Vedi Russia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Federazione Russa è uno stato dalle dimensioni continentali, geograficamente contiguo sia all’Europa, regione con la quale ha intessuto stretti rapporti sin dall’epoca moderna, sia al Caucaso, all’Asia centrale e all’Estremo Oriente. La grande estensione geografica del paese e la sua evoluzione storica hanno fatto della Russia uno degli attori più rilevanti del sistema internazionale contemporaneo. Stato composito e dalle caratteristiche imperiali – nel quale, cioè, un centro forte ha storicamente esercitato il proprio controllo su periferie deboli ed eterogenee, spesso animate da istanze indipendentiste – la Russia è andata definendosi sin dal Settecento come un paese europeo, tanto sotto il profilo della direzione politica quanto sotto quello della concentrazione demografica. Dopo aver trascorso un lungo periodo come media e poi grande potenza nel contesto del sistema internazionale europeo, dalla seconda metà dell’Ottocento l’Impero russo giunse a competere con l’Impero britannico per il predominio sul Medio Oriente e sull’Asia centro-meridionale. I gravi problemi di sottosviluppo politico ed economico di uno stato ancora prevalentemente agricolo, combinati con la vastità del suo territorio, furono tra le cause principali di quelle sconfitte militari (nel 1905 contro il Giappone e nel 1917 durante la Prima guerra mondiale) che avrebbero contribuito alla caduta dello zar, alla presa del potere dei comunisti (bolscevichi) nell’ottobre 1917 e alla costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) nel 1922. L’Urss si trasformò ben presto in uno stato totalitario, riorganizzando nella forma la gestione del potere, ma conservando nei fatti molti dei tratti imperiali che l’avevano contraddistinta nell’epoca precedente. Elemento di novità rispetto all’epoca zarista fu la strutturazione del nuovo stato su base federale: ciò contribuì a smorzare l’accentramento e la forte personalizzazione della gestione politica, che pure rimasero caratteristiche determinanti del sistema. Nello stesso periodo l’ideologia comunista, con le sue aspirazioni egalitarie e rivoluzionarie, si diffuse e si radicò anche in Europa, mentre all’interno del paese l’industrializzazione forzata e il riarmo militare ottennero l’effetto di dotare l’Urss di basi economiche più salde e di uno degli eserciti più forti al mondo. Nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, l’Armata rossa occupava ormai circa metà del continente europeo. La conseguente rapida divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi ideologici, economici e militari contrapposti, egemonizzati da quelle che sarebbero state definite ‘superpotenze’ (gli Stati Uniti e l’Urss), diede inizio a un periodo di rivalità noto come bipolarismo, sotto la costante minaccia di una guerra nucleare. Il blocco sovietico si organizzò militarmente attorno al Patto di Varsavia (1955-91), che includeva l’Unione Sovietica e molti stati europei centro-orientali e sarebbe durato fino alla dissoluzione dell’Urss. La dissoluzione sovietica ebbe luogo in un arco di tempo molto rapido, tra il 1989 e il 1991: al collasso economico dell’Unione Sovietica seguì la sua frammentazione in un certo numero di stati indipendenti in Europa (Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Estonia, Lettonia e Lituania), Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaigian) e Asia centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan), mentre i paesi dell’est europeo si ritiravano dal Patto di Varsavia. L’Urss fu formalmente dissolta nel dicembre 1991, e a occupare la maggior parte di quello che era stato il suo territorio sopravvenne la Federazione Russa. La transizione dal sistema economico sovietico, centralizzato e pianificato, all’economia di libero mercato provocò nuovi squilibri, culminati nel collasso finanziario dell’estate del 1998. L’incompiutezza della transizione si affiancò all’emersione di problemi di instabilità alle nuove frontiere russe e alla diffidenza nei confronti dell’allargamento della Nato, principale strumento della politica transatlantica degli Stati Uniti e nemico assoluto dell’Unione Sovietica all’epoca della Guerra fredda.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la Federazione Russa è stata lentamente reinserita all’interno dell’insieme di istituzioni internazionali che sostengono il sistema economico globale: nel 1992 la Russia ha fatto il suo ingresso nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale, nel 1997 è stata formalmente accolta nel G8, mentre nell’agosto 2012 è divenuta membro dell’Organizzazione mondiale del commercio. Lo stesso percorso non è stato invece seguito in materia di cooperazione e di sicurezza: la Russia ha continuato a guardare con estrema diffidenza alla Nato, che comprende oggi gran parte dei paesi dell’Europa centro-orientale, essendosi strenuamente opposta all’ingresso nell’Alleanza di questi ultimi e avversando ulteriori allargamenti verso est. Il ‘disallineamento’ tra cooperazione economica e sicurezza è spiegabile soprattutto a partire dalla percezione russa delle relazioni regionali. La classe dirigente e l’opinione pubblica del paese considerano infatti il territorio già facente parte dell’Unione Sovietica come uno spazio di naturale proiezione e influenza russa, all’interno del quale nessun altro stato avrebbe diritto di ingerenza. Non a caso, le repubbliche ex sovietiche vengono fatte rientrare dai russi nella singolare categoria di ‘estero vicino’ (blizhneye zarubezh’e): uno spazio alla cui guida Mosca si è posta, fin dai primi anni Novanta, attraverso la predisposizione di meccanismi di cooperazione politica, economica e di sicurezza – prima tra tutte quella Comunità degli stati indipendenti (Cis) che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del Cremlino, raccogliere il testimone della disciolta Urss. È proprio a partire da questa rete di privilegiate – benché altalenanti – relazioni che la Federazione Russa sembra guardare al resto del mondo. Su questo sfondo, l’ascesa della Cina viene considerata una