Vedi Russia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Con un territorio che si estende per oltre 16 milioni di chilometri quadrati, da San Pietroburgo a Vladivostok, la Federazione Russa è uno stato dalle dimensioni continentali, il più vasto al mondo, delimitato a N dal Mar Glaciale Artico; a O da Norvegia, Finlandia, Mar Baltico, Estonia, Lettonia, Bielorussia (l’exclave di Kaliningrad confina con Mar Baltico, Lituania e Polonia); a SO da Ucraina e Mar Nero; a S da Georgia, Azerbaigian, Mar Caspio, Kazakistan, Cina, Mongolia, di nuovo Cina, Corea del Nord; a E dall’Oceano Pacifico. