altura e chiave del controllo della pianura.
Un paio d’anni più tardi, nel 1063, Ruggero fissò la propria residenza principale a Troina (in provincia di Enna), alla congiunzione tra Nebrodi e Peloritani, da dove si controllavano facilmente le vie di accesso verso il resto dell’isola, centro prevalentemente abitato da cristiani di rito italo-greco che, però, dopo una prima festosa accoglienza culminata nella celebrazione del Natale del 1061, si ribellarono ai ‘liberatori’, subendo una spietata repressione.
Ruggero era validamente supportato dalla giovane moglie, Giuditta di Evreux, di prestigiosa famiglia normanna, sposata a Mileto nel 1061 coronando un amore che risaliva alla prima giovinezza. Tale matrimonio non solo consentiva a Ruggero di rafforzare i legami con la fascia più alta della feudalità normanna, ma univa allo spregiudicato conquistatore una donna altrettanto forte, da cui sarebbero nate varie figlie tra cui Matilde, Adelisa, Emma e forse uno o due maschi (ma il maggiore, Giordano, secondo alcuni storici fu frutto di una relazione extraconiugale; e l’altro, Goffredo, potrebbe esser nato dal secondo matrimonio).
Frattanto i contrasti tra gli Altavilla avevano trovato una definitiva composizione dopo attriti anche forti (nel 1061 il Guiscardo aveva assediato Ruggero a Mileto, dove si era temporaneamente ritirato, finendo per essere poi da lui catturato a Gerace); i due deliberarono di suddividersi in separate aree di dominio città e castelli da conquistare.
Consolidata la posizione in Valdemone, nel 1064 Ruggero e Roberto tentarono vanamente di assoggettare Palermo, la principale città dell’isola, ricca e tra le più densamente popolate del Mediterraneo. Solo nel 1068 tuttavia conseguirono un’importante vittoria a Misilmeri, a pochi chilometri dal centro palermitano, garantendosi un controllo più stretto delle vie di comunicazione alla città. Furono però costretti a sospendere le operazioni siciliane per tornare nel Mezzogiorno continentale, dove si rendeva necessario assoggettare definitivamente la Puglia: Bari fu assediata per tre anni e capitolò nel 1071. Da quel momento Ruggero e Roberto si sarebbero potuti dedicare con maggiore sistematicità alla conquista della Sicilia.
Nello stesso anno fu infatti conquistata Catania, forse grazie a un tradimento (fu poi perduta e presa definitivamente dopo dieci anni); nel 1072 fu la volta di Palermo che capitolò a condizioni miti, dopo cinque mesi d’assedio e di blocco navale. Pagando un tributo, gli abitanti di religione musulmana, ovvero quasi tutti i palermitani, ottennero di continuare a professare la loro religione e godere di autonomia amministrativa, sotto il controllo di un governatore normanno che assunse il titolo di amiratus (mutuato dall’arabo amir, ‘emiro’, da cui ammiraglio). Dando seguito ai loro precedenti accordi, Ruggero e Roberto si divisero la città.
In una chiesetta malridotta e periferica, inoltre, trovarono un arcivescovo, «timoroso e di rito greco» (Goffredo Malaterra, De rebus, a cura di E. Pontieri, 1927-1928, p. 53) sottolineano le fonti latine, di nome Nicodemo, probabilmente un arcivescovo autocefalo di Sicilia, legato per quanto possibile a Bisanzio. Nonostante la sua appartenenza al clero scismatico, i fratelli insediarono Nicodemo nella nuova cattedrale che avevano deliberato di costruire al posto della principale moschea cittadina. Ruggero dovette attendere il 1083 per nominare un vescovo latino, di nome Alcherio, riportando la cattedra palermitana nell’alveo della gerarchia cattolica.
Sempre nel 1072, anno dal quale Ruggero cominciò a intitolarsi conte di Sicilia, venne conquistata Mazara, mentre Roberto tornò per sempre nel Mezzogiorno continentale dopo aver concordato la suddivisione dell’isola: a lui sarebbe toccata la costa settentrionale da Palermo a metà di Messina e il Valdemone; a Ruggero l’altra metà di Messina, Mazara e Catania integralmente, nonché tutta la fascia territoriale intermedia. Le terre ancora da conquistare sarebbero spettate a due giovani capi dell’esercito normanno tra i principali artefici della vittoria di Cerami (1063) che aveva aperto la strada alla penetrazione normanna in Sicilia: Serlone, figlio di un fratellastro di Ruggero e Arisgoto di Pucheuil. Ma Serlone morì in combattimento e di Arisgoto, dopo alcune valorose attestazioni belliche, non restano altre tracce. Furono contingenze particolarmente fortunate per Ruggero che, a differenza del fratello costretto a logorarsi in Puglia in una continua mediazione con i guerrieri normanni che lo sostenevano, rimase da solo a capo di un esercito consistente (pur se estremamente composito, in cui i normanni erano relativamente pochi, affiancati da uomini provenienti da altre regioni transalpine, da italiani del Nord e del Centro, ma anche da saraceni).
Ruggero iniziò quindi a costruirsi una compatta area di dominio nell’isola, anche se come vassallo del fratello maggiore. Costretto ad abbandonare ripetutamente la Sicilia per fornire aiuto a Roberto nella repressione delle sedizioni feudali e ben consapevole dell’esiguità del numero dei suoi uomini rispetto alla massa delle popolazioni sottomesse, tanto musulmane quanto cristiane di rito italo-greco, pur non rinunciando – se necessario – a ricorrere alla violenza più efferata, adottò una tattica paziente, quasi sempre concedendo alle città assediate miti condizioni di resa.
Queste scelte hanno determinato un’enfatizzazione, da parte della storiografia, della tolleranza di Ruggero, che comunque non mostrò mai intenti persecutori nei confronti dei musulmani. Ma se è vero che proprio l’esplicita menzione delle conversioni di qualche capo musulmano da parte dei cronisti della conquista normanna sembra denunciarne l’eccezionalità, è anche vero che la tattica ruggeriana, condotta sul piano della guerriglia partigiana e psicologica, sfruttava ogni occasione per diffondere la paura nel campo nemico.
Decisiva, comunque, per il mantenimento delle posizioni e ai fini di ulteriori conquiste, fu la costruzione (o il rafforzamento) di una rete castrale affidata ai cavalieri normanni negli snodi stradali strategici. Tra le fortificazioni vanno ricordate almeno quella di Paternò, alle falde dell’Etna, da cui si controllava tutta la piana di Catania, e quella di Calascibetta, che fronteggiava la rocca naturale di Castrogiovanni. Un castello fu innalzato anche a Mazara e consentì di resistere, nel 1075, a un attacco di forze musulmane nordafricane che seguiva di un anno il saccheggio di Nicotera, nei possedimenti calabresi di Ruggero, la cui popolazione era stata imprigionata e schiavizzata. Ruggero comprese così che per facilitare la conquista della Sicilia bisognava mantenere buoni rapporti con l’emirato ziride del Nordafrica, principale sostenitore della resistenza isolana.
Nel 1077 Ruggero, dotatosi ormai di una flotta, riprendeva con intensità le operazioni belliche, conquistando Trapani e, poco dopo, Castronovo. Nello stesso anno, morta Giuditta, sposò Eremburga di Mortain, dalla quale avrebbe avuto due maschi, uno dei quali di nome Malgerio, e diverse femmine.
