Ruolo della Corte costituzionale. La giustizia costituzionale nel 2011
La collocazione della Corte costituzionale nella forma di governo si modifica nelle diverse stagioni di vita repubblicana e viene ad assumere una più forte valenza «politica» quando è chiamata a pronunciarsi su vicende ad alta conflittualità istituzionale. Nel 2011 la Corte ha continuato a svolgere questo ruolo «arbitrale» non solo nei conflitti di competenze tra Stato e Regioni, ma anche riguardo alla posizione processuale del Presidente del Consiglio dei ministri, soprattutto con la pronuncia sul legittimo impedimento.
Nell’anno 2011, si è confermata la tendenza a una modificazione del ruolo istituzionale della Corte costituzionale, che ha visto accrescere la propria funzione «arbitrale » rispetto ai conflitti di natura politica, soprattutto relativamente alla posizione giudiziaria del Presidente del Consiglio dei ministri (nella sent. n. 23/2011 e nell’ord. n. 241/2011). In tal modo, la Corte ha continuato ad attenuare il ruolo di mero garante della costituzionalità delle leggi, per operare più a ridosso delle vicende di attualità, quale arbitro dei conflitti, finendo tuttavia per essere sempre più trascinata nel vortice delle polemiche politiche e di stampa. Per comprendere tale fenomeno, va necessariamente rammentato che la Corte rappresenta un’innovazione voluta dal Costituente del 1947 quale forma di tutela della Costituzione, per assicurarne la primarietà e garantirla da possibili manipolazioni dei gruppi dominanti. Nei cinquantacinque anni di attività (e quasi 20 mila decisioni), la Corte ha visto evolvere la sua posizione nella forma di governo, collaborando a tutelare e a far evolvere i valori fondamentali della Costituzione del 1947 in maniera diversa nei diversi periodi di vita repubblicana. Dall’avvio dell’attività nel 1956 fino all’inizio degli anni settanta del Novecento, la Corte è stata chiamata a svolgere il compito di promuovere e applicare la Costituzione. Si trattava di una funzione, da un lato, relativamente facile, in quanto risultava agevole eliminare tutti i residui di norme socialmente superate o di stampo fascista, palesemente contrastanti con l’impianto costituzionale. Basti pensare alla dichiarazione di incostituzionalità – sia pure resa solo in un momento successivo – delle norme del c.p. che punivano l’adulterio della moglie e non quello del marito, in ossequio all’ottica assai risalente che voleva la donna del tutto assoggettata alla potestà del marito (sentt. n. 126/1968 e n. 147/1969). Il difficile consisteva, invece, nel compito di autolegittimazione nel sistema. Ricordando la diffidenza con cui era stata accolta sia dal mondo politico sia da quello giudiziario, la Corte aveva bisogno, da un lato, di essere accettata e apprezzata dagli altri organi dello Stato e dall’opinione pubblica e, dall’altro, di stabilizzare e articolare i propri strumenti di intervento. È così che vanno spiegate la sindacabilità delle leggi anteriori alla Costituzione, l’ampliamento della sfera dei soggetti che possono sollevare una questione di costituzionalità, la crea zione dell’ampio strumentario decisionale. Dopo di allora, per circa un altro quindicennio, la Corte ha assunto, piuttosto, un ruolo di mediazione nei conflitti sociali e politici. Il giudice costituzionale è stato chiamato a giudicare sempre più di frequente su leggi adottate dal Parlamento repubblicano e, quindi, ha dovuto porsi come «contraltare» più vicino alle scelte parlamentari. Le tecniche decisorie si sono affinate sempre di più, le pronunce hanno assunto un impatto politico sempre maggiore. A ciò ha contribuito anche lo sviluppo, non casuale, delle «altre» competenze della Corte. La maturazione del sistema costituzionale e i sintomi della sua crisi hanno portato alla Consulta i primi conflitti fra poteri, non più risolvibili solo in chiave di mediazione politica, e le prime richieste di referendum abrogativo, per valutare se sottoporre al voto popolare temi «caldissimi», come il divorzio o l’aborto. Negli stessi anni, la Corte ha cominciato ad offrire una lettura evolutiva della Costituzione, facendone la base per la tutela e la promozione anche di «nuovi diritti», non tutelati espressamente ma desumibili implicitamente. È così che hanno trovato garanzia al più alto livello il diritto alla riservatezza, all’identità personale e sessuale, all’abitazione, all’ambiente, all’informazione. Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del Novecento, il lavoro della Corte si è ispirato a una notevole efficienza operativa. La migliore organizzazione dei lavori ha permesso di smaltire il ponderoso arretrato accumulato nel corso del processo Lockheed (oltre 6 mila cause, alcuni risalenti a più di dieci anni). Questo recupero di produttività ha lasciato sul campo qualche errore (clamoroso è quello della norma dichiarata incostituzionale due volte: sentt. n. 457/1994 e n. 76/1995), ma ha consentito alla Corte di poter tornare ad essere un interlocutore tempestivo delle esigenze della costituzionalità. Ciò ha contribuito a sviluppare un buon rapporto collaborativo con le Camere e con i giudici comuni, come risulta emblematicamente dal buon funzionamento dello strumento delle sentenze additive di principio. Così, la Corte è anche divenuta «motore delle riforme », anticipando o correggendo le grandi innovazioni degli anni ottanta e novanta (nuovo c.p.p., razionalizzazione del sistema previdenziale, privatizzazione del pubblico impiego, decentramento amministrativo). In tale ottica, si inquadra anche il cammino comunitario della Corte, che è servito a consolidare la partecipazione dell’Italia al sistema dell’UE (forse la più significativa modifica tacita della nostra Costituzione), ammettendo l’immediata prevalenza del diritto comunitario sulle leggi interne, mediante la disapplicazione delle leggi interne da parte di tutti i giudici, così acconsentendo a un’ampia breccia nel sistema accentrato di controllo sulle leggi (sent. n. 170/1984).
Nell’ultimo decennio, si è assistito a un’ulteriore modificazione del ruolo della Corte. Tradizionalmente, la Consulta si è trovata a decidere soprattutto su questioni incidentali di legittimità costituzionale, così ponendosi quale istanza di verifica della conformità delle leggi «in azione» con i dettami della Costituzione. Negli ultimi anni, la percentuale dei giudizi incidentali è scesa dall’85 fino a quasi il 50 per cento delle cause affrontate, con un forte sviluppo del giudizio di costituzionalità in via principale e dei conflitti fra poteri. In tal modo, la Corte si è ritrovata ad accrescere il proprio ruolo di «arbitro» delle competenze costituzionali, sia fra Stato e Regioni, sia fra poteri dello Stato. Sul primo versante, la Corte è stata chiamata a svolgere un ruolo di fondamentale importanza nell’applicazione e nella chiarificazione della riforma in senso federale del regionalismo italiano (l. cost. n. 3/2001). Data la non felice delimitazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni (art. 117 Cost.) e la mancanza di una clausola generale che potesse far valere l’interesse nazionale, il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni si è di molto accresciuto e la Corte si è trovata a dover definire le linee di confine delle competenze costituzionali, con interventi a volte al limite del «para-costituente». In particolare, la Corte ha mostrato una netta tendenza a recuperare spazi di competenza allo Stato, soprattutto attraverso la categorie delle materie «trasversali» (o, altrimenti dette, «materie non materie »), nell’ambito delle competenze statali esclusive di cui all’art. 117, co. 2, Cost. Sono così stati qualificati gli ambiti in cui sono «raccolti ed intrecciati tra loro interessi molteplici che mettono capo a competenze differenziate, distribuite tra enti locali, Regioni e Stato» (così, tra le prime, la sent. n. 96/2003), come la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», la «tutela dell’ambiente», la «protezione civile», la «tutela della salute», la «tutela» e la «valorizzazione » dei beni culturali, la «tutela della concorrenza», la «tutela e sicurezza del lavoro». Mediante una lettura teleologica di tali ambiti, la Corte ha ammesso di superare i confini meramente oggettivi della materia, così da estendersi a una molteplicità di oggetti pertinenti anche ad altre materie, ma comunque rispondenti all’esigenza finalisticamente assegnata allo Stato. La Corte è andata ancora oltre, quando ha rilevato che nel nostro sistema costituzionale esistono «congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica» (sent. n. 303/2003, § 2.1 cons. diritto), così da desumerne che «i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata» (§ 2.2 cons. diritto). In tal modo, mediante la sussidiarietà ascensionale, è arrivata a ricomprendere alla competenza statale oggetti che non avevano alcun appiglio nell’elenco delle materie (il leading case della sent. n. 303/2003 è relativo alla cd. legge obiettivo sulle grandi opere; da ultimo, sentt. n. 33/2011, n. 79/2011 e n. 165/2011). Sul secondo versante, va rammentato che il conflitto tra poteri è stato per anni la competenza «cenerentola» della Corte, dato che i conflitti politici trovavano soluzione in sede politica. Dalla metà degli anni settanta del Novecento, sono emersi i