ruina
Il termine ricorre in senso proprio (e serve allora a indicare il crollo, la distruzione di un edificio, di una fortezza, di case, di Paesi), ma anche, in modo più frequente, nel senso figurato politico-militare: r. (o «rovina») d’Italia, r. di una città, di una repubblica, r. di uno Stato, r. del vivere libero di Roma, r. dell’impero romano, r. di un principe. Si può dire che, in quanto termine politico-militare, ruina viene usato da M. in senso attivo e in senso passivo. Nel primo caso egli adopera «ruinare» per definire un obiettivo da conseguire, cioè quando l’azione persegue l’annientamento dell’avversario («Crescit interea Roma Albae ruinis», Discorsi II iii 2); il termine ha invece senso passivo (è il più frequente) quando un’entità politica o un individuo subisce una disfatta, va incontro alla distruzione e alla morte. M. constata il risultato e cerca di capirne le «cagioni». In tal senso, r. non è necessariamente sinonimo di «destruzione»; può avere un senso più generico che rinvia semplicemente a un indebolimento, a un’incapacità di agire, a una disfatta specifica, senza che l’esistenza stessa di chi subisce la rovina sia direttamente in gioco. Ma l’impiego della parola ruina, con queste attenuazioni, tende a indicare, con la sua forza semantica, che il prezzo da pagare per l’agire politico può essere la sparizione di un «corpo misto», di uno Stato o di una «provincia», la distruzione della capacità politica di una «università», la morte di un uomo. Dietro l’impiego di r. e di altri termini affini (si pensi al verbo «periclitare», che significa mettersi in un pericolo tale che si rischia la distruzione, «l’ultima ruina»), vi è dunque l’idea che l’agire politico implica un rischio di morte, individuale o collettivo. Analizzando gli usi di r., si è dunque portati a considerare l’agire politico come un processo le cui dinamiche non sono prevedibili, sempre sottoposto a minacce di vario genere e compiutamente calato in un momento storico determinato.
La r. del nemico può essere l’obiettivo stesso di un’azione politico-militare. Così, un’azione che mira alla r. di uno Stato è consigliata al principe nuovo «quando quelli stati che si acquistano come è detto sono consueti a vivere con le loro legge e in libertà» (Principe v 1) perché «in verità non ci è modo sicuro a possederle altro che la ruina; e chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella» (§ 6). Nei Discorsi, M. intende appunto dimostrare che «Roma divenne gran città rovinando le città circunvicine e ricevendo i forestieri facilmente a’ suoi onori» (II iii 1). Simmetricamente, ci sono casi in cui bisogna stare attenti a non rovinare uno Stato perché la sua r. può avere effetti nocivi; così, il re di Francia Luigi XII non avrebbe mai dovuto «consentire alla ruina» dei veneziani, dopo avere «fatto grande la Chiesa [e] messo in Italia Spagna», perché questa r. modificava il rapporto delle forze in suo disfavore («sendo quegli [i.e. i veneziani] potenti, sempre arebbono tenuti gli altri discosto da la impresa di Lombardia», Principe iii 44).
M., quando ricerca la «cagione» della «ruina d’Italia» o della «ruina dello imperio romano», la attribuisce all’abbandono delle armi proprie e alla scelta delle armi mercenarie: «ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essersi per spazio di molti anni riposata tutta in sulle armi mercennarie» (Principe xii 8); «E se si considerassi la prima cagione della ruina dello imperio romano, si troverrà essere suto solo cominciare a soldare e’ Gotti» (Principe xiii 25).
La prevalenza della cavalleria sulla fanteria rimane nello stesso ambito del «difetto quanto alle armi»:
Dico, pertanto, che quegli popoli o regni che istimeranno più la cavalleria che la fanteria, sempre fieno deboli e esposti ad ogni rovina, come si è veduta l’Italia ne’ tempi nostri; la quale è stata predata, rovinata e corsa da’ forestieri, non per altro peccato che per avere tenuta poca cura della milizia di pie’, e essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo (Arte della guerra II 78).
Anche la strategia delle alleanze in guerra può essere una causa di r.; lo è sempre la scelta della «via neutrale» («E e’ principi male resoluti, per fuggire e’ presenti periculi, seguono el più delle volte quella via neutrale e el più delle volte rovinano», Principe xxi 17), ma lo è, ugualmente, l’allearsi a un principe più potente come fu il caso per i veneziani quando, nel 1499, aiutarono il re di Francia Luigi XII a rimettere piede in Italia: «E Viniziani si accompagnorno con Francia contro al duca di Milano, e potevano fuggire di non fare quella compagnia: di che ne resultò la ruina loro» (Principe xxi 22). A dire il vero, la r. dei veneziani giunse dopo dieci anni (con la sconfitta subita alla Ghiaradadda, il 14 maggio 1509, di fronte alle truppe francesi) e il nesso diretto tra l’accordo del 1499 e quella rotta che mise in pericolo l’esistenza stessa della Serenissima non appare così evidente, ma M. vede probabilmente in questa «ruina» i risultati dell’errore dei veniziani «e’ quali per acquistare dua terre in Lombardia feciono signore el re de’ dua terzi di Italia» (Principe iii 35).
