RUGGIERI APUGLIESE
La figura del giullare senese R., autore di cinque componimenti noti, deve farsi parzialmente rientrare nell'ambito dei poeti 'siciliani' in ossequio alla norma, unanimemente condivisa e certo insostituibile, che regola la fissazione del canone degli autori appartenenti alla Scuola: "Oggi il termine di Siciliani vale a designare i rimatori, di qualsiasi regione italiana, che appartennero a quella corte [di Federico II e poi di Manfredi] o le gravitarono attorno, e la cui produzione occupa, genere per genere, il primo posto nella più estesa e organica silloge delle nostre origini, il canzoniere Vat.Lat. 3793 (V), il forse ancora duecentesco 'Libro de varie romanze volgare'" (Poeti del Duecento, 1960). Ora, R. compare nel quarto fascicolo di V (dopo il Contrasto di Cielo d'Alcamo e dopo Giacomino Pugliese, e prima di una nutrita serie di anonimi) con un solo componimento, la canzone Umile sono ed orgoglioso (cf. V, c. 18rv, con la rubrica Rugieri apulgliese). Si tratta di un caso palesemente anomalo che, per effetto appunto del rispetto dovuto alla norma surriportata, obbliga a isolare dalla produzione nota di un autore un unico testo, per giunta poco in linea con i componimenti della Scuola (se la collocazione nel quarto fascicolo di V ne evidenzia correttamente la tonalità per così dire 'popolareggiante' ponendolo in compagnia degli altri pezzi sicuramente 'siciliani' in qualche modo omogenei, già la struttura metrica e il colorito linguistico dichiarano la sua lontananza dalla poesia della Magna Curia: tanto è vero che lo stesso Contini, nei Poeti del Duecento, associa questo componimento agli altri di R. nella sezione "Poesia popolare e giullaresca", contravvenendo di fatto alla norma da lui stesso fissata e riannettendo senza residui la figura del poeta alla rimeria giullaresca).
La prima identificazione di questo rimatore (proposta da Torraca e sottoscritta da Zenatti) con Ruggiero di Morra, valletto e falconiere imperiale, fu il frutto dell'equivoco nato dall'erronea interpretazione del cognome, che lo fece ritenere meridionale; a questo primo equivoco se ne aggiunsero anche di più gravi, causati dall'erronea lettura del verso-firma della canzone (71 "Rugieri Apulgliesi conti"), da cui si volle trarre la conclusione che l'autore fosse conte o, peggio, interpretandolo come vocativo, che il pezzo andasse sottratto a Ruggieri. La prima ricostruzione parziale dell'identità dell'autore, con motivato accorpamento della produzione poetica fino a quel punto nota (la canzone del Vaticano e il cosiddetto "serventese del Maestro di tutte l'Arti", v. infra) si deve a Morpurgo; e a Zenatti il primo accenno, per quanto ancora molto approssimativo, all'origine senese. Preziosa soprattutto l'attenzione riportata al fatto "che in Siena era notaio di Biccherna nel 1229-1230 proprio un Appugliese!, il quale rogava in Siena fino al 1219 [...] e seguitò a esercitarvi il suo ufficio di notaio fino al 30 dicembre 1239": con ogni probabilità, il padre del rimatore. Il successivo ritrovamento degli altri pezzi attribuibili a R., tutti sintomaticamente gravitanti intorno all'area senese (la ricostruzione più chiara è in Poeti del Duecento, 1960, I, pp. 883-884, che sintetizza le dense pagine di Scandone), contribuì a definire una fisionomia abbastanza netta del rimatore: un giullare di professione il quale, conformemente alla prassi di almeno una parte dei giullari italiani del periodo, sconta l'esaurimento della funzione attiva dei giullari in ambito trobadorico ma, anziché trasformarsi in "canterino di piazza o in cantimpanca", tenta "di competere col poeta lirico, andando alla conquista del suo stesso pubblico colto e raffinato" (Picone, 1994). I componimenti a lui ascrivibili, oltre la canzone citata di cui si dirà, sono: un gap giullaresco, Tant'aggio ardire e conoscenza, chiamato da Rajna "serventese del Maestro di tutte l'Arti", vera e propria autopromozione (in chiave burlesca) della propria cultura e competenza; un incompleto sermone in quartine monorime, Genti, intendete questo sermone, in cui l'autore, accusato di eresia, inscena parodicamente la propria personale "passione"; un sirventese (molto lacunoso soprattutto nella parte iniziale) in tenzone con un Provenzano che potrebbe essere il dantesco Provenzan Salvani, di aspro contenuto politico; un sermone-testamento, L'amor di questo mondo è da fugire, che presenta molti problemi editoriali ma in cui ancora una volta R. sa mettere a frutto la sua vena macabro-parodica, svelando nel finale che la voce del testante è quella della propria salma già sepolta.
La canzone (o, meglio, con Beltrami, "equivalente [...] di uno di quei testi provenzali che oscillano tra canzone e sirventese") Umile sono ed orgoglioso si compone di otto stanze singulars di dieci versi ciascuna con combinatio. Anche ipotizzando qualche intervento contenuto e ragionevole sulla lezione di V, è possibile tutt'al più regolarizzare la cadenza settenaria dell'ultimo verso di ciascun piede (aaab, aaab), e quella endecasillabica del distico che costituisce la sirma (CC); ma nei sei versi in a della fronte permangono tracce di irriducibile anisosillabismo, con alternanza novenario/ottonario di base senza dubbio novenaria, come, non a caso, negli usi della poesia giullaresca (ma in alcuni casi il verso si contrae fino al settenario o si espande fino al decasillabo). Fu Jeanroy, dopo alcune sparse segnalazioni, a dimostrare organicamente la dipendenza di questo testo da Savis e fols di Raimbaut de Vaqueiras (il secondo emistichio dell'incipit suona "humils et orgoillos"): si tratta, in entrambi i casi, di canzoni de oppositis da annettersi alla "provincia" del "devinhal (inaugurata dal 'vers de dreyt nien' di Guglielmo d'Aquitania)", i cui individui più noti "sono il 'non-sai-que-s'es' di Rambaut d'Aurenga, il 'sonet malvatz e bo' di Giraut de Borneil, il sonetto petrarchesco Pace non trovo e no ho da far guerra, la ballata di Villon per il concorso di Blois" (Poeti del Duecento, 1960). Tracce evidenti del modulo de oppositis sono in due componimenti di Inghilfredi, nell'anonima Lo dolce ed amoroso placimento e soprattutto nell'altra anonima Già mai null'om. Quanto alla struttura, per così dire, argomentativa, la canzone espone ordinatamente, nelle prime due stanze, tramite le martellanti antitesi bi- e trimembri ("Umile sono ed orgoglioso, / prode e vile e coragioso, / franco e sichuro e pauroso, / e sono folle e sagio / e dolente e allegro e gioioso": si noti, nei componenti trimembri, l'incidenza delle dittologie sinonimiche, vero e proprio tic della poesia d'arte occitanica e siciliana), i temi che saranno ripresi più ampiamente (o meglio gli 'indovinelli' o paradossi di cui si proporrà subito la soluzione) nelle stanze successive, in un ordine dapprima rigoroso, poi via via sempre più disinvolto. Importante, e incontrovertibile, il già citato verso-firma dell'autore all'inizio dell'ultima stanza, che contiene anche la sintesi, in modi canterini, dell'ispirazione complessiva del pezzo: 73-75 "Cavalieri e marchesi e conti / lo dicono ingne parte, / che mali e beni a llui [in lui, in R.] son giunti", confermata dalla coerente sentenza finale: "E la ventura sempre sciende e sale; / tosto aviene al'omo bene e male" (qui sorprendentemente risuona il celebre incipit del componimento 'morale' più noto di tutta la Scuola siciliana, Tempo vene che sale chi discende di re Enzo). Per inciso si rammenti l'osservazione continiana secondo cui il colorito linguistico della canzone, che denuncia un senese ricco di elementi caratteristici dell'Italia mediana, potrebbe essere interpretato dal linguista come un dato originario, altrove deformato da "una precoce fiorentinizzazione".
Fonti e Bibl.: il testo di Umile sono ed orgoglioso si cita secondo la lezione fermata nella nuova edizione critica e commentata in corso di allestimento da parte di vari autori per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani; il componimento di R. è stato curato da Corrado Calenda. La canzone è compresa nella raccolta complessiva di B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 199-201; e, insieme agli altri testi dello stesso autore, tranne L'amor di questo mondo è da fugire, nei Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I-II, Milano-Napoli, 1960: I, pp. 883-889 e II, pp. 856-858 (superate e ormai superflue le precedenti edizioni di D'Ancona, Lazzeri, Monaci). Importante l'edizione diplomatico-interpretativa compresa nelle Clpio (Concordanze della lingua poetica italiana delle origini), a cura di d'A.S. Avalle, I, ivi 1992, p. 327. Contributi biografici e critici: P. Rajna, Il Cantare dei Cantari e il Serventese del Maestro di tutte l'Arti, "Zeitschrift für Romanische Philologie", 5, 1881, pp. 1-40; S. Morpurgo, Le arti di Ruggeri Apugliese, Firenze 1894; A. Zenatti, Arrigo Testa e i primordi della lirica italiana, ivi 1896, pp. 10 n. 2 e 53 n. 1; F. Torraca, Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 125-126; F. Scandone, Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana con documenti, Napoli 1904, pp. 328-332; A. Jeanroy, Une imitation italienne de Rambaut de Vaqueiras, "Bulletin Italien", 15, 1915, pp. 101-108; F. Torraca, Studi di storia letteraria, Firenze 1923, pp. 23-24 e 38-42; V. De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica italiana, Bologna 1924, pp. 50-52; Id., Primordi della lirica d'arte in Italia, Torino 1943, pp. 240-246; A. Monteverdi, Scuola siciliana e questioni attributive, "Cultura Neolatina", 23, 1963, pp. 90-100 (in partic. pp. 90-91); E. Pasquini, La poesia popolare e giullaresca, in Letteratura Italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, I, Il Duecento dalle origini a Dante, a cura di E. Pasquini-A.E. Quaglio, Bari 1970, pp. 113-181 (in partic. pp. 161-170); M. Ciccuto, Nota al serventese di Ruggieri Apugliese, "Studi e Problemi di Critica Testuale", 12, 1976, pp. 117-119; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, I, Firenze 1981, pp. 100-106; M. Picone, La carriera di un giullare medievale. Il caso di Ruggieri Apugliese, "Versants", 25, 1994, pp. 27-51; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della Scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996, p. 86; R. Antonelli, La tradizione manoscritta e la formazione del canone, in Dai siciliani ai siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia-R. Gualdo, Galatina 1998, pp. 7-28 (in partic. pp. 14-15).