primi conflitti, sotto la spinta dei ricorsi del potere giudiziario che non riusciva a trovare vie di mediazione politica1. Poi, però, negli anni novanta si è innalzato il tono costituzionale dei conflitti, in una «giurisdizionalizzazione» delle controversie politiche che ancora prosegue. La Corte sempre più spesso viene chiamata a dirimere conflitti fra gli organi istituzionali, anche in ragione della crisi della forma di governo e dell’acuirsi del confronto politico. Questo ruolo della Corte quale «arbitro» delle controversie costituzionali, quale punto di equilibrio del sistema, per garantire il delicato sistema di «freni e contrappesi» delineato dalla Costituzione repubblicana, emerge ancor più nettamente ripercorrendo alcune vicende emblematiche, che hanno portato i massimi vertici dello Stato davanti alla Corte. Nel 1995, il Ministro di grazia e giustizia F. Mancuso è stato «revocato» – caso fino ad ora unico – a seguito di una mozione di sfiducia individuale, approvata dal Senato della Repubblica al culmine di ripetuti e aperti contrasti del singolo Ministro con il Governo, la maggioranza parlamentare e il Capo dello Stato. Il Ministro Mancuso ha subito promosso un conflitto di attribuzione contro il Senato della Repubblica, il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei ministri, sostenendo l’illegittimità della rimozione della sua carica. La Corte, con la sent. n. 7/1996, ha rigettato il ricorso, ritenendo ammissibile la mozione di sfiducia individuale e negando, invece, la possibilità di sindacare le ragioni della sfiducia, atto squisitamente politico. Nel 2005, si è sviluppata un’ampia polemica prima politica e poi giuridica sulla competenza del Presidente della Repubblica e del Ministro della giustizia riguardo al potere di grazia, con specifico riferimento al ruolo della controfirma del secondo. Il conflitto è stato risolto dalla Corte con la sent. n. 200/2006 a favore del Capo dello Stato, ritenendo che «a fronte della determinazione presidenziale favorevole alla adozione dell’atto di clemenza, la controfirma del decreto concessorio, da parte del Ministro della giustizia, costituisce l’atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la completezza e la regolarità dell’istruttoria e del procedimento seguito». Un ambito di grande conflittualità si è sviluppato riguardo al problema dell’immunità parlamentare. Le Camere hanno applicato estensivamente la previsione del co. 1 dell’art. 68 Cost., coprendo con l’immunità parlamentare anche comportamenti che esulavano del tutto dall’attività parlamentare, soprattutto dopo che la revisione costituzionale dell’art. 68 Cost. (1993) ha di molto ristretto l’ambito di operatività dell’autorizzazione a procedere per sottoporre a un processo penale i parlamentari. Alcuni giudici, nel corso di processi a carico di parlamentari, il cui svolgimento era stato «bloccato» da una delibera di insindacabilità, hanno quindi sollevato un conflitto rispetto alla Camera di appartenenza del deputato. Tuttavia, la Corte tradizionalmente ha mostrato un’estrema deferenza verso le valutazioni delle Camere, ritenendole prima del tutto insindacabili, poi sindacabili solo per i casi di «manifesta arbitrarietà », di fatto non esercitando mai questo controllo (ad esempio, sentt. n. 1150/1988 e n. 443/1993). Gli abusi della dichiarazione di insindacabilità hanno fatto crescere, negli ultimi anni, le tensioni fra politica e giurisdizione e così la Corte è stata «costretta» ad intervenire per indicare una linea di composizione. Con le sentt. n. 289/1998 e n. 329/1999, si è arrivati, per la prima volta, ad annullare le delibere di insindacabilità, ricordando che per ritenere legittima l’insindacabilità occorre verificare la sussistenza del «nesso funzionale» tra le opinioni espresse e l’esercizio delle attribuzioni proprie del parlamentare. Invece – sono parole della Corte – «ricomprendere qualsiasi comportamento o attività qualificata come politica nella sfera di insindacabilità assicurata dall’art. 68, co. 1, Cost., a tutela della libertà e della indipendenza del potere legislativo, prescindendo dal collegamento con l’esercizio della funzione parlamentare, trasformerebbe, appunto, tale prerogativa in privilegio personale» (si vedano, poi, anche le sentt. n. 10/2000, n. 11/2000 e n. 120/2004). Nel medesimo solco di conflittualità politica, sono da leggere le vicende che hanno accompagnato i giudizi di costituzionalità sulle leggi con le quali si è cercato di sospendere o limitare la «processabilità» penale del Presidente del Consiglio dei ministri. Pur trattandosi di giudizi di costituzionalità promossi in via incidentale nei processi già in corso a carico del Presidente S. Berlusconi per reati comuni, tali contenziosi costituzionali hanno alimentato un vespaio di polemiche politiche, tanto da configurarsi come una sorta di conflitto tra la maggioranza politica e la Corte costituzionale. Risale all’inizio del decennio scorso il tentativo di introdurre per via legislativa uno «scudo» che limitasse la «processabilità» del Presidente del Consiglio dei ministri, anche per fatti «non funzionali» e precedenti all’assunzione della carica. Con l’art. 1 della l. n. 140/2003 (cd. lodo Schifani), si è introdotta una disciplina differenziata per le cinque più alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri e Presidente della Corte costituzionale) in materia di processo penale, prevedendo la sospensione di tutti i processi penali in corso nei loro confronti. Con la sent. n. 24/2004, la Corte costituzionale – non senza polemiche politiche – ha annullato tale disciplina, ritenendo configgente con gli artt. 3 e 24 Cost. la previsione di una sospensione dei processi «generale, automatica e di durata non determinata». Il Parlamento è tornato sul medesimo tema con la l. n. 124/2008 (cd. lodo Alfano), introducendo ancora una sospensione dei processi penali a carico delle quattro cariche più alte dello Stato, ma cercando di seguire le indicazioni della Corte, in maniera da configurarla come limitata e rinunciabile. Il dibattito politico e giuridico che ha accompagnato queste misure – lette da alcuni come un vera e propria norma ad personam a favore del Presidente S. Berlusconi – hanno finito per trascinare anche la Corte costituzionale nel vortice delle polemiche, invocandola quale garante ultimo o tacciandola di «partigianerie», con attacchi che hanno coinvolto anche le singole persone dei singoli giudici costituzionali. Si è così arrivati all’udienza del 6.10.2009 in un clima da «giorno del giudizio universale» e la sent. n. 262/2009, con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale il cd. lodo Alfano per violazione degli artt. 3 e 138 Cost., è stata letta in chiave politica più che giuridica. Questa sentenza va comunque segnalata, in quanto la Corte ha ampliato l’impianto argomentativo utilizzato nel 2004, per chiarire che le prerogative costituzionali concorrono a delineare la nostra forma di governo, in quanto rappresentano uno degli snodi rilevanti di quel sistema di pesi e contrappesi che caratterizza le democrazie moderne. Per tale ragione, ha precisato che al legislatore ordinario è precluso intervenire a modificare il sistema delle prerogative, poiché «nel caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi, quale ragione giustificatrice di essa, l’esigenza di proteggere le funzioni di quell’organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura costituzionale » (sent. n. 262/2009, § 7.3.2.2 cons. diritto). A quel punto, il Parlamento – pur avviando l’iter costituzionale per l’introduzione di un’immunità per le Alte cariche – è intervenuto sul versante del legittimo impedimento. Con la l. n. 51/2010, si è introdotta una sorta di presunzione assoluta di legittimo impedimento a comparire alle udienze penali per le alte cariche dello Stato, in ragione dell’interesse pubblico al sereno svolgimento delle loro attività. Nel gennaio del 2011 molta attesa ha accompagnato la decisione costituzionale di questo ulteriore capitolo del conflitto tra maggioranza politica e Corte costituzionale. La sent. n. 23/2011 si è pronunciata ancora nel senso dell’incostituzionalità, ritenendo illegittimo l’art. 1 della l. n. 51/2010, per violazione degli artt. 3 e 138 Cost., nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420 ter, co. 1, c.p.p., l’impedimento addotto e nella parte in cui prevede che l’ipotesi di impedimento continuativo sia attestato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri2. Di lì a poco, la Corte costituzionale è stata ancora chiamata a pronunciarsi sulla posizione processuale del Presidente S. Berlusconi, ma questa volta su istanza della Camera dei deputati in sede di conflitto tra poteri. In relazione al cd. processo Ruby, avviato dal Tribunale di Milano, la Camera dei deputati, con ricorso depositato il 17.5.2011, ha sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e del g.i.p. presso quest’ultimo Tribunale, chiedendo alla Corte di dichiarare che non spettava al primo «esperire indagini nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica », on. S. Berlusconi, «nonché procedere alla richiesta di giudizio immediato», «relativamente al contestato delitto di concussione, omettendo di trasmettere gli atti al Collegio per i reati ministeriali», ai sensi dell’art. 