In Discorsi I vi M. mette a confronto due modelli per ordinare una repubblica: da una parte, il modello romano che vuole ampliare, crescere, costruire un impero e, dall’altra, il modello di Sparta e Venezia fondato sulla volontà di stare «dentro a brevi termini». Gli ordini dei due modelli opposti hanno una loro logica ferrea; se non la si rispetta si corre alla r.; se si sceglie il modello romano, bisogna «dare luogo a’ tumulti e alle dissensioni universali il meglio che si può, perché sanza gran numero di uomini e bene armati non mai una republica potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi» (§ 25). Se si sceglie il modello di Sparta e Venezia, «debbe [...] chi le ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una republica debole sono al tutto la rovina sua» (§ 26). Per M. il modello da seguire è quello romano e insiste sui rischi quasi certi di r. di chi vorrebbe seguire il modello di Sparta e di Venezia, appunto perché non si può «tenere la cosa bilanciata [...] sendo le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde»; se una tale repubblica fosse costretta dalla necessità ad ampliare «si verrebbe a tor via i fondamenti suoi e a farla rovinare più tosto»; ma anche se «la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l’ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono cagione della sua rovina» (§§ 33-35; si veda anche II xix 1, che afferma «che gli acquisti nelle republiche non bene ordinate, e che secondo la romana virtù non procedano, sono a ruina, non a esaltazione di esse»).
I modi straordinari possono anch’essi essere una causa di r.; adoperare modi straordinari significa che la repubblica non è stata bene ordinata e il ricorso a questi modi fa correre il pericolo della rovina. M. vi insiste a più riprese: quando parla delle accuse che hanno per effetto di dare «onde sfogare a quegli omori che crescono nelle cittadi» precisa che, quando questo modo ordinario non esiste, si ricorre «a’ modi straordinari, che fanno rovinare tutta una republica» (Discorsi I vii 5); quando presenta «l’autorità dittatoria» come un bene per la Repubblica romana (I xxxiv), conclude che le repubbliche nelle quali non sono previste «simili autoritadi» per fronteggiare gli «urgenti pericoli», «sempre ne’ gravi accidenti rovineranno» (§ 18). E ne ha preventivamente spiegata la ragione:
Perché, quando in una republica manca uno simile modo, è necessario o servando gli ordini rovinare o per non ruinare, rompergli. E in una republica non vorrebbe mai accadere cosa che con modi straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il modo straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male; perché si mette una usanza di rompere gli ordini per bene, che poi sotto quel colore si rompono per male (§§ 14-16).
La religione, cagione della «rovina» o della «grandezza delle republiche»? Nei Discorsi, trattando «della religione de’ Romani», M. enuncia l’importanza della religione per «la grandezza delle republiche» (I xi 18). Egli stabilisce un nesso diretto tra religione e «buoni ordini»: «quella [i.e. la religione] causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese» (§ 17). Per la medesima ragione l’assenza di religione porta con sé la r. delle repubbliche: «E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d’esse» (§ 18). Ma questo è vero nel caso della «religione de’ romani»; la Chiesa romana, invece, viene presentata, nel capitolo successivo, come responsabile della r. d’Italia, sin dal titolo Di quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante la Chiesa Romana, è rovinata (I xii 1). È ben nota la tesi machiavelliana sul ruolo della Chiesa romana in Italia e sul fatto che la religione cristiana è stata interpretata «secondo l’ozio e non secondo la virtù» (II ii 35); non è dunque il caso di insistervi in questa voce. Ricordiamo solo la famosa affermazione sarcastica di M. a tal proposito:
Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa (I xii 17).
Si ricorderà solamente, a questo punto, che nell’analisi che M. propone della Chiesa romana esiste un legame con un’altra ragione della r. d’Italia, cioè l’abbandono delle armi proprie e il ricorso alle armi mercenarie di cui i preti sono, in buonaparte, responsabili. È quanto viene affermato in Principe xii 29: «Onde che, essendo venuta la Italia quasi che nelle mani della Chiesa e di qualche republica, e essendo quelli preti e quelli altri cittadini usi a non conoscere arme, cominciorno a soldare forestieri». Si può quindi capire che dietro la r. dell’Italia, c’è una specie di «comune difetto» quanto alle armi e agli ordini e una responsabilità particolare della Chiesa romana.