Nel 1079 le spedizioni si svolsero soprattutto a est, con la conquista di Taormina, il cui controllo era fondamentale per le comunicazioni terrestri tra Messina e Catania, e reiterati successi sui nemici, ormai asserragliati attorno a Castrogiovanni, Agrigento e Siracusa. Nel luglio del 1086 cadde Agrigento, in ottobre Siracusa; nel 1087, infine, capitolò Castrogiovanni, non militarmente ma grazie alla conversione del signore locale, Qasim Ibn Hammud (il Chamut delle fonti latine, forse discendente diretto di Alì, il quarto califfo, cugino e genero di Maometto) che lasciò la città sguarnita e, temendo rappresaglie degli ex correligionari, ottenne da Ruggero l’assegnazione di terre nei pressi di Melito, in Calabria, dove si trasferì con la famiglia. Restava da conquistare l’estrema propaggine sud-orientale dell’isola.
Nel 1087 Ruggero, che da tempo aveva concluso una proficua tregua con l’emiro ziride, rifiutò l’invito pisano e genovese di partecipare a un attacco congiunto contro la città marittima tunisina di Mahdia. Come narra un celebre aneddoto, Ruggero derise scurrilmente i compagni che avrebbero voluto convincerlo ad aderire all’impresa spiegando loro che tale partecipazione avrebbe portato solo svantaggi: in caso di successo perché il grano siciliano non sarebbe più stato venduto a prezzi di mercato agli africani, ma sarebbe servito per il sostentamento degli alleati; in caso di insuccesso perché gli alleati si sarebbero probabilmente stabiliti in Sicilia, creando dei problemi con la popolazione locale, e perché l’emiro non avrebbe tollerato la rottura della tregua. Aggiunse però che quando ne avesse avuto la forza si sarebbe dedicato alla conquista dell’Africa. Grazie a questa accorta politica, aliena dagli intenti crociati che una certa storiografia tende ad attribuirgli, Ruggero riuscì a raccogliere le forze necessarie per conquistare Butera nel 1088 e Noto nel 1091, completando l’assoggettamento di tutta la Sicilia. Nel 1090 sottometteva anche l’isola di Malta.
Durante i decenni della conquista, Ruggero aveva provveduto a distribuire ai suoi seguaci le terre sottomesse, pur limitando le confische ai musulmani (minime nelle città, che del resto si arresero quasi sempre patteggiando e dunque ottenendo miti condizioni, e più frequenti, ma mai eccessive, nelle campagne) per evitare di sconvolgere l’ordine sociale costituito, cercando di mantenere la continuità dei vincoli giuridici ed economici cui erano legate le popolazioni rurali. Non mancarono naturalmente significative aree di organizzazione feudale, soprattutto nella Sicilia orientale, dove le terre demaniali risultavano più frammentate; ma i castelli più importanti e le città maggiori, come Trapani, Palermo, Termini, Castrogiovanni e Girgenti, fatta eccezione per Siracusa e Catania, rimasero demaniali.
Più consistenti, invece, furono le concessioni in favore di enti ecclesiastici, finalizzate tanto a un razionale sfruttamento delle terre (comprese operazioni di ripopolamento), quanto a una non forzata conversione dei musulmani. Furono favoriti i numerosi piccoli monasteri greci, in crisi durante la dominazione araba, dai quali partirono alcune misurate opere di fondazione di piccoli casali, soprattutto nell’area peloritana, all’imbocco delle fiumare, dove Ruggero facilitò la migrazione di religiosi italo-greci calabresi. Consistenti furono poi le fondazioni abbaziali latine, da S. Bartolomeo sull’isola di Lipari a S. Salvatore a Patti, nella costa prospiciente le isole Eolie – rette in unione personale dal 1094 da un unico abate –, a Santa Maria monialium a Messina, al monastero benedettino di S. Agata a Catania nel 1091, che fungeva da Capitolo della cattedrale. La città e il suo territorio, infatti, erano state assegnate da Ruggero a un vescovo-feudatario, Angerio, un bretone già priore del convento di S. Eufemia in Calabria, coadiuvato nella fondazione di S. Agata da monaci normanni e da un amalfitano.