potenziale minaccia, anzitutto perche passibile di erodere la tradizionale influenza russa sull’Asia centrale. D’altra parte, il tentativo di contenere la spinta espansionistica cinese è alla base della cooperazione regionale propugnata da Mosca e Pechino attraverso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) che, fondata nel 1996, comprende anche le repubbliche centroasiatiche con l’eccezione del Turkmenistan. Il governo moscovita guarda dunque alla Cina con un misto di speranza e preoccupazione, bilanciando rischi geopolitici e opportunità economiche. Quest’ultime sono principalmente connesse alle possibilità di interdipendenza energetica che la crescita economica della Cina apre al paese – che teme, d’altra parte, di poter essere considerato un semplice ‘deposito’ di riserve energetiche. Il superamento del sistema bipolare ha permesso un approfondimento delle relazioni tra Mosca e gli interlocutori occidentali. Sebbene l’Alleanza atlantica abbia resistito al termine della Guerra fredda, creando momenti di tensione con Mosca, un certo scollamento si è, infatti, generato al suo interno proprio in relazione ai rapporti con la Russia. Stretta interdipendenza energetica e solidi rapporti diplomatici, economici e culturali hanno spinto alcuni paesi della ‘vecchia Europa’ (in particolar modo Italia, Germania e Francia) verso la costante ricerca del dialogo e di convergenze con Mosca, ‘de-ideologizzando’ le relazioni bilaterali. Altri paesi (come Regno Unito o Svezia) continuano invece a criticare la Federazione Russa, principalmente sul piano della mancata affermazione dello stato di diritto, dell’apertura economica e del pieno rispetto dei diritti umani. A questi si sono aggiunti i membri più recenti della Nato e dell’Unione Europea, che guardano all’ex stato sovietico ancora con diffidenza. Le diverse posizioni rispetto alla Russia sono emerse con chiarezza nel corso del conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, che ha visto il fronte euro-atlantico dividersi tra promotori del dialogo e assertori di una ferma linea di condanna dell’operato russo, proprio sulla base delle richiamate differenze. Altalenanti sono state invece, nel corso dell’ultimo ventennio, le relazioni con gli Stati Uniti. Fermi sostenitori del processo russo di apertura democratica e di transizione verso l’economia di mercato, gli Stati Uniti hanno rilanciato il dialogo con Mosca, in particolare nei settori dell’antiterrorismo e del disarmo nucleare. Ciò nonostante, le relazioni bilaterali hanno vissuto momenti di tensione legati in particolar modo, oltre che all’allargamento della Nato, alle operazioni militari condotte in Serbia e Kosovo nel 1999 e a una retorica che, specie nell’era di George W. Bush (2001-08), faceva continuo riferimento al periodo del confronto bipolare. Dal 2009, sotto la presidenza di Barack Obama, i due paesi hanno puntato al raggiungimento di un accordo sulla riduzione delle armi nucleari, sancito ad aprile 2010 dal Trattato New Start. Si è assistito, tuttavia, ad un nuovo irrigidimento delle relazioni in seguito all’annuncio del dispiegamento dello scudo missilistico della Nato, che ha acuito le storiche paure russe per la propria sicurezza nei confronti dell’Occidente.
Per identificare il periodo di transizione dall’Unione Sovietica alla Federazione Russa, è stato tradizionalmente utilizzato la formula dello ‘smembramento’ dello stato sovietico e della consequenziale nascita di diverse e nuove entità statali, tra le quali la stessa Russia. Tuttavia, l’intenzione manifestata dalla Federazione Russa di farsi carico di tutti i diritti e le obbligazioni derivanti dai trattati stipulati in epoca sovietica (tra i quali, ad esempio, il diritto a ricoprire uno dei cinque seggi permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), assieme all’acquiescenza della comunità internazionale, hanno permesso a Mosca di poter essere considerata sotto quasi ogni aspetto lo stato di fatto successore dell’Urss. La Costituzione della Federazione Russa, adottata nel dicembre 1993, delinea una repubblica semipresidenziale a struttura federale: in essa il presidente è eletto a suffragio universale e nomina il primo ministro, che deve però godere anche della fiducia del Parlamento. Il presidente non può essere eletto per più di due volte consecutive e il suo mandato, in seguito a una riforma entrata in vigore dalle elezioni del 2012, è stato esteso da quattro a sei anni. Il Parlamento federale ha struttura bicamerale e consiste nella Duma (la Camera bassa), composta da 450 deputati ed eletta a suffragio universale ogni quattro anni, e nel Consiglio federale, costituito da 166 senatori eletti in maniera indiretta dalle assemblee locali – due per ciascuno dei diversi soggetti che compongono la Federazione. Negli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris El’cin (1991-99), la Russia fu afflitta dal problema della forte frammentazione politica interna. Tra il 1993 e il 1999 nessun partito riuscì, infatti, a formare una maggioranza stabile e quasi la metà delle leggi approvate in questo periodo provennero da proposte governative; El’cin fu costretto a opporre il veto presidenziale su un quinto delle leggi approvate dall’aula, continuando a governare per decreto. Ritenuto responsabile del collasso finanziario del paese nel 1998 e di non essere riuscito a scongiurare i bombardamenti Nato contro la Serbia durante la guerra del Kosovo, El’cin, anziano e malato, si dimise a fine dicembre 1999, lasciando l’incarico ad interim a Vladimir Putin, già primo ministro dall’agosto di quell’anno. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra cecena Putin, già agente della polizia segreta sovietica, trovò nella crisi nel Caucaso settentrionale uno strumento utile a rilanciare il ruolo della presidenza federale, proponendosi come nuovo punto di riferimento nel panorama politico-istituzionale, capace di ricostruire l’identità nazionale russa dopo un decennio di crisi. Il ritrovato sostegno dell’opinione pubblica fu sancito dall’esito delle elezioni del maggio 2000, che gli affidarono la guida del paese.