«Il popolo molte volte disidera la rovina sua» (Discorsi I LIII 1). Nei Discorsi, M. insiste sugli errori commessi dal popolo:
il popolo molte volte, ingannato da una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli è fatto capace come quello sia male e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche infiniti pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina di necessità (I liii 6-7).
Il popolo, infatti, ‘acceccato’ da «opinioni gagliarde», non vede quello che è nascosto sotto l’apparenza delle cose:
E quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e’ pare [partito] animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno (§ 11).
Questa incapacità di vedere oltre le apparenze era già stata enunciata in Principe xviii 18 («el vulgo ne va preso con quello che pare»), e i limiti della comprensione di cui è capace il popolo sono presentati come un’ovvietà in una lettera a Francesco Guicciardini del 15 marzo 1526: «Voi sapete, et sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, come i popoli sono varii e sciocchi...» (Lettere, p. 421); d’altronde, in Principe vi 22, M. aveva già affermato che «la natura de’ populi è varia», avvertendo, tuttavia, che «conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza». Non c’è quindi dubbio sul fatto che M., contrariamente a un’opinione diffusa, è consapevole dei limiti e degli errori del popolo. Però ci sembra che, per capire ciò che M. intende dire sul popolo che «disidera la rovina sua», sia necessario aggiungere un «nondimeno», come d’altronde fa M. nella suddetta lettera a Guicciardini, subito dopo la frase che abbiamo citato: «nondimeno, così fatti come sono, dicono molte volte che si fa quello che si doverrebbe fare». E il fatto che si tratti delle cose che «dicono» i popoli rinvia a Discorsi I lviii dove viene affermato che «la moltitudine è più savia e più costante che uno principe» (I lviii 1) e nel quale M. parla appunto della «voce d’un popolo».
E non sanza cagione si assomiglia la voce d’un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne’ pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene (I lviii 23).
La contraddizione tra i due capitoli è solo apparente. Infatti, in I lviii si tratta non della natura del popolo (che per M. non è differente dalla natura di «tutti gli uomini particularmente, e massime i principi»), ma del popolo storicamente determinato, in quanto attore politico che ha, o non ha, «rispetto alle leggi» e che è, o non è, «bene ordinato» (I lviii 18-19).
Se il popolo che non è «bene ordinato» e che ha «meno rispetto alle leggi» può desiderare la sua r., anche gli uomini grandi s’ingannano e fanno errori di giudizio in materia politica e militare. Cesare Borgia non seppe prevedere le conseguenze della sua scelta quando venne eletto il papa Giulio II («Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina sua», Principe vii 49). Girolamo Savonarola e Piero Soderini non seppero o non poterono «vincere l’invidia» di quelli che si opponevano a loro («Tanto che l’uno e l’altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia», Discorsi III xxx 21). Quando, in Principe xix, M. decide di «discorrer[e] le qualità di alcuni imperadori» per mostrare quali sono «le cagioni della loro ruina» (xix 26), ne trae la seguente conclusione: «Dico che qualunque considerrà el soprascritto discorso vedrà o l’odio o il disprezzo essere suti cagione della ruina di quelli imperadori prenominati» (xix 67).
Le «cagioni della ruina» degli uomini grandi sono quindi varie, ma tutte possono venire riassunte nell’incapacità di adattare il modo di procedere in materia politica e militare alla qualità dei tempi. La formula già ricordata di Principe xxv 10 («quel principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina come quella varia») va però sviluppata: i principi che hanno perso lo Stato e che rovinano non devono accusare «la fortuna ma la ignavia loro» (xxiv 8) e l’analisi permette di trovare in loro dei «difetti» militari e politici che avrebbero potuto evitare («prima, uno comune difetto quanto alle arme [...]; di poi si vedrà alcuni di loro o che arà avuto inimici e’ populi, o, se arà avuto il populo amico, non si sarà saputo assicurare de’ grandi», xxiv 5). La r. viene dunque dal non avere allestito, in anticipo, «gli argini né e’ ripari» che avrebbero potuto «tenere» la fortuna (xxv 8). Si può ancora osservare che l’uso di «rovina» nei testi di M. è anche in stretto legame con le sue tesi fondamentali politiche e militari: la r. iscrive nella storia la fragilità e la complessità delle azioni politiche e militari: è il prezzo da pagare per gli errori e i difetti dell’attore politico.
Bibliografia: S. Landi, Alcune considerazioni sulla “voce d’un popolo” in Machiavelli (Discorsi, I 58), «Laboratoire italien», 2001, 1, pp. 35-52; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003; M.C. Figorilli, Machiavelli moralista: ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006 (in partic. cap. 4: “Odio” e “rovina”: una lettura del II libro delle Istorie fiorentine, pp. 89-111).