6 della l. cost. n. 1/1989, «in tal modo precludendo alla competente Camera dei deputati l’esercizio delle proprie attribuzioni costituzionali in materia di cui all’art. 96 Cost. ed alla legge costituzionale n. 1 del 1989, e comunque senza dare la dovuta comunicazione»; e di dichiarare che «non spettava» al secondo «procedere in via ordinaria ed emettere il decreto di giudizio immediato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, né affermare, in relazione al contestato delitto di concussione, la natura non ministeriale dello stesso, omettendo di rilevare la necessaria trasmissione degli atti» al Collegio «con i provvedimenti del caso, in tal modo precludendo alla competente Camera dei deputati l’esercizio delle proprie attribuzioni costituzionali in materia di cui all’art. 96 Cost. ed alla legge costituzionale n. 1 del 1989, e comunque senza dare la dovuta comunicazione» a quest’ultima. Con l’ord. n. 241/2011, la Corte ha dichiarato ammissibile tale conflitto, la cui decisione è attesa nei prossimi mesi, per stabilire se rispetto ai fatti in questione sia da attivare comunque la competenza del Tribunale dei ministri oppure possa procedere la giurisdizione ordinaria. Si tratterà di un’ulteriore decisione che avrà un forte impatto politico, chiarendo ulteriormente l’ambito della competenza del Tribunale dei ministri a fronte di fatti ritenti comuni dai giudici ordinari, per quanto commessi da Ministri (cfr. anche la sent. n. 241/2009 e l’ord. n. 104/2011 sui casi di A. Matteoli e di C. Mastella).
In chiave sistematica, queste ultime vicende offrono nuova linfa a un assai tradizionale dibattito: la Corte costituzionale opera come giudice o come organo politico? All’inizio degli anni settanta del Novecento, la Corte è stata suggestivamente definita come «isola della ragione nel caos delle opinioni»3. Si voleva indicare che, nella prima fase della sua attività, il giudice costituzionale italiano si era attenuto molto da vicino all’idea kelseniana di giustizia costituzionale: si era comportato da custode razionale delle esigenze del diritto, superando le contingenze della politica. Questa visione è stata superata negli anni successivi, quando la Corte, in funzione di mediazione dei conflitti sociali e poi di arbitro dei conflitti, ha assunto sempre di più il ruolo (anche) di interlocutore politico. Tuttavia, la Consulta non è mai divenuta un vero e proprio organo del sistema politico, ma ha sempre operato in maniera da «misurare ... la politica sul metro del diritto»4. In questa frase si riassume il particolare ruolo del giudice costituzionale, la sua funzione intermedia fra politica e diritto: nella sua attività – irrimediabilmente – finisce per «giurisdizionalizzare» la politica dentro le forme del processo e, nel contempo, per «politicizzare» la giurisdizione, attraverso la natura (politica) delle questioni affrontate e gli effetti (politici) delle decisioni. La Corte costituzionale – al fondo – non può che essere «l’isola dell’opinione più ragionevole»5, in quanto le questioni costituzionali sono da valutare con una discrezionalità molto vicina alle valutazioni politiche. Insomma, una Corte costituzionale non può leggere la realtà con i soli occhiali del diritto, ma deve necessariamente correggere il proprio visus con le diottrie della politica. Il confine tra ruolo giudiziario e ruolo politico resta comunque mobile, per collocarsi diversamente nelle diverse epoche istituzionali. Così, la Corte viene ad assumere un ruolo di maggiore valenza politica quando assume decisioni in posizione di «arbitro» dei conflitti costituzionali e istituzionali, finendo inevitabilmente per essere anche trascinata all’interno della forma di governo, in chiave politica. Del resto, si tratta di un’evoluzione che riteniamo inevitabile in una democrazia matura, specialmente in periodi di alta conflittualità politica, ove la Corte è chiamata a tutelare la Costituzione anche in chiave para-politica e non solo giudiziaria.
1 Quale curiosa coincidenza, va segnalato che il giudice relatore della prima serie di decisioni significative sui conflitti fu V. Crisafulli, proprio il giurista che aveva precedentemente accusato di inutilità questo rimedio, ritenendolo troppo illuministico.
2 Si ricorda che la l. n. 51/2010 è stata poi anche fatta oggetto di un referendum abrogativo, votato il 12-13.6.2011, con ampia prevalenza dei voti a favore dell’abrogazione.
3 Modugno, L’invalidità della legge, I, Milano, 1970, XI.
4 Cheli, Il giudice delle leggi, Bologna, 1996, 13.
5 Elia, Relazione di sintesi, in Occhiocupo (a cura di), La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, Bologna, 1978, 168.