Vedi Russia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Con un territorio che si estende per oltre 17 milioni di chilometri quadrati, da San Pietroburgo a Vladivostok, la Federazione Russa è uno stato dalle dimensioni continentali, il più vasto al mondo, delimitato a N dal Mar Glaciale Artico; a O da Norvegia, Finlandia, Mar Baltico, Estonia, Lettonia, Bielorussia (l’exclave di Kaliningrad confina con Mar Baltico, Lituania e Polonia); a SO da Ucraina e Mar Nero; a S da Georgia, Azerbaigian, Mar Caspio, Kazakistan, Cina, Mongolia, di nuovo Cina, Corea del Nord; a E dall’Oceano Pacifico. La contiguità geografica con l’Europa, le regioni caucasiche, l’Asia centrale e l’Estremo Oriente, così come la sua evoluzione storico-politica, hanno reso la Russia uno degli attori più rilevanti del sistema internazionale. Si tratta di uno stato composito e dalle caratteristiche imperiali, nel quale un centro forte ha da sempre esercitato il controllo su periferie deboli ed eterogenee, spesso animate da istanze indipendentiste. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’Impero russo è giunto a competere con quello britannico per il predominio sul Medio Oriente e sull’Asia centro-meridionale. I gravi problemi politici ed economici di uno stato ancora prevalentemente agricolo, combinati con la vastità del territorio, furono tra le cause delle sconfitte militari (nel 1905 contro il Giappone e nel 1917 durante la Prima guerra mondiale) che avrebbero contribuito alla caduta dello zar, alla presa del potere dei comunisti (bolscevichi) nell’ottobre 1917 e alla costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) nel 1922. L’Urss si trasformò ben presto in uno stato totalitario: riorganizzò nella forma istituzionale la gestione del potere, ma conservò nei fatti molti tratti imperiali. Elemento di novità rispetto all’epoca zarista fu la strutturazione su base federale, la quale, se è vero che non impedì la centralizzazione del potere da parte del Partito Comunista (Pcus), avrebbe giocato un ruolo fondamentale nelle dinamiche di disgregazione dell’Urss. Nello stesso periodo l’ideologia comunista, con le sue aspirazioni egalitarie e rivoluzionarie, si diffuse e si radicò anche in Europa, mentre all’interno del paese l’industrializzazione forzata e il riarmo militare dotarono l’Urss di basi economiche più salde rispetto al passato e di uno degli eserciti più forti al mondo. Nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, l’Armata rossa occupava circa metà del continente europeo. La conseguente rapida divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi ideologici, economici e militari contrapposti, egemonizzati da quelle che sarebbero state definite ‘superpotenze’ (Usa e Urss), diede inizio a un periodo di rivalità noto come Guerra fredda, caratterizzato dalla costante minaccia (e reciproca dissuasione) nucleare. Il blocco sovietico si organizzò militarmente attorno al Patto di Varsavia (1955-91), che includeva l’Unione Sovietica e molti stati europei orientali e che sarebbe durato fino alla dissoluzione dell’Urss. La fine dell’Unione Sovietica e del bipolarismo ebbero luogo molto rapidamente, tra il 1989 e il 1991: al collasso economico dell’Urss seguì la sua frammentazione politica. L’Unione Sovietica fu formalmente dissolta nel dicembre 1991 e si disgregò in 14 nuovi stati indipendenti tra Europa (Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina e Moldavia), Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia) e Asia Centrale (Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan) più la Federazione Russa. I paesi satellite, invece, si ritirarono dal Patto di Varsavia. La transizione dal sistema economico sovietico, centralizzato e pianificato, a un’economia fondata sui principi del libero mercato provocò pesanti squilibri, culminati nel collasso finanziario dell’estate del 1998. La complessità della transizione – che fu contemporaneamente ideologica, politica, economica ed è tuttora incompiuta – ha lasciato sul campo contraddizioni e numerosi problemi. Tra gli altri, la concentrazione oligarchica del potere economico e politico convive con una povertà ancora diffusa tra la popolazione: il pil pro capite è di 23.700 dollari, ma almeno 18 milioni di russi vivono sotto la soglia di povertà. Persistono i problemi di instabilità alle frontiere, in particolare quelle con le regioni del Caucaso settentrionale e, da ultimo, quella con l’Ucraina, in seguito alla crisi scoppiata nel novembre 2013 che ha portato all’annessione unilaterale della penisola della Crimea alla Russia e alle operazioni militari nelle regioni orientali e meridionali del paese.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la Federazione Russa è stata lentamente reinserita nelle istituzioni internazionali che sostengono il sistema economico globale: nel 1992 la Russia ha fatto il suo ingresso nel Fondo monetario internazionale (Imf) e nella Banca mondiale (Wb); nel 1997 è stata formalmente accolta nel G8 (per poi esserne esclusa con lo scoppio della crisi in Ucraina nel novembre 2013), mentre nell’agosto 2012, dopo quasi diciotto anni di negoziazioni, è divenuta membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Lo stesso percorso non è stato invece seguito in materia di cooperazione e di sicurezza: la Russia ha continuato a guardare con estrema diffidenza al progressivo allargamento della Nato ai paesi dell’Europa Orientale, in particolare ai paesi baltici e alla Polonia, considerandolo una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Il ‘disallineamento’ tra cooperazione economica e sicurezza si spiega con il concetto russo delle relazioni regionali. La classe dirigente e parte dell’opinione pubblica considerano il territorio che faceva parte dell’Unione Sovietica (e, spesso, anche dell’Impero) come uno spazio di naturale proiezione e di influenza russa, all’interno del quale nessun altro stato ha diritto di ingerenza. Non a caso, le repubbliche ex sovietiche vengono fatte rientrare dai russi nella categoria di ‘estero vicino’ (blizhneye zarubezh’e): Mosca si è posta, fin dai primi anni Novanta, alla guida di questo spazio attraverso meccanismi di cooperazione politica, economica e di sicurezza, primo tra tutti la Comunità degli stati indipendenti (Csi). La Csi avrebbe dovuto, nelle intenzioni del Cremlino, raccogliere in parte il testimone della dissolta Urss, scongiurando spinte centrifughe delle repubbliche che un tempo ne facevano parte. A partire dallo scoppio delle cosiddette ‘rivoluzioni colorate’ in Georgia nel 2003, in Ucraina nel 2004 e in Kirghizistan nel 2005 – rivoluzioni che hanno portato nei primi due paesi forze dichiaratamente filo-europeiste a rovesciare i governi precedenti – la Csi è apparsa però incapace di affermarsi come un’efficiente e incisiva organizzazione d’integrazione regionale. Di fronte alla debolezza della Csi, ma soprattutto di fronte alla consapevolezza della sempre maggiore attrattività per i paesi dell’estero vicino del modello di integrazione europea, il presidente Putin ha ufficializzato nel 2011 l’avvio dell’ambizioso progetto di Unione Eurasiatica. Il progetto, teso a una ricomposizione regionale sotto l’egida di Mosca e finalizzato a proporre un modello istituzionale credibile e alternativo a quello europeo-occidentale, è un obiettivo prioritario della politica estera russa. A oggi ha portato alla nascita prima di una Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan e, dal 1° gennaio 2015, alla trasformazione di quest’ultima in una più istituzionalizzata Unione economica eurasiatica di cui sono entrati a far parte anche l’Armenia e il Kirghizistan. La crisi ucraina scoppiata nel novembre 2013 e tuttora lungi dall’essere risolta, però, rischia di diminuire le probabilità di successo del progetto a causa della difficoltà nel contesto attuale di ipotizzare la membership di Kiev, fin dall’inizio considerata dal Cremlino fondamentale per la credibilità dell’Unione.
In un contesto di crescenti tensioni tra la Russia e alcuni paesi post-sovietici fin dagli inizi degli anni Novanta, la crisi ucraina – soprattutto a seguito dell’annessione della penisola di Crimea alla Russia nel marzo 2014 e al supporto militare di Mosca alle forze separatiste nelle regioni sud-orientali del paese – è all’origine del più serio deterioramento delle relazioni tra la Russia e l’Occidente dalla fine della Guerra fredda. Dopo la dissoluzione dell’Urss, le tensioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti erano emerse in più occasioni, in particolare a causa del conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008; ma la cooperazione tra Mosca e l’Occidente, in particolare nella lotta al terrorismo internazionale e nei negoziati per il disarmo nucleare, aveva limitato le ripercussioni di crisi regionali. Le relazioni con Washington hanno poi vissuto ulteriori momenti di tensione legati in particolar modo, oltre che all’allargamento della Nato, alle operazioni militari condotte in Serbia e Kosovo nel 1999 e a una retorica che, specie nell’era di George W. Bush (2001-08), faceva continuo riferimento al periodo del confronto bipolare. Dal 2009, sotto la presidenza statunitense di Barack Obama, i due paesi hanno puntato al raggiungimento di un accordo sulla riduzione delle armi nucleari, sancito nell’aprile 2010 dal trattato New Start. Si è assistito, tuttavia, a un nuovo irrigidimento delle relazioni in seguito all’annuncio del dispiegamento dello scudo missilistico della Nato, che ha acuito le storiche paure russe per la propria sicurezza per poi arrivare a un confronto diretto e alla sospensione delle iniziative comuni.
In politica estera – e questo nonostante la crisi ucraina e il conseguente raffreddamento delle relazioni con l’Occidente – la Russia ha assunto negli ultimi anni un ruolo centrale sia nei negoziati sul nucleare iraniano, conclusisi con il raggiungimento di un accordo nel luglio 2015, sia in Siria, dove Mosca nel settembre 2015 è intervenuta militarmente ponendosi a capo di una coalizione di paesi alternativa a quella a guida statunitense. Con quello che è il primo intervento militare diretto e ufficiale della Russia in Medio Oriente dalla fine della Guerra fredda, Mosca non persegue solo lo stesso obiettivo della comunità internazionale, ossia la lotta contro l’Is. Il suo intento è anche quello di offrire un sostegno decisivo al presidente siriano Bashar al-Assad nella guerra civile in corso nel paese dal 2011. La posizione presa dalla Russia è per questo motivo di nuove tensioni con le potenze occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, che sostengono invece alcune delle forze ribelli contro il presidente.
In generale, l’immagine della Russia come partner relativamente affidabile (oltre che strategico) è stata minata in maniera duratura e Mosca si è in maniera crescente rivolta alla cooperazione con la Cina. La Cina è storicamente guardata da Mosca con parziale diffidenza: come un importante partner economico e allo stesso tempo come una minaccia alla tradizionale influenza russa sull’Asia Centrale e alla riaffermazione dello status di grande potenza messo in crisi dopo il crollo dell’Urss. Proprio il tentativo di contenere la spinta espansionistica cinese è alla base della cooperazione regionale tra Mosca e Pechino attraverso l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) che, fondata nel 1996, comprende anche le repubbliche centroasiatiche con l’eccezione del Turkmenistan. D’altra parte, le opportunità economiche – tanto più se considerato il rapido peggioramento della situazione economica russa a seguito dell’imposizione di diverse misure sanzionatorie da parte dell’Occidente – hanno portato nel 2014 alla firma di importanti accordi nel settore energetico.
La Costituzione della Federazione Russa, adottata nel dicembre 1993, delinea una repubblica semi-presidenziale a struttura federale: il presidente è eletto a suffragio universale diretto e nomina il primo ministro, che deve però godere anche della fiducia del parlamento. Il presidente non può essere eletto per più di due volte consecutive e il suo mandato, in seguito a una riforma entrata in vigore dalle elezioni del 2012, è stato esteso da quattro a sei anni.
Il parlamento federale ha struttura bicamerale e consiste nella ‘Duma’ (la Camera bassa), composta da 450 deputati ed eletta a suffragio universale ogni quattro anni, e nel Consiglio federale, costituito da 166 senatori eletti in maniera indiretta dalle assemblee locali – due per ciascuno dei diversi soggetti che compongono la Federazione. Negli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris El’cin (1991-99), la Russia dovette affrontare una grave frammentazione politica interna. Tra il 1993 e il 1999 nessun partito riuscì a formare una maggioranza stabile e quasi la metà delle leggi approvate in questo periodo provenivano da proposte governative. El’cin fu costretto a opporre il veto presidenziale su un quinto delle leggi approvate dall’aula e continuò a governare per decreto. Ritenuto responsabile del collasso finanziario del paese nel 1998 e di non essere riuscito a scongiurare i bombardamenti Nato contro la Serbia durante la guerra del Kosovo, El’cin, anziano e malato, si dimise a fine dicembre 1999, lasciando l’incarico ad interim a Vladimir Putin, già primo ministro dall’agosto di quell’anno. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra cecena, Putin, già agente della polizia segreta sovietica, trovò nella crisi nel Caucaso settentrionale uno strumento utile a rilanciare il ruolo della presidenza federale, proponendosi come nuovo punto di riferimento nel panorama politico-istituzionale e come leader capace di ricostruire l’identità nazionale russa dopo un decennio di crisi. Il ritrovato sostegno dell’opinione pubblica fu sancito dall’esito delle elezioni del maggio 2000, che gli affidarono la guida del paese.
La riabilitazione della figura e della carica del presidente della Federazione Russa, ricoperta da Putin tra il 2000 e il 2008, ha avuto come effetto quello di stabilizzare il paese dal punto di vista interno e di eclissare, di fatto, la figura del primo ministro. La visione politica di Putin è spesso associata al concetto, elaborato da ideologi russi, di ‘democrazia sovrana’, che postula il diritto russo di adottare una forma di democrazia diversa da quella occidentale, persino autoritaria nei suoi risvolti pratici, caratterizzati da paternalismo, centralismo e da un leader carismatico. Nel 2007 Putin ha fondato un nuovo partito, ‘Russia unita’, che alle elezioni parlamentari del 2007 ha conquistato il 70% dei seggi della Duma, sancendo l’egemonia del presidente nell’attuale scenario politico. La continuità politica alla presidenza della Federazione è stata assicurata, nel 2008, con l’elezione a presidente di Dmitrij Medvedev, delfino di Putin, il quale ha da quel momento ricoperto il ruolo di primo ministro non potendo essere rieletto a causa del limite costituzionale dei due mandati consecutivi. Con l’arrivo al potere di Medvedev – che disponendo di maggiori prerogative istituzionali si è dimostrato in grado di esercitare, soprattutto all’inizio, un certo grado di indipendenza da Putin, con cui non sono mancati i dissensi – si è ricostituito per un certo periodo quell’equilibrio tra capo di stato e presidenza del consiglio venuto a mancare dal 2000.
Con le elezioni legislative del dicembre 2011, il partito ‘Russia unita’ ha ribadito il suo predominio, seppur parzialmente indebolito: ha mantenuto la maggioranza ottenendo 238 seggi a fronte dei 212 delle forze d’opposizione. Le elezioni presidenziali tenutesi il 4 marzo 2012 hanno nuovamente registrato una larga vittoria di Putin con il 63% dei voti, dando avvio al suo terzo mandato. Ciononostante, rispetto all’elezione del 2007 e come per la Duma, la percentuale degli elettori per il candidato di ‘Russia unita’ è diminuita di circa otto punti. Contestualmente, sono scoppiate proteste di massa contro la leadership di Putin, che tuttavia non hanno assunto la forma di gruppi politici d’opposizione organizzati.
Negli ultimi decenni la tendenza demografica ha spesso registrato valori negativi (-0,4% tra il 2005 e il 2010). Il paese è sceso dai 148 milioni di cittadini del 1990 ai 140 milioni del 2010. Si stima che, nonostante attiri immigrati in cerca di occupazione, la Russia potrebbe affrontare una profonda crisi demografica (la popolazione potrebbe ridursi a 116 milioni entro il 2050), accompagnata da un progressivo invecchiamento. Con l’annessione unilaterale della Crimea, la popolazione russa aumenterebbe potenzialmente di 2,3 milioni di persone. Il tasso di mortalità è aumentato rispetto agli anni Novanta (15,1 persone su mille tra il 2005 e il 2010, 8,9 nel 2012) per diversi fattori, tra i quali il degrado ambientale e il peggioramento dell’obsoleto sistema sanitario. Inoltre, il consumo di alcol e sigarette è un fattore che sembra avere avuto un forte impatto sulla differenza tra l’aspettativa di vita maschile e quella femminile: nel 2012 quest’ultima arrivava a 76 anni, mentre la prima si fermava a 65. Una legge restrittiva del consumo di sigarette, sul modello europeo, è stata adottata nel 2013.
Mentre i tre quarti della popolazione vive nella Russia europea, in alcune zone, in particolare la Siberia e l’Estremo Oriente della federazione, la densità della popolazione è molto bassa (fino a 1 persona per chilometro quadrato). Sebbene non ci siano proiezioni univoche sul tema, tale fattore è considerato da diversi anni una delle possibili future fonti di tensione con Pechino, dal momento che il boom demografico cinese potrebbe determinare in teoria un aumento dell’emigrazione verso l’estremo oriente russo, regione confinante con la Cina e ricca di risorse minerarie.
La popolazione della Federazione Russa è composta in prevalenza da russi (82%), tatari (4%), ucraini (3%), ciuvasci (1%), bashkiri (1%), moldavi (1%) e bielorussi (1%). La maggioranza della popolazione è di religione cristiano-ortodossa, ma solo il 5% dei russi si dichiara osservante, mentre i musulmani vivono prevalentemente nel Caucaso settentrionale e nella Repubblica autonoma del Tatarstan. Dal 2009 la chiesa ortodossa russa è retta dal patriarca Cirillo, figura politica di spicco che esercita una grande influenza sulle altre chiese ortodosse. La libertà di religione è garantita dalla Costituzione, ma di fatto è soggetta ad alcuni limiti. Particolari gruppi religiosi, come i testimoni di Geova, che vengono considerati sette religiose, sono discriminati. Nel 2009 l’allora presidente Medvedev ha introdotto l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, decisione che è tuttora contestata da una parte della società civile.
Il numero di russi all’estero è elevato, concentrato in particolare in alcuni paesi un tempo appartenenti all’Urss: in Kazakistan e in Estonia vi è la concentrazione in percentuale maggiore di russi (circa il 15%) nell’ex blocco sovietico, anche se in termini assoluti la comunità maggiore è quella residente in Ucraina.
Il livello di istruzione è elevato, ma la successione di crisi economiche ha avuto un impatto negativo e ha peggiorato gli standard educativi rispetto all’epoca sovietica. Nelle università i fondi statali arrivano a finanziare circa un terzo dei costi, coperti per il resto dalle rette degli studenti.
Nel novembre 2013, per tre anni fino a fine 2016, la Russia è entrata a far parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, assieme a Cina, Arabia Saudita e Cuba, secondo un orientamento che privilegia l’inclusione di partner importanti, benché poco credibili rispetto a una tematica delicata come quella del rispetto dei diritti umani. L’obiettivo è evidentemente indurre per questa via un miglioramento della loro situazione politica interna. In occasione dell’ammissione al Consiglio, il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite, Vitalij Čurkin, ha annunciato che le priorità della Russia riguarderanno la lotta contro il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza.
Il seggio ottenuto si scontra con la realtà di una nazione che è stata nell’occhio del ciclone nel giugno 2013 per una legge approvata all’unanimità dai 436 deputati della Duma, con un solo astenuto, e che promuove misure repressive contro gli omosessuali. La norma punisce la promozione di «orientamenti sessuali non tradizionali» presso i minori di 18 anni e prevede multe pecuniarie elevate per chi è giudicato responsabile di «propaganda omosessuale». Lo stesso Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva sottolineato la preoccupazione per gli abusi sui civili nell’Ossezia meridionale, in Georgia, durante le operazioni militari dell’agosto 2008 e aveva denunciato i casi di tortura, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie nel Caucaso del nord, commessi da militari e personale dei servizi di sicurezza.
Più in generale, secondo l’indice di democrazia stilato dal settimanale britannico The Economist, la Russia rientrerebbe tra i cosiddetti «regimi ibridi», al 107° posto su 167 paesi. Il momento elettorale resta delicato e non del tutto trasparente: alle elezioni del 2008 l’Osce decise di non inviare una missione di osservatori elettorali per monitorare le elezioni, per gli stringenti vincoli imposti dal governo russo. Durante le presidenziali del 2012, i rappresentanti dell’Osce hanno riferito di numerosi brogli.
Nonostante il funzionamento del sistema giudiziario sia molto migliorato dalla fine dell’Unione Sovietica ad oggi, spesso il principio di indipendenza del potere giudiziario, soprattutto nel caso di processi di rilevanza politica, non è garantito. La piena libertà di stampa, sebbene sancita dalla Costituzione, nei fatti è ostacolata e limitata, e il paese risulta 180esimo su 197 nell’indice sulla libertà di stampa di Freedom House. Il governo controlla direttamente o indirettamente le reti televisive, mentre giornalisti e attivisti per i diritti umani sono vittime di pressioni e violenze, tanto da alimentare in molti casi l’autocensura. Secondo le statistiche 2015 del Committee to Protect Journalists (Cpj), la Russia è decima al mondo per numero di omicidi di giornalisti rimasti impuniti. Il caso più noto in Occidente è quello della giornalista Anna Politkovskaja, autrice di numerosi reportage sulle violenze commesse dalla Russia in Cecenia. Una legge del 2006 ha consentito una maggiore discrezionalità per la pubblica amministrazione nell’ostacolare l’attività di organizzazioni non governative critiche nei confronti del governo e una legge del 2012 ha ulteriormente aggravato la situazione, dichiarando illegali i finanziamenti esteri alle ong operanti in Russia, e costringendole a registrarsi come «agenti esteri». Con l’annessione della Crimea, l’isolamento politico della Russia ha portato all’irrigidimento della propaganda statale e a ulteriori restrizioni sulla libertà di stampa. Recentemente è stata approvata la legge che sancisce il divieto di partecipazioni straniere nei media russi, cui hanno fatto seguito diverse decisioni governative volte a limitare o sanzionare quotidiani e siti di informazione nazionali per aver espresso posizioni non considerate accettabili dal Cremlino.
La corruzione è tradizionalmente diffusa nella pubblica amministrazione e negli organi di polizia: negli studi di Transparency International, la Russia è al 136° posto su 175 paesi nell’indice di corruzione percepita. Il governo si è formalmente impegnato a combattere il fenomeno in più occasioni, varando tra gli altri un piano nazionale nel 2008: ma la corruzione sembra talmente radicata e il legame con il crimine organizzato così forte che una politica troppo restrittiva potrebbe provocare disordini. Per quanto concerne l’indice di libertà economica, la tutela dei diritti di proprietà privata e di proprietà intellettuale è debole e la giurisprudenza in materia il più delle volte imprevedibile; la legislazione soffre inoltre di mancanza di trasparenza, vi sono vincoli sulla partecipazione estera nelle imprese e gli stranieri non possono comprare terreni, ma solo prenderli in locazione per 49 anni.
Rispetto al 2014, la Russia ha visto nel 2015 un calo del pil del -3,8% e un netto peggioramento delle previsioni di crescita nel prossimo biennio. Dopo anni di dati macroeconomici positivi (escludendo il 2008, anno della crisi globale), le ragioni di tale scenario di recessione sono dovute sia ad aspetti strutturali sia a fattori contingenti. In effetti, alla complessità di una transizione economica tuttora incompiuta, a un’eccessiva dipendenza dal settore energetico e a forti carenze infrastrutturali, produttive e di sviluppo, si aggiungono le forti ricadute del crollo del prezzo del petrolio nel 2015 e delle sanzioni settoriali imposte dall’Occidente alla Russia a causa delle tensioni in Ucraina.
Dopo il crollo dell’Urss nel 1991, il pil reale della Russia scese del 12% e il deficit arrivò al 26% del pil: una profonda crisi economica accompagnò la transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Nonostante le numerose riforme varate, come quella fiscale, del welfare e della proprietà privata, nonché un processo di privatizzazione avvenuto rapidamente negli anni Novanta, la crisi economica del 1998 ha rallentato questi processi e la liberalizzazione è rimasta incompiuta.
Lo stato mantiene il controllo dei settori trainanti dell’economia, in primis quello petrolifero (si pensi all’espansione della controllata Rosneft rispetto alla Yukos), ma anche quello bancario e degli armamenti. A partire dalla prima presidenza Putin del 2000, il governo si è impegnato a promuovere maggiore trasparenza e libertà economica, anche tramite la lotta agli ‘oligarchi’, un gruppo di uomini d’affari che costruirono le loro fortune negli anni Novanta. La campagna si è tuttavia rivelata selettiva e mirata a ostacolare le attività di Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij (due uomini d’affari con influenza sui media) e di Michail Khodorkovskij, uno dei principali azionisti della Yukos, che sembrava avere ambizioni politiche. Quest’ultimo è stato arrestato nel 2003 e condannato a otto anni di detenzione per frode ed evasione fiscale. Nel dicembre 2010 Khodorkovskij è stato nuovamente condannato per furto di petrolio assieme a Platon Lebedev, anch’egli ex azionista Yukos. Entrambi sono stati scarcerati rispettivamente nel dicembre 2013 e nel febbraio 2014. L’arresto di Yevtushenko, numero 15 nella lista ‘Forbes Russia’ e proprietario del colosso ‘Sistema’, è stato letto come sintomo della presa autoritaria e della volontà da parte del governo di un maggiore controllo sull’economia.
Le esportazioni di gas e petrolio sono tradizionalmente una componente essenziale della bilancia commerciale della Federazione Russa, secondo una tendenza che nell’ultimo decennio è andata rafforzandosi, fino ad arrivare a costituire più del 67,1% del pil nazionale. Ridurre la dipendenza dall’estrazione ed esportazione di materie prime in favore della diversificazione della produzione industriale rappresenta la principale sfida dell’economia della Russia. Dopo la crisi del 1998, la successiva crescita economica è stata, in effetti, in gran parte dovuta all’aumento esponenziale del prezzo del petrolio. Gli idrocarburi hanno rappresentato circa il 30% del pil del paese nell’ultimo decennio. In anni in cui il prezzo delle materie prime è cresciuto esponenzialmente, il modello di sviluppo del paese teoricamente orientato verso privatizzazioni, liberalizzazioni, investimenti e innovazioni è stato progressivamente abbandonato, determinando una vulnerabilità strutturale del sistema economico russo. La mancanza di diversificazione del sistema produttivo, in particolare, non rende il paese competitivo sui mercati rispetto a potenze industriali come la Cina e gli Stati Uniti. Nel luglio 2014 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto al ribasso le previsioni di crescita del pil del paese abbassandole dall’1,3% allo 0,2% per il 2014 e dal 2,3% all’1% per il 2015. Tuttavia, in seguito al deprezzamento del rublo e alla crisi economica che ha colpito la Russia alla fine del 2014 e nel 2015, l’inflazione ha portato a rivedere le previsioni di crescita ulteriormente in negativo.
La produttività agricola è diminuita rispetto all’epoca sovietica, anche se è in ripresa. La vulnerabilità al clima fa sì che il suolo agricolo rappresenti il 32% del totale, mentre il 45% del territorio è ricoperto da foreste che producono legname, uno dei principali beni di esportazione. L’industria estrattiva è molto sviluppata ma, in generale, la Russia ha ereditato una base industriale tecnologicamente arretrata e orientata a processi di trasformazione a basso valore aggiunto. In seguito alle sanzioni, inoltre, numerosi progetti di collaborazione tecnologica con le imprese occidentali sono stati sospesi o riscontrano numerose difficoltà, in particolare per quanto riguarda quelli di esplorazione dell’Artico. L’eredità sovietica ha lasciato una disparità tra le regioni, dal momento che la specializzazione geografica era un aspetto centrale nella pianificazione. L’industria pesante è concentrata nella Russia europea, negli Urali e sull’Artico, dove sono situate le maggiori risorse energetiche, mentre il sud del paese è prevalentemente agricolo. La sola Mosca produceva il 22% del pil nel 2008. Inoltre, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate rispetto all’epoca sovietica (nel 2007 il 20% più ricco della popolazione possedeva la metà del reddito totale russo, rispetto al 38% del 1992).
Nel 2014 la disoccupazione totale ha raggiunto il 5,6% circa e nel 2015 l’inflazione è schizzata al 15,8%. La situazione è stata fortemente aggravata dalle sanzioni imposte dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, e da altre potenze occidentali. Se il primo round o ‘pacchetto’ di sanzioni aveva un carattere individuale ed era rivolto a singole personalità politiche che avevano sostenuto l’annessione della Crimea, il secondo è stato indirizzato al sistema economico e alla finanza russa, limitando ad esempio i prestiti finanziari alle aziende russe. Il terzo pacchetto ha invece maggiormente colpito la collaborazione tra la Russia e l’Occidente nel settore energetico, senza toccare però le forniture stesse. Come risposta alle misure europee, il 1° agosto del 2014 la Russia ha introdotto l’embargo sulla produzione alimentare dai paesi che avevano approvato le sanzioni.
L’interscambio commerciale complessivo con le ex repubbliche sovietiche rimane inferiore a quello con l’Unione Europea. Bruxelles, che dipende largamente dall’approvvigionamento energetico russo, è di gran lunga il maggior partner commerciale (più del 50% di interscambio russo) e il maggior investitore in Russia (con una quota del 75% degli investimenti esteri). Sempre più rilevante è inoltre l’interscambio con la Cina, che potrebbe aumentare notevolmente in conseguenza dell’avvio di esportazioni di idrocarburi.
La Russia è il terzo produttore e consumatore di energia al mondo, dopo Cina e Usa. Per quanto riguarda invece il gas naturale, è il primo paese al mondo per riserve, ed è il secondo produttore al mondo, dopo gli Usa. Oltre a costituire il più importante componente del mix energetico, il gas è anche il principale prodotto esportato all’estero, principalmente verso l’Europa: l’85% delle esportazioni totali di gas naturale si dirige verso il continente europeo, arrivando ben al 94% se nel computo viene inclusa anche la Turchia. Nell’ultimo decennio queste esportazioni sono rimaste costanti, attorno ai 180 miliardi di metri cubi (gmc) all’anno, salvo calare a 138 gmc all’anno nel 2009 a seguito della forte contrazione della domanda europea e mondiale di gas, che ne ha spinto il prezzo verso il basso. Ai russi è convenuto dunque continuare a onorare i contratti di fornitura in vigore con molti paesi europei, i quali fissano il prezzo del gas sul medio periodo e sono legati a clausole ‘take or pay’ (in base alle quali l’acquirente è tenuto a pagare il prezzo di una quantità minima di gas indipendentemente dal suo ritiro), pur riducendo a zero le vendite di gas al dettaglio.
A fronte della stabilizzazione della domanda europea di gas e dell’intenzione dell’Eu di ridurre la dipendenza dal gas russo, nei prossimi anni la Russia dovrà cercare di intensificare le relazioni con i due grandi consumatori di questa materia prima alle sue frontiere orientali: uno, già grande importatore (il Giappone), e uno potenziale e in forte crescita (la Cina). Tuttavia, sebbene in questo periodo si stiano rapidamente sviluppando le capacità mondiali di liquefazione, trasporto via nave e rigassificazione del metano, il commercio del gas naturale è ancora in massima parte rigido, legato cioè alla necessità di viaggiare attraverso gasdotti, i quali richiedono grossi investimenti iniziali, e che oggi collegano la Russia quasi unicamente all’Europa. Questo ha fatto sì che le sanzioni e le contro-sanzioni non abbiano inciso significativamente sulle esportazioni del gas. Le esportazioni di petrolio sono più che raddoppiate nell’ultimo decennio, fino a raggiungere 7,3 milioni di barili al giorno nel 2009. La quota maggiore (l’80%) è diretta verso i paesi europei, il 12% verso quelli asiatici e il 3,5% verso gli Usa. La maggior parte della produzione interna è dominata dalle imprese nazionali. Al termine di un processo di privatizzazione fortemente condizionato dalla politica, queste aziende sono oggi poche e notevolmente concentrate. Rosneft, impresa a conduzione statale, è attualmente il maggior produttore petrolifero del paese, mentre la penetrazione di società straniere è stata ostacolata. Queste ultime hanno perciò scelto di ritirarsi, o di partecipare ai progetti petroliferi investendo direttamente in Rosneft. Sotto il profilo ambientale, infine, la Russia è il quarto paese per emissioni di anidride carbonica al mondo (dopo Cina, Usa e India) e il quindicesimo per emissioni pro capite. Per questo la politica energetica russa è stata indirizzata verso lo sviluppo del nucleare civile (si punta a raddoppiare la capacità di produzione di energia elettrica entro il 2030) e dell’idroelettrico, così da ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Tuttavia, gran parte delle 31 centrali nucleari del paese è obsoleta, e circa metà di esse si basa ancora sullo stesso tipo di reattore che provocò l’incidente di Černobyl´ nel 1986.
Una delle principali minacce alla sicurezza in Russia è legata al terrorismo, a sua volta innescato e acuito dal conflitto ceceno, nel Caucaso settentrionale, per il quale si è da ultimo temuto per la sicurezza in occasione delle Olimpiadi invernali di Soči nel 2014. La Russia ha inoltre una controversia territoriale ancora irrisolta con il Giappone circa la sovranità sulle Isole Curili meridionali, occupate dall’Unione Sovietica nel 1945. Nella percezione di Mosca anche l’allargamento della Nato costituisce una minaccia alla sicurezza. Lo stesso vale per il progetto di scudo spaziale nell’Europa centrale, portato avanti dall’Alleanza atlantica dopo l’abbandono da parte degli Usa dei progetti bilaterali con Polonia e Repubblica Ceca promossi dall’amministrazione Bush. Avendo interesse a garantire la stabilità della regione ex sovietica e dell’Asia Centrale e a creare una partnership per la sicurezza comparabile alla Nato, la Russia ha promosso la creazione dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), accordo di difesa e sicurezza creato nell’ambito del Cis da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Inoltre, la Russia fa parte dal 1996 dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) assieme a Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. La Sco mira a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza e a combattere fenomeni come terrorismo, estremismo, separatismo, commercio di droga, traffico di armi e immigrazione clandestina. Inoltre costituisce un importante forum di dialogo tra Cina e Russia in materia di sicurezza, ma non prevede misure di difesa come la Csto. La presidenza Putin ha cercato di rafforzare entrambe le organizzazioni.
L’interesse russo a mantenere la stabilità e la propria influenza nell’estero vicino si manifesta in numerosi altri aspetti. Il paese possiede alcune basi militari situate soprattutto nell’ex area sovietica (a eccezione della base navale di Tartus in Siria, paese con cui, come ha mostrato l’intervento militare nel 2015, la Russia intrattiene ancora forti legami). La Russia ha inoltre concluso alcuni accordi bilaterali di difesa con le ex repubbliche sovietiche – quello con l’Armenia, nel 2010, è stato prorogato fino al 2044 – ed è presente nella regione anche attraverso missioni di peacekeeping. La volontà di mantenere il ruolo esclusivo di garante della sicurezza nello spazio ex sovietico, ritagliandosi margini di influenza e ingerenza, si è manifestata nel 2008 nella Guerra ‘dei cinque giorni’ (7-12 agosto) contro la Georgia (che aveva tentato di riconquistare il controllo della regione separatista dell’Ossezia meridionale), e da ultimo in Ucraina. Viceversa, la presenza nell’ambito delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite è limitata: i russi hanno inviato le proprie truppe solo nella Repubblica Centrafricana (nell’ambito della missione Minurcat, che riguarda anche il Ciad) e in Sudan (Unmis).
Il settore militare ha risentito profondamente del crollo dell’Urss. L’esercito, oggi composto da poco meno di 800.000 militari (ne comprendeva 2,7 milioni nel 1992) e la spesa militare hanno subito un forte ridimensionamento (dal 14,2% del pil del 1989 al 4,5% del 2014). Vi sono stati numerosi tentativi di riformare e modernizzare l’esercito, rivelatisi però di difficile attuazione e non adeguatamente finanziati. Nel 2008, per esempio, Medvedev ha avviato una riforma tesa a ristrutturare l’esercito, rafforzarne l’efficacia, migliorare la formazione militare e modernizzare l’arsenale militare, provvedendo all’acquisto di armi tecnologicamente avanzate. Nonostante le forze convenzionali siano inferiori a quelle della Nato e a quelle cinesi, l’arma nucleare resta un importante deterrente. La Russia detiene il maggiore arsenale nucleare al mondo, sebbene continui a ridurlo seguendo gli impegni sul disarmo regolati dal Trattato di non proliferazione nucleare. Il primo accordo con gli Usa Start I risale al 1991. Nel 2010, i due paesi hanno concluso il nuovo Start, in base al quale si sono impegnati a ridurre gli arsenali entro sette anni a un massimo di 1550 testate atomiche schierate.
Il 27 febbraio 2015 Boris Nemtsov, importante figura politica russa dai primi anni ’90, è stato ucciso con diversi colpi di pistola sul ponte di Mosca che porta alla Piazza Rossa, a poche centinaia di metri dal Cremlino. Per la notorietà e le posizioni antiputiniane della vittima, nonché per essere stato commesso in pieno centro, l’omicidio ha creato forti reazioni tanto nella società moscovita, quanto in Occidente.
Fisico di formazione, Nemtsov è stato uno dei protagonisti delle riforme economiche liberali intraprese dalla presidenza El’cin subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Vice primo ministro in alcuni mesi del 1997 e del 1998, Nemtsov si è opposto alla politica del presidente Putin fin dall’avvio della sua prima presidenza nel 2000, guidando da allora numerose iniziative dell’opposizione governativa. Da ultimo, nel 2010, ha fondato insieme a Vladimir Ryžkov, Michail Kas’ianov e Vladimir Milov il ‘Partito per la libertà del popolo’ (in russo, Partja Narodnoj Svobody - Parnas). Nemtsov era stato arrestato nel 2007, 2010 e 2011 per la partecipazione a manifestazioni contro il governo. Nei mesi precedenti l’omicidio aveva pubblicato un report che denunciava la dilagante corruzione del governo e di alcuni magnati russi nel progetto di costruzione delle strutture per le Olimpiadi invernali di Soči, sua città di nascita, nel febbraio 2014. Si era infine schierato contro l’intervento russo in Ucraina.
Dieci giorni dopo l’omicidio sono stati arrestati cinque sospetti ceceni, uno dei quali ha prima confessato affermando di aver ucciso Nemtsov per le sue posizioni anti islamiche, ma ha poi ritirato la sua dichiarazione. Nelle settimane successive, i sospetti sono caduti anche su un funzionario della sicurezza della Repubblica Cecena, Ruslan Geremejev. Da allora, però, le indagini, in mano alla Commissione d’inchiesta nazionale, sono entrate in una fase di stallo e la ricostruzione degli eventi manca tuttora. A prescindere dalle indagini, in Occidente l’assassinio di Nemtsov è stato prevalentemente visto come l’ultima dimostrazione del carattere autoritario del regime putiniano, in continuità con gli omicidi rimasti impuniti di critici delle politiche governative come la giornalista Anna Politkovskaja. Altri hanno invece sottolineato la poca influenza di Nemtsov sulla scena politica russa, e quindi lo scarso interesse di Putin a commissionare per procura il suo omicidio. A Mosca, l’uccisione ha provocato un generale e forte senso di inquietudine e instabilità, accentuati da un contesto di crisi dell’economia ed esplosione della propaganda bellicista di quei mesi seguiti alle tensioni in Ucraina. Il primo marzo 2015 i principali gruppi di opposizione, tra cui i membri del partito liberaldemocratico Parnas da lui copresieduto, hanno organizzato una manifestazione in sua memoria.
La regione artica è costituita dall’Oceano Artico (con al centro il Polo Nord) e dalle terre che lo circondano e lo costeggiano. Con oltre il 50% del totale delle coste e del 40% del territorio complessivo, la Russia è una delle più importanti presenze nella regione, condivisa con l’Alaska (Stati Uniti), il Canada, la Finlandia, la Norvegia, l’Islanda, la Groenlandia (Danimarca) e infine la Svezia. Durante la Guerra fredda questa regione fu teatro di una contrapposizione strategico-militare – e in seguito di una politica di de-escalation – tra Russia e Stati Uniti.
A partire dal discorso di Gorbačev nella città russa di Murmansk nel 1987, la Russia è una delle promotrici della cooperazione internazionale nell’Artico per la pace e in materia ambientale. Nel 1991 è stato uno degli otto paesi firmatari dell’Arctic Environmental Protection Strategy (Aeps). Con la Dichiarazione di Ottawa del 1996, l’Aeps ha preso la forma, più istituzionalizzata, del Consiglio Artico, forum intergovernativo che ha tra i suoi obiettivi principali lo sviluppo sostenibile e la protezione ambientale della regione.
Negli ultimi anni, l’Artico ha assunto un’importanza inedita (a volte amplificata nei discorsi ufficiali) per la sicurezza nazionale russa. Dopo la pubblicazione di un importante documento strategico sulla regione nel 2008, il 22 aprile 2014 il Presidente russo Putin ha definito l’Artico “una concentrazione di praticamente tutti gli aspetti della sicurezza nazionale: militari, politici, economici, tecnologici, ambientali e delle risorse naturali”.
Da un punto di vista economico, l’interesse di Mosca è dettato principalmente dalle vaste risorse naturali e dalle vie di trasporto marittimo. Sul fronte militare, la regione è sede di alcune basi navali nucleari russe, viste da Mosca come fondamentali in un’ottica di deterrenza e di competizione con le forze militari della Nato. Soprattutto dopo la crisi ucraina, la politica russa di rimilitarizzazione dell’area sta creando tensioni con gli altri membri del Consiglio Artico e del Trattato Atlantico. Nel 2015 Mosca ha in particolare intensificato le esercitazioni militari, modernizzato la flotta nordica di sottomarini nucleari e punta ad incrementare il numero di soldati e infrastrutture militari nei prossimi anni. Da ultimo, la Russia ha presentato nell’agosto 2015, per la seconda volta, una petizione alle Nazioni Unite per il controllo di 1,2 milioni di metri quadrati aggiuntivi di territorio artico.
Approfondimento
Negli ultimi due anni, la Russia è intervenuta prima in Ucraina, annettendo la Crimea e sostenendo le forze separatiste filorusse nel Donbass, e poi in Siria, lanciando nel settembre 2015 un’operazione militare a sostegno del Presidente Assad e contro l’Is. Per la politica estera russa post-sovietica si tratta di due scenari del tutto inediti.
Con l’annessione unilaterale della penisola crimeana, l’intero assetto europeo del dopo Guerra fredda - caratterizzato da una visione civica della cittadinanza e dall’integrazione progressiva dei paesi dell’Europa orientale nella Nato e nell’Eu – è stato messo radicalmente in discussione: la Russia ha agito in nome di un legame etno-linguistico con la popolazione della Crimea, e ha rivendicato fattivamente una legittimità storico-politica ad opporsi all’eccessiva ingerenza occidentale nel proprio ‘estero vicino’. Riguardo all’operazione in Siria, la Russia non era presente militarmente nel Grande Medio Oriente dal 1989, anno in cui si concluse il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Nonostante i nuovi scenari, a prevalere sull’innovazione sono però, tuttora, i tratti di continuità che guidano la politica estera russa post-sovietica, in particolare quella putiniana.
L’obiettivo a lungo termine della Russia è uno, chiaro nella teoria, ma in pratica difficile da raggiungere a causa di alcune contraddittorietà: essere membro a tutti gli effetti della comunità internazionale, svolgere al suo interno un ruolo da grande potenza inter pares, fissare però le proprie regole per farne parte. Lo iato tra l’aspirazione al riconoscimento occidentale e il rifiuto di ‘appiattirsi’ su modelli di integrazione affermatisi dopo il 1991 è l’origine di tutte le tensioni con l’Occidente dall’arrivo di Putin a oggi.
Due sono in particolare le maggiori ragioni di scontro con gli Usa e l’Unione Europea. La prima è il contrasto tra come Mosca percepisce il sistema internazionale del dopo Guerra fredda e come invece vorrebbe che fosse. Quello che vede è un sistema che a seguito del crollo del socialismo è stato crescentemente dominato dagli Stati Uniti e ha ignorato ingiustificatamente il peso della Russia nel mondo. Quello a cui aspira è invece un equilibrio multipolare, in cui l’unica condizione per l’ordine globale è una spartizione di sfere di influenza tacitamente concordate tra le grandi potenze, Russia inclusa. La spartizione non ha il fine di dividere il mondo in blocchi impermeabili, ma è per Mosca il criterio che ancora prima dei princìpi definisce le posizioni di partenza, nonché la legittimità a partecipare, degli attori responsabili della gestione di crisi globali o governative nazionali. Concretamente, la Russia ritiene le Repubbliche post-sovietiche (tra tutte, l’Ucraina) degli stati con cui i paesi occidentali non possono relazionarsi senza considerare anche gli interessi e i legami storico-politici ed economici russi con quel paese, con quella élite o con quella comunità. In questo senso, pur nella sua specificità, il caso della Crimea ha la stessa origine delle reazioni russe alle Rivoluzioni colorate in Georgia nel 2003, in Ucraina nel 2004, all’intervento georgiano in Ossezia meridionale nel 2008.
In secondo luogo la Russia, come altri paesi sotto molti aspetti non democratici, ritiene la lotta contro lo status quo in nome della democrazia portato avanti dagli Stati Uniti, in misura minore dall’Europa, illegittimo, dannoso, inaccettabile. Le repliche russe erano state dure dopo l’intervento americano in Iraq nel 2003, il riconoscimento internazionale del Kosovo nel 2008, il sostegno occidentale alle primavera arabe nel 2011, ma non militari. In Medio Oriente oggi la Siria è l’ultima manifestazione della difesa russa dello status quo, con una novità però fondamentale: nessuno ha negato che l’intervento di Mosca, in funzione antiterroristica, fosse necessario. Nonostante l’isolamento internazionale della Russia dovuto alla crisi ucraina, l’Occidente ha bisogno di essere alleggerito del costo politico pagato con il caos in Libia del dopo Gheddafi, con la minaccia del terrorismo, con una guerra civile in Siria al suo quarto anno ancora priva di soluzione e con la conseguente emergenza rifugiati. Avendo come priorità assoluta quella di arginare l’influenza iraniana in Medio Oriente, l’Arabia Saudita da parte sua vede nell’intervento russo il male minore e l’unico argine rimasto dopo lo sfaldamento di credibilità delle iniziative occidentali nella regione. La lotta contro il terrorismo è un altro elemento fondamentale di continuità nella politica estera russa fin dal discorso di Putin al Millennium Summit dell’Un nel 2000, e il principale punto di contatto oggi con gli Stati Uniti e l’Europa. Nel suo essere una battaglia condivisa e sentita dall’intera comunità internazionale, la Russia sa di poter strumentalizzare il tema per intervenire in difesa dei propri interessi. Sebbene il terrorismo sia davvero una minaccia per il paese, è indubbio che l’intervento in Siria le consente di supportare militarmente le forze dell’alleato Assad, di difendere Tartus, sua unica base navale militare sul Mediterraneo, di distrarre l’opinione pubblica nazionale e la comunità internazionale dalla crisi ucraina. Compensando le carenze occidentali diplomatiche e sul terreno, la Russia vuole essere legittimo membro dell’apolitica comunità ‘della civiltà’ contro la barbarie. Di conseguenza, far notare che il modello liberaldemocratico occidentale non solo non è esportabile – lo dimostra la situazione in Medio Oriente - ma nemmeno funzionale. Come nel caso dei negoziati sul nucleare iraniano, infatti, anche in Siria Mosca ha, rispetto alle potenze occidentali, un vantaggio competitivo enorme: non dover rendere conto alla popolazione del proprio operato.
di Carolina de Stefano