La riabilitazione della figura e della carica del presidente della Federazione Russa, ricoperta da Putin tra il 2000 e il 2008, ha avuto come effetto quello di stabilizzare il paese dal punto di vista interno e di eclissare, di fatto, il ruolo dei primi ministri. Putin ha inoltre coniato il concetto di ‘democrazia sovrana’, che postula il diritto russo di adottare una forma di democrazia diversa da quella occidentale, persino autoritaria nei suoi risvolti pratici – caratterizzati da paternalismo, centralismo e ruolo del leader. Nel 2007 Putin ha fondato un nuovo partito, Russia Unita, che alle elezioni parlamentari del 2007 ha conquistato il 70% dei seggi della Duma, sancendo l’egemonia del presidente nell’attuale scenario politico. La continuità politica alla presidenza della federazione è stata assicurata, nel 2008, con l’elezione di Dmitrij Medvedev, delfino di Putin, che ha da quel momento ricoperto il ruolo di primo ministro. Il ritorno al potere di due uomini forti – Medvedev, che dispone di maggiori prerogative istituzionali, si è infatti dimostrato capace di esercitare un certo grado di indipendenza da Putin – ha ricostituito quell’equilibrio tra capo di stato e presidenza del consiglio venuto a mancare dal 2000.
Con le elezioni legislative del dicembre 2011, il partito Russia Unita ha ribadito il suo predominio, seppur parzialmente indebolito: infatti, da una parte ha mantenuto la maggioranza ottenendo 238 seggi a fronte dei 212 dell’opposizione. Le elezioni presidenziali tenutesi il 4 marzo 2012 hanno poi visto una larga vittoria di Putin con il 63% dei voti. Ciononostante, rispetto all’elezione del 2007 e come per la Duma, la percentuale degli elettori per il candidato di Russia Unita è diminuita di circa otto punti. Contestualmente, si sono verificate significative proteste di massa e forti manifestazioni di dissenso tra l’opinione pubblica verso Putin.
Dagli anni Novanta la tendenza demografica russa registra valori negativi (– 0,40% tra il 2005 e il 2010) e il paese è sceso dai 148 milioni di cittadini del 1990 ai 140 milioni del 2010. Tale tendenza si è azzerata nel 2011. Si stima dunque che, nonostante attiri immigrati in cerca di occupazione, la Russia potrebbe affrontare una profonda crisi demografica (la popolazione potrebbe ridursi sino a 116 milioni entro il 2050), accompagnata da un progressivo invecchiamento della popolazione. Il tasso di mortalità e aumentato rispetto agli anni Novanta (15,1 su 1000 tra il 2005 e il 2010, 16 nel 2011) a causa di vari fattori, tra i quali il degrado ambientale e il peggioramento del sistema sanitario.
Inoltre, il consumo di alcol e sigarette comporta l’aumento del tasso di mortalità soprattutto tra gli uomini; nel 2005 la speranza di vita delle donne era di 72,4 anni contro i 58,9 anni degli uomini, mentre nel 2012 è cresciuta rispettivamente a 75 anni contro 63, evidenziando una controtendenza rispetto all’aumento del tasso di mortalità stesso. Mentre i tre quarti della popolazione vive nella Russia europea, in alcune zone, in particolare la Siberia e l’estremo oriente della Federazione, la densità della popolazione è molto bassa. Tale fattore potrebbe essere fonte di tensione con la Cina, dal momento che il boom demografico cinese potrebbe portare a un forte aumento dell’emigrazione cinese nell’estremo oriente russo, ricco di risorse minerarie e di opportunità di lavoro. La popolazione è composta in prevalenza da Russi (82%) e vi sono minoranze di Tatari (4%), Ucraini (3%), Chuvash (1%), Bashkir (1%), Moldavi (1%) e Bielorussi (1%). Alcune minoranze, in particolare i Ceceni e le persone provenienti dal Caucaso o dall’Asia centrale, così come i Rom e gli immigrati africani, sono sottoposte a controlli e arresti arbitrari, oltre che essere vittime di abusi da parte della polizia più degli altri gruppi etnici. La maggioranza della popolazione e di religione cristiano-ortodossa, ma solo il 5% dei russi si dichiara osservante, mentre i musulmani rappresentano la più ampia minoranza, che vive prevalentemente nel Caucaso settentrionale. Dal 2009 la Chiesa ortodossa russa è retta dal patriarca Cirillo, che rappresenta figura politica di spicco e ha grande influenza sulle altre chiese ortodosse. La libertà di religione è garantita dalla Costituzione, ma di fatto soggetta ad alcuni limiti e certi gruppi religiosi, quali i Testimoni di Geova, sono discriminati. Nel 2009 Medvedev ha infine introdotto l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche.
Di rilievo anche il numero di russi all’estero, in particolare nell’ex area sovietica: la percentuale di Russi sulla popolazione del Kazakistan è del 30%, del 28% in Estonia, del 27% in Lettonia, del 17% in Ucraina, del 13% in Bielorussia e in Moldavia, del 9% in Lituania, del 7% in Turkmenistan, del 6% in Georgia, del 2% in Azerbaigian. Il livello di istruzione è elevato, ma le successive crisi economiche hanno avuto un impatto negativo, portando a un peggioramento degli standard del sistema educativo rispetto a quelli dell’epoca sovietica. Nelle università i fondi statali arrivano a finanziare circa un terzo dei costi, coperti per il resto dalle rette degli studenti.
Secondo l’indice di democrazia stilato dall’«Economist», la Russia è un ‘regime ibrido’ posizionato al 107° posto su 167 paesi. Vi è, infatti, un fenomeno di erosione della democrazia che si manifesta in numerose fattispecie. Alle elezioni del 2008 l’Osce decise di non inviare una missione di osservatori elettorali per monitorare le elezioni, a causa degli stringenti vincoli imposti dal governo russo. Al contrario, durante le elezioni presidenziali 2012, rappresentanti dell’Osce hanno verificato se vi fossero irregolarità nel voto elettorale: gli osservatori hanno in effetti riscontrato numerosi brogli. Ciò ha fomentato le proteste di piazza, già iniziate alla vigilia delle elezioni legislative del dicembre precedente. Questa aperta manifestazione di dissenso è apparsa come un duro colpo per la solidità politica del regime e, in particolare, per la sua natura personalistica incarnata dalla figura di Putin.
Il potere giudiziario non è indipendente dall’esecutivo, i meccanismi di nomina dei giudici espongono questi ultimi a pressioni politiche e i casi di detenzioni arbitrarie e confessioni sotto tortura sono numerosi. Sebbene la Costituzione preveda la libertà di stampa, nei fatti il governo controlla direttamente o indirettamente le reti televisive, mentre giornalisti e attivisti per i diritti umani sono vittime di pressioni e violenze, volti a creare un clima di autocensura. Inoltre, una legge del 2006 ha consentito una maggiore discrezionalità alla pubblica amministrazione nella possibilità di fermare l’attività di organizzazioni non governative critiche nei confronti del governo. Infine una nuova legge promulgata nel 2012 ha ulteriormente stretto la morsa, dichiarando illegali i finanziamenti esteri alle Ong operanti in Russia. La corruzione è molto diffusa nel paese a tutti i livelli, dalla pubblica amministrazione alla polizia. Secondo Transparency International, la Russia è al 143° posto su 182 paesi nella classifica dell’indice di corruzione percepita. Il governo si è impegnato a combattere questo fenomeno varando un piano nazionale nel 2008, ma la corruzione è talmente radicata e il legame con il crimine organizzato tanto forte che una politica troppo restrittiva potrebbe creare disordini. Per quanto concerne l’indice di libertà economica la Russia è al 144° posto su 179. La tutela dei diritti di proprietà privata e di proprietà intellettuale è, infatti, debole e la giurisprudenza in materia del tutto imprevedibile; la legislazione soffre inoltre di mancanza di trasparenza e corruzione e, al contempo, vi sono vincoli sulla partecipazione estera nelle imprese e gli stranieri non possono comprare terreni, ma solo prenderli in locazione per 49 anni. Secondo il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, le misure antiterrorismo adottate dalla Russia nel 2006 vanno oltre quanto previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici poiché la definizione di terrorismo non è precisa, manca un controllo da parte del potere legislativo e giudiziario e non vi sono limiti alle deroghe ai diritti civili e politici. Il Comitato, inoltre, ha sottolineato la preoccupazione per gli abusi sui civili nell’Ossezia Meridionale durante lo svolgimento delle operazioni militari dell’agosto 2008 e per i casi di tortura, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie nel Caucaso del Nord, commessi da militari e servizi di sicurezza.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la Russia ha dovuto affrontare una profonda crisi economica (nel 1991 il pil reale scese del 12% e il deficit arrivò al 26% del pil) e la transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Il governo ha varato numerose riforme, come quella fiscale, del welfare e della proprietà privata e il processo di privatizzazione è avvenuto rapidamente negli anni Novanta, ma dal 1998 è rallentato e la liberalizzazione è rimasta incompiuta. Lo stato mantiene, infatti, il controllo dei settori chiave dell’economia quali il settore petrolifero (con l’espansione della controllata Rosneft rispetto alla Yukos), quello bancario e quello delle armi, mentre le imprese straniere giocano ancora un ruolo molto limitato nella privatizzazione. Durante la presidenza Putin, il governo si è impegnato a promuovere maggiore trasparenza e libertà economica, anche tramite la lotta agli ‘oligarchi’, un gruppo di uomini d’affari che costruirono le loro fortune negli anni Novanta; tuttavia essa si è rivelata selettiva e più mirata a ostacolare le attività di Boris Berezovsky e Vladimir Gusinsky, due uomini d’affari con influenza sui media, e di Mikhail Khodorkovsky, uno dei principali azionisti della Yukos, che sembrava sviluppare ambizioni politiche. Quest’ultimo è stato arrestato nel 2003 e condannato a otto anni di detenzione per frode ed evasione fiscale. Nel dicembre 2010 Khodorkovsky è stato nuovamente condannato per furto di petrolio insieme a Platon Lebedev, anch’egli ex azionista Yukos. La produttività agricola è diminuita rispetto all’epoca sovietica e la vulnerabilità al clima fa sì che il suolo agricolo rappresenti il 32% del totale, mentre il 45% del territorio è ricoperto da foreste che producono legname, uno dei principali beni di esportazione. L’industria estrattiva è molto sviluppata ma, in generale, la Russia ha ereditato una base industriale poco tecnologica e orientata a processi di trasformazione a basso valore aggiunto. Inoltre il tessuto industriale è costituito prevalentemente da grandi imprese, mentre servizi finanziari e turismo sono tra i principali settori del terziario. L’eredità sovietica ha lasciato una disparità tra le regioni, dal momento che la specializzazione geografica era un aspetto centrale nella pianificazione. L’industria pesante è concentrata nella Russia europea, negli Urali e sull’Artico, dove sono situate le maggiori risorse energetiche, mentre le zone agricole sono nelle regioni meridionali e di conseguenza queste ultime sono meno ricche. La sola Mosca produceva il 22% del pil nel 2008. Inoltre, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate rispetto all’epoca sovietica (nel 2007 il 20% più ricco della popolazione possedeva la meta del reddito totale russo, rispetto al 38% del 1992). L’economia russa dipende in gran parte dalla produzione e dal prezzo di gas e petrolio. Dopo la crisi del 1998, la successiva crescita economica dall’inizio del secolo è in gran parte dovuta all’aumento del prezzo del petrolio e gli idrocarburi contano per il 60% delle esportazioni, che a loro volta hanno rappresentato circa il 30% del pil nell’ultimo decennio. La Russia ha risentito della crisi economica del 2009 più di altri paesi industrializzati, registrando una contrazione del pil del 7,9%, a causa della crisi globale e del declino dei prezzi del petrolio, ma anche della guerra in Georgia e dell’improvvisa fuga di capitali. Tra le principali sfide per il governo vi è proprio la risposta alla crisi e la riduzione della dipendenza dalla volatilità del prezzo del petrolio, la diversificazione dell’economia e lo sviluppo del settore tecnologico.
Nel biennio 2010-11, l’economia russa è cresciuta annualmente del 4,1%, con una disoccupazione totale pari a circa il 6,5% e un’inflazione che si è attestata al 7%. Nel 2011 il flusso di investimenti stranieri diretti ha registrato un cospicuo incremento, così come la bilancia commerciale, che nell’ultimo decennio ha mantenuto un forte trend positivo. Il paese esporta prevalentemente idrocarburi ma, importando macchinari e beni alimentari, il tradizionale surplus commerciale si assottiglia. Nel 2010 la Russia ha creato un’unione doganale con Bielorussia e Kazakistan che è stata formalizzata come Unione Eurasiatica nel gennaio 2012. Essa è inoltre parte della Comunità economica euroasiatica (Eurasec) insieme a questi due paesi e a Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Lo scambio commerciale con le ex repubbliche sovietiche rimane tuttavia inferiore a quello con l’Unione Europea (Eu). L’Eu, che dipende dall’energia russa, è di gran lunga il maggior partner commerciale (più del 50% di interscambio russo) e il maggior investitore in Russia (con una quota del 75% degli investimenti esteri). Sempre più rilevante è inoltre l’interscambio con la Cina, che potrebbe aumentare notevolmente in conseguenza dell’avvio di esportazioni di idrocarburi. Avendo concluso accordi con Eu e Stati Uniti, la Russia è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), dopo un lungo percorso iniziato con la richiesta di adesione del 1993.
Nel 2009 la Russia è stata il terzo produttore e consumatore di energia al mondo, dopo Cina e Stati Uniti, e il primo esportatore (576.000 ktep), davanti all’Arabia Saudita (417.000) e, a grande distanza, alla Norvegia (190.000). Nello stesso anno la Russia e anche passata a detenere il primato della produzione petrolifera (10 milioni di barili al giorno), superando di poco l’Arabia Saudita, che ha contratto la propria produzione per scongiurare il ribasso dei prezzi seguito alla crisi economica. Malgrado ciò, ai ritmi di produzione attuali alla Russia rimangono riserve per soli altri 20 anni, mentre Riyad ne possiede per altri 75. Per quanto riguarda invece il gas naturale, il paese e il primo al mondo per riserve, e agli alti ritmi di estrazione attuali – è il secondo produttore al mondo, dopo gli Stati Uniti – gli restano riserve certe per 84 anni di attività. Per mantenere la posizione di preminenza nell’approvvigionamento energetico europeo e dare, al contempo, sostenibilità alla connotazione di ‘potenza energetica’, la Russia ha dunque necessità di attirare investimenti stranieri nei settori dell’esplorazione, sfruttamento e trasporto degli idrocarburi. Oltre a essere la più importante componente del mix energetico russo, il gas e anche il principale prodotto che la Russia esporta all’estero, principalmente verso l’Europa: l’85% delle esportazioni totali di gas naturale si dirigono verso il continente, arrivando ben al 94%, se nel computo e inclusa anche la Turchia. Nell’ultimo decennio tali esportazioni sono rimaste costanti, attorno ai 180 giga metri cubi (Gmc) all’anno, salvo calare a 138 Gmc all’anno nel 2009 a seguito della forte contrazione della domanda europea e mondiale di gas, che ne ha spinto il prezzo verso il basso. Ai russi è convenuto dunque continuare a onorare i contratti di fornitura in vigore con molti paesi europei, i quali fissano il prezzo del gas sul medio periodo e sono legati a clausole ‘take or pay’ (in base alle quali l’acquirente è tenuto a pagare il prezzo di una quantità minima di gas indipendentemente dal suo ritiro), ma hanno praticamente ridotto a zero le vendite di gas al dettaglio.
A fronte della stabilizzazione della domanda europea di gas, nei prossimi anni la Russia, che ricava gran parte delle rendite del suo commercio estero dall’esportazione di idrocarburi, dovrà cercare di espandere le sue relazioni con i due grandi consumatori di questa materia prima alle sue frontiere orientali: uno, già grande importatore (il Giappone), e uno potenziale e in forte crescita (la Cina). Tuttavia, sebbene in questo periodo si stiano rapidamente sviluppando le capacita mondiali di liquefazione, trasporto via nave e rigassificazione del metano, il commercio del gas naturale e ancora in massima parte rigido, legato cioè alla necessita di dover viaggiare attraverso gasdotti, i quali richiedono grossi investimenti iniziali per poter essere costruiti, e che oggi collegano la Russia quasi unicamente all’Europa. Le esportazioni di petrolio sono più che raddoppiate nell’ultimo decennio, fino a raggiungere 7,3 milioni di barili al giorno nel 2009. La fetta più grande di queste (l’80%) è diretta verso i paesi europei, il 12% verso quelli asiatici e il 3,5% verso gli Stati Uniti. La maggior parte della produzione interna è dominata dalle imprese nazionali, che al termine di un processo di privatizzazione fortemente condizionato dalla politica sono oggi poche e notevolmente concentrate. Inoltre Rosneft, impresa a conduzione statale, è attualmente il maggior produttore petrolifero del paese, mentre la penetrazione di società straniere è stata osteggiata. Queste ultime hanno perciò scelto o di ritirarsi, o di partecipare ai progetti petroliferi investendo direttamente in Rosneft. Sotto il profilo ambientale, infine, la Russia è il quarto emissore di anidride carbonica al mondo (dopo Cina, Stati Uniti e India) e il quindicesimo per emissioni pro capite. Per questo la politica energetica russa sarebbe indirizzata verso lo sviluppo del nucleare civile (si punta a raddoppiare la sua capacita di produzione di energia elettrica entro il 2030) e dell’idroelettrico, così da smarcarsi dai combustibili fossili. Tuttavia, gran parte delle 31 centrali nucleari del paese è obsoleta, e circa metà di esse si basano ancora sullo stesso tipo di reattore che provocò l’incidente di Černobyl´ nel 1986.
Una delle principali minacce alla sicurezza in Russia è quella del terrorismo legata al conflitto ceceno. Inoltre, la Russia ha una controversia territoriale ancora non risolta con il Giappone circa la sovranità sulle Isole Curili meridionali, occupate dall’Unione Sovietica nel 1945. Nella percezione di Mosca anche l’allargamento della Nato è una delle principali minacce alla sicurezza, così come il progetto di scudo spaziale nell’Europa centrale, portato avanti dall’Alleanza atlantica dopo l’abbandono da parte degli Stati Uniti dei progetti bilaterali con Polonia e Repubblica Ceca promossi dall’amministrazione Bush. Avendo interesse a garantire la stabilità della regione ex sovietica e dell’Asia centrale e a creare una partnership per la sicurezza comparabile alla Nato, la Russia ha promosso la creazione dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), accordo di difesa e sicurezza creato nell’ambito del Cis da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Inoltre, la Russia fa parte dal 1996 dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Sco) insieme a Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, la quale mira a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza e a combattere fenomeni come terrorismo, estremismo, separatismo, commercio di droga, traffico di armi e immigrazione clandestina. La Sco funge da importante forum di dialogo tra Cina e Russia in materia di sicurezza, ma non prevede delle misure di difesa come la Csto. La presidenza Putin ha cercato di rafforzare entrambe queste organizzazioni.
L’interesse russo a mantenere la stabilità e la propria influenza nell’estero vicino si manifesta in numerosi altri aspetti. Il paese possiede alcune basi militari situate prevalentemente nell’ex area sovietica (ad eccezione della base in Siria, paese con cui la Russia ha ancora forti legami), come ad esempio in Ucraina e in Tagikistan, dove i russi hanno ottenuto la proroga fino al 2042 per la gestione, rispettivamente, della base navale di Sebastopoli in Crimea e di quella terrestre di Dushanbe, la quale rappresenta la più grande base russa fuori dai confini della Federazione. La Russia ha anche concluso alcuni accordi bilaterali di difesa con le ex repubbliche sovietiche – come quello con l’Armenia, che nel 2010 è stato prorogato fino al 2044 – ed è presente nella regione anche attraverso missioni di peacekeeping nell’ambito del Cis. La volontà di mantenere il ruolo esclusivo di garante della sicurezza nello spazio già sovietico, ritagliandosi in esso margini di influenza e ingerenza, è stata dimostrata negli ultimi anni dalla ‘guerra dei cinque giorni’ (7-12 agosto 2008) contro la Georgia, che aveva tentato di riconquistare militarmente il controllo della regione separatista dell’Ossezia Meridionale, dove la Russia aveva dispiegato un proprio contingente di peacekeeping. Viceversa, la presenza nell’ambito delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite è limitata: i russi hanno inviato le proprie truppe solo nella Repubblica Centrafricana (Minurcat) e in Sudan (Unmis). Il settore militare ha risentito profondamente del crollo dell’Unione Sovietica. L’esercito, oggi composto da più di un milione di militari, ne comprendeva infatti 2,7 milioni nel 1992 e la spesa militare ha subito un forte ridimensionamento (dal 14,2% del 1989 al 3,9% del 2011). Dagli anni Novanta vi sono stati numerosi tentativi di riformare e modernizzare l’esercito, che si sono però rivelati di difficile attuazione e sono stati inadeguatamente finanziati. Nel 2008 Medvedev ha avviato una nuova riforma che dovrebbe ristrutturare l’esercito, rafforzarne l’efficacia, migliorare la formazione militare e modernizzare l’arsenale militare, stanziando 20 milioni di rubli per l’acquisto di armi tecnologicamente avanzate. Nonostante le forze convenzionali siano inferiori a quelle della Nato e a quelle cinesi, l’arsenale nucleare rimane un importante deterrente. La Russia detiene il maggiore arsenale nucleare al mondo, sebbene continui a ridurlo seguendo gli impegni in materia di disarmo posti del Trattato di non proliferazione nucleare. Era del 1991 il primo accordo Start I con gli Stati Uniti e, nel 2010, i due paesi hanno concluso il nuovo accordo Start, in base al quale si sono impegnati a ridurre i propri arsenali entro sette anni a un massimo di 1550 testate atomiche schierate.
Tra gli attori principali della scena internazionale, la Russia è con ogni probabilità quello il cui futuro appare più incerto. Erede dell’Urss, della quale ha ereditato il seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il formidabile arsenale nucleare, la Russia odierna ne ha però perduto lo status di superpotenza globale. In questo senso, lo stesso inserimento nei paesi Bric, legittimato dalla forte crescita economica nei primi anni del terzo millennio dopo la profonda crisi post-sovietica, può per certi aspetti essere considerato un dato negativo più che positivo. La stabilità politica, l’alto livello culturale, le ingenti risorse naturali (in primo luogo gas e petrolio) e la strategica posizione geopolitica tra l’Europa e l’Asia sembrerebbero garantire al paese un posto di primo piano nel mondo di domani. Tuttavia, nonostante alcuni progressi sia rispetto ai fallimentari parametri sovietici che a quelli dei rovinosi anni Novanta dello scorso secolo, la Russia fatica a risolvere i problemi fondamentali che ne ostacolano lo sviluppo nell’ambito politico come in quello economico e sociale. Non è necessario condividere la russofobia ancora presente in diversi ambienti occidentali per affermare che la dirigenza post-sovietica non è sinora riuscita a valorizzare efficacemente le risorse di questo paese, che sono enormi quanto le sue criticità. L’eccessiva dipendenza dalle fonti energetiche e l’incapacità di diversificare l’economia, la pervasiva corruzione, i forti squilibri regionali, l’irrisolta questione del Caucaso settentrionale e la perdurante crisi demografica pregiudicano seriamente le potenzialità di crescita della Russia. Il nodo cruciale sembra essere essenzialmente di carattere politico. In ampia, pur se non completa, continuità con le dinamiche sovietiche, la dirigenza russa privilegia infatti la stabilità del paese rispetto al suo sviluppo. Una stabilità che va peraltro intesa essenzialmente come controllo della società, a partire dalla stessa forma politica affermatasi a partire dalla prima presidenza di Vladimir Putin, un autoritarismo ufficialmente definito ‘democrazia guidata’. È interessante notare come quasi tutti i punti di forza della Russia presentino un rovescio della medaglia così accentuato che per alcuni aspetti paiono essere di ostacolo più che di giovamento allo sviluppo. In particolare, la stabilità politica tende a divenire stagnazione, mentre la ricchezza di risorse energetiche innesca dinamiche di corruzione dell’apparato statale e di inerzia nell’affrontare le necessarie riforme economiche. Il quadro generale del paese è dunque fortemente in chiaroscuro. In sostanza, il problema principale della Russia post-sovietica è costituito dalla perdurante difficoltà di innestare un processo di efficace modernizzazione politica ed economica, che riesca realmente a metterla al passo con le realtà più avanzate del nostro tempo. Questa situazione potrebbe avere conseguenze estremamente serie perché la Russia deve confrontarsi con competitori che appaiono molto più dinamici. Soprattutto la vitalità economica e demografica della Cina costituisce una sfida cruciale, in particolare per quel che riguarda le regioni siberiane, ricchissime di materie prime, ma scarsamente popolate. Se i rapporti tra questi due paesi sono per il momento positivi sia nell’ambito politico che in quello economico, la crescita dello squilibrio esistente già adesso tra loro è foriero di scenari molto preoccupanti per Mosca. In questa ottica, il consolidamento dei rapporti politici ed economici con l’Occidente, in primo luogo con l’Unione Europea, resta la linea principale delle strategie russe. Il destino della Russia appare quindi in bilico tra due scenari fortemente contrastanti: da un lato una prospettiva di crescita che potrebbe portarla definitivamente ai vertici della scena politica ed economica internazionale, dall’altro una parabola di declino e di sostanziale marginalizzazione. Il futuro del paese si gioca in gran parte sul successo del progetto di modernizzazione che la dirigenza russa riuscirà a realizzare nei prossimi anni. L’idea del presidente Dmitrij Medvedev che tale processo debba accordarsi alla storia e alla particolarità della Russia appare senz’altro condivisibile, a patto però che si riesca a realizzarlo in maniera realmente efficace e in tempi ragionevolmente brevi.
Le due guerre russo-cecene si inquadrano nei più ampi processi innescati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dalla lotta per l’indipendenza dall’Urss prima, e dalla Federazione Russa poi, delle repubbliche caucasiche. Nel novembre 1991, contestualmente al conseguimento dell’indipendenza delle tre Repubbliche Socialiste Sovietiche del Caucaso meridionale (Armenia, Azerbaigian e Georgia), la Repubblica Cecena di Ichkeria che, assieme all’Inguscezia, beneficiava dello status di repubblica autonoma – proclamava la propria indipendenza da Mosca. Tale atto diede origine a un conflitto con le autorità federali – preoccupate del possibile ‘effetto domino’ della secessione cecena – che, con diversi livelli di intensità, è durato fino al 2000, generando strascichi visibili ancor’oggi. Il personaggio principale del primo periodo di esistenza della Repubblica di Ichkeria fu Džochar Dudaev, prima generale dell’aviazione sovietica, poi guerrigliero indipendentista ceceno e infine presidente della autoproclamata Repubblica fino al 1996, anno della sua uccisione da parte dell’aviazione russa. Nel 1993 il Parlamento ceceno tentò di sfiduciare Dudaev; per anticiparlo, Dudaev dissolse l’assemblea e decise da quel momento di governare in maniera autoritaria. La formazione di un movimento di guerriglia ostile a Dudaev, finanziato e sostenuto da Mosca, sfociò nella prima guerra russo-cecena (dicembre 1994 – agosto 1996), durante la quale i russi occuparono Groznyj. Nonostante la morte di Dudaev, la controffensiva dei guerriglieri ceceni spinse nuovamente i russi a negoziare un cessate il fuoco e a ritirarsi dalla regione. Il fallito tentativo di riannessione, con la morte di più di 5700 militari russi (a fronte di circa 17.300 morti ceceni), costituì un grave colpo per la coscienza nazionale russa. Tra il 1996 e il 1999 la Cecenia fu preda di una lunga guerra civile che portò la regione al collasso economico, mentre la violenza politica si confondeva con l’estremismo religioso. Il governo di Aslan Maschadov, uno degli artefici della vittoria della prima guerra e presidente della Cecenia tra il 1997 e il 2000, non riuscì a impedire che i signori della guerra stabilissero il loro controllo su vaste porzioni di territorio. Proprio le azioni di una di queste fazioni, la Brigata islamica internazionale, costituì il casus belli della seconda guerra russo-cecena (1999-2000). Nell’agosto 1999 la Brigata invase il vicino Daghestàn, a sostegno dei separatisti della regione, mentre in ottobre una serie di attentati dinamitardi in alcune città russe provocava 293 morti. Putin, allora primo ministro, decise di invadere nuovamente la Cecenia, promettendo all’opinione pubblica russa una vittoria rapida e decisiva. Le principali operazioni di guerra si svolsero tra l’ottobre 1999 e il maggio 2000: quando i russi rientrarono a Groznyj al termine di un assedio devastante, un quarto della popolazione dell’intera Cecenia era sfollata. Dal maggio 2000 il governo federale ha lanciato una nuova operazione destinata a colpire la guerriglia che era andata riorganizzandosi, mentre dal 2003 la nuova Costituzione cecena assicurava al paese un ampio grado di autonomia. Gli attentati perpetrati della guerriglia separatista, tanto in Cecenia che in Russia, non si sono tuttavia fermati: nel 2002 la crisi degli ostaggi del Teatro Dubrovka di Mosca ha causato la morte di almeno 170 persone, mentre nel 2004 un altro confronto tra guerriglieri e forze di sicurezza in una scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, ha provocato più di 385 vittime.
L’attuale interdipendenza energetica tra Russia ed Europa, regioni rispettivamente esportatrice e importatrice di risorse energetiche, ha trasformato una parte dei paesi europei fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica (Bielorussia e Ucraina) o facenti parte dell’ex Patto di Varsavia (Polonia) in stati di transito per gasdotti e oleodotti diretti verso ovest. Sebbene il greggio possa essere trasportato anche attraverso petroliere, il commercio del gas è infatti ancora in vasta misura ‘rigido’, legato cioè alla sua trasmissione attraverso gasdotti. La posizione strategica di questi paesi (sommata, in alcuni casi, agli storici legami con l’ex Urss) ha dunque permesso loro di strappare prezzi minori rispetto a quelli di mercato. Malgrado ciò, la loro pressoché totale dipendenza dalle importazioni energetiche, e in primo luogo di gas, dalla Russia ha permesso a Mosca di utilizzare la minaccia o l’effettivo blocco delle forniture per spingere verso la risoluzione alcune tra le vertenze (in larga parte commerciali, ma dai risvolti spesso politici) che fino a quel momento rimanevano irrisolte. L’utilizzo politico della minaccia dell’interruzione delle forniture è stato un tratto costante delle politiche russe dell’ultimo decennio, tanto da aver aumentato il senso di insicurezza energetica dei paesi dell’Europa occidentale, che vedono minacciata la stabilità dei loro approvvigionamenti. Il progressivo indebitamento dei paesi clienti – e in particolar modo di quelli dell’Europa centro-orientale – è stato, inoltre, spesso ripianato da questi attraverso la cessione della propria rete infrastrutturale alle compagnie russe. Per tale motivo, i due grandi progetti infrastrutturali che dovrebbero collegare l’Europa alla Russia hanno di fatto l’obiettivo di evitare i paesi con cui è più probabile che nascano nuove controversie in futuro. Da una parte, infatti, il Nord Stream, che dovrebbe divenire operativo entro la fine del 2012, scavalcherà Bielorussia e Polonia attraverso il Baltico; dall’altra il South Stream, atteso per il 2015, potrebbe aggirare l’Ucraina (dalla quale oggi transita circa l’80% del gas diretto in Europa occidentale), passando per il Mar Nero. La capacità teorica di questi gasdotti – di 137 miliardi di metri cubi di gas all’anno – garantirebbe alla Russia una posizione di assoluta dominanza dell’approvvigionamento di gas europeo. I nuovi gasdotti sarebbero dunque in grado di assicurare all’Europa occidentale una continuità di approvvigionamenti anche in caso di interruzioni di fornitura ai paesi dell’Europa orientale. Ciò apre tuttavia il campo a conseguenze anche negative. Oltre ad approfondire la dipendenza energetica europea dalla Federazione Russa, quest’ultima disporrà infatti di maggior spazio di manovra nell’utilizzo delle leve energetiche nei confronti dei paesi dell’Europa orientale, la cui sicurezza energetica non sarà più legata a doppio filo a quella dei loro vicini occidentali.
Uno degli obiettivi principali della Carta del Cis, la Comunità degli stati indipendenti, è quello di mantenere la pace e la sicurezza nella regione. Essa prevede che in caso di minaccia alla sovranità, alla sicurezza e all’integrità territoriale di uno stato membro, o di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, possano essere prese alcune misure, tra cui le operazioni di peacekeeping. Queste ultime sono decise dal Consiglio dei capi di stato del Commonwealth col consenso delle parti in conflitto e subito comunicate al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Esse possono essere avviate solo dopo aver raggiunto un accordo di cessate il fuoco. Il compito delle missioni di peacekeeping è poi quello di monitorare l’attuazione dell’accordo per il cessate il fuoco, di creare le condizioni per la negoziazione di una risoluzione pacifica del conflitto e per la restaurazione della legalità e dell’ordine, e infine di controllare le zone di responsabilità delle parti e le zone demilitarizzate. Dal 1991 le missioni di peacekeeping del Cis sono state inviate in Abcasia, Ossezia Meridionale, Moldavia e Tagikistan. Di fatto si tratta di missioni di peacekeeping svolte da personale solo russo e non multinazionale come quello delle missioni delle Nazioni Unite. Inoltre, pur essendo l’eredità sovietica nei paesi destinatari un elemento di potenziale successo per le truppe russe, il fatto che la Russia abbia interessi economici e strategici nei paesi dove svolge le missioni getta una pesante ombra sull’imparzialità che dovrebbe essere propria delle missioni di peacekeeping, che in questo caso finiscono per rappresentare, piuttosto, uno strumento di ingerenza negli affari interni delle repubbliche dell’estero vicino. Inoltre, il fatto che la Russia abbia progressivamente sostenuto il percorso secessionistico delle regioni separatiste nelle quali ha dispiegato truppe di peacekeeping, riconoscendone in alcuni casi l’autoproclamata sovranità (Abcasia e Ossezia Meridionale), determina un solco profondo tra la concezione russa del peacekeeping e quella propria dei maggiori meccanismi di cooperazione alla sicurezza internazionale.