Ed è appunto alla ricostruzione della rete diocesana isolana che Ruggero si dedicò con il consolidarsi della conquista, inducendo Goffredo Malaterra, il cronista latino della sua epopea, a scrivere che solo da questo momento il conte aveva cominciato a mostrarsi devoto. Nel contesto di tale fervore rifondativo va posto l’incontro avvenuto nel 1088 a Troina tra papa Urbano II e Ruggero. Al di là della propaganda normanna, che rappresenta il pontefice animato dalla volontà di coinvolgere l’Altavilla nel tentativo di ricomposizione con la Chiesa d’Oriente, lo scopo del viaggio di Urbano II risiedeva nell’impellente necessità di inquadrare l’operato del conte nell’alveo delle direttive della Chiesa di Roma in materia di nomine episcopali, in un momento di confronto con l’impero germanico, subito dopo il durissimo scontro tra il predecessore Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV.
Urbano II scelse la moderazione, riconoscendo a Ruggero tutte le nomine e le scelte precedentemente compiute in materia episcopale, in particolare la fondazione del vescovado di Troina, che non aveva nessun fondamento nella tradizione ecclesiastica, per rimediare alla quale il pontefice dovette associarvi Messina. Qui aveva provveduto a trasferire, dal luglio del 1087, il vescovo Roberto, un italiano della cerchia dei consiglieri più stretti di Ruggero, da lui già posto a capo della nuova fondazione vescovile nel dicembre del 1080 e riconosciuto nel suo ruolo da Gregorio VII nel 1082, pur lamentando il mancato assenso preventivo di un legato apostolico.
Il viaggio di Urbano II in Sicilia risultava ancora più urgente se risponde al vero, come vorrebbe Malaterra, che Ruggero in soli due anni, tra il 1086 e il 1088, aveva nominato quattro vescovi, tutti in città con sbocco sul mare: Angerio a Catania, Ruggero a Siracusa, Gerlando ad Agrigento e Stefano a Mazara; tutti benedettini, tutti transalpini, tutti precedentemente impegnati in Calabria. Ruggero poneva così le premesse per le fondazioni delle rispettive sedi vescovili, realizzate nel giro di pochi anni: 1091 per Catania, 1090-92 per Siracusa, 1093 per Agrigento e Mazara. La nuova rete diocesana ricalcava nelle linee principali quella della Sicilia tardoantica, con l’eccezione di Mazara, che sostituiva Lylibeum (Marsala), e di Troina. Una vera e propria rete episcopale razionalmente meditata e strutturata per durare nel tempo, ben lontana dalle soluzioni transitorie prospettate dal pontefice nell’incontro di Troina. Infatti, quando nel 1098 Urbano II ritenne di poter riaffermare la sua potestà sulla Chiesa siciliana nominando legato pontificio Roberto, vescovo di Messina e Troina, scavalcando il volere di Ruggero per limitarne i poteri fino a quel momento esercitati in materia di politica religiosa, il conte di Sicilia fece arrestare Roberto, nonostante il reciproco rapporto di amicizia, ribadendo che il problema era ideologico e non pratico. Il pontefice, ancora impegnato nelle controversie con l’Impero, fu nuovamente costretto a un compromesso con una bolla pontificia emessa a Salerno, passata alla storia con il nome di Legazia apostolica, della quale non esiste la versione originale e sulla quale, anche per le implicazioni politiche a essa legate, il dibattito storiografico è stato intenso. Alla promessa di Ruggero di liberare il vescovo imprigionato e non compiere più altre violazioni dell’immunità giurisdizionale della Chiesa, il pontefice concedeva al conte non solo un sostanziale diritto di veto sulla nomina dei legati in Sicilia, ma anche la legittimità per lui e i successori di ingerirsi nelle attività ecclesiastiche, pur nella subordinazione alle direttive papali, in assenza di un legato, e di limitare ai prelati dei suoi domini la partecipazione ai concili.
Con quest’ultima concessione poteva dirsi conclusa l’ascesa dell’Altavilla, che alla fine dell’XI secolo era il personaggio più potente del Sud d’Italia, come dimostra il suo determinante intervento nella crisi successoria tra gli eredi di Roberto il Guiscardo. Sostenendo il nipote Ruggero Borsa contro il fratellastro Boemondo, Ruggero ottenne infatti la cessione dei diritti ereditati dal Guiscardo su parti di Calabria e Sicilia.
Il prestigio conseguito da Ruggero è attestato nel corso degli ultimi decenni della sua vita dallo sviluppo della politica matrimoniale interna. Tra il 1089 e il 1090 si sposò per la terza volta, morta Eremburga, con Adelasia degli Aleramici del Vasto, di prestigiosa famiglia comitale dell’Italia settentrionale. Queste nozze, dalle quali sarebbero nati due maschi, Simone, morto giovane e l’omonimo Ruggero, destinato a fondare il Regno di Sicilia, si inserivano nel contesto di un’operazione politica che comprendeva il matrimonio di Enrico del Vasto, fratello di Adelasia e nominato conte di Paternò e Butera da Ruggero, con una figlia di secondo letto del conte di Calabria e Sicilia, Flandina, e i matrimoni di altre due sorelle con altrettanti figli di Ruggero, Giordano e Goffredo, legando la nuova entità politica mediterranea a un contesto nobiliare potente e di consolidata tradizione.
Adelasia ottenne che i figli nati da precedenti matrimoni venissero estromessi dalla successione alla Contea. Al seguito di Enrico del Vasto si trasferirono in Sicilia molti abitanti delle terre degli Aleramici, piuttosto agguerriti e poco tolleranti con gli indigeni, che ripopolarono alcuni centri abitati situati in una fascia di territorio che facilitava il controllo dei musulmani. La concessione di Paternò e Butera al cognato si inseriva peraltro nel solco di una ben precisa strategia: concedere i feudi di maggior peso e dimensioni solo a parenti stretti, ponendo i presupposti per un controllo più sicuro della feudalità.
Ulteriori successi nell’accrescimento dello status di Ruggero vennero dalle nozze di due sue figlie con protagonisti politici: nel 1095 Maximilla sposò Corrado, re di Germania e d’Italia, il quale ebbe però una fine infausta dopo essersi ribellato al padre, l’imperatore Enrico IV; nel 1097 un’altra figlia, del cui nome non siamo certi, sposò il re d’Ungheria Colomanno. Altre figlie andarono spose ai massimi rappresentanti della feudalità regnicola, come la citata Flandina, nonché Giuditta, sposata con Roberto de Bassonville, conte di Conversano, Emma, che in seconde nozze sposò Rodolfo, conte di Montescaglioso, una Matilde, secondo Hubert Houben figlia di terzo letto da non confondere con altre due omonime nate dai precedenti matrimoni, che sposò Rainulfo, conte di Alife e Avellino.
Ruggero amministrò pragmaticamente i suoi domini, collocando nelle cariche di vertice in Calabria e Sicilia dei normanni, affiancati da ecclesiastici latini, ma coadiuvati nella gestione effettiva degli uffici quasi esclusivamente da burocrati greci, soprattutto in Calabria, dove preservò la maggior parte delle cariche e degli ufficiali precedenti la conquista normanna, provenienti da esperienze riconducibili a tradizioni bizantine. Si presentò ai suoi sudditi in maniera multiforme, a seconda della loro religione e della loro appartenenza etnica. A questo proposito, sono degni di rilievo i titoli di imam e di malik (re in arabo) impiegati nella monetazione della Contea. Addirittura, in alcuni atti in arabo arrivò a definirsi «Sultano».
Ruggero morì, per problemi cardiaci, il 22 giugno 1101 a Mileto, nel centro calabrese dal quale era iniziata la sua avventura siciliana e dove aveva fondato il monastero benedettino della Ss. Trinità nel quale intendeva essere sepolto. Adelasia ne adempì le ultime volontà facendolo seppellire in un sarcofago romano ricoperto con un baldacchino di porfido, la pietra degli imperatori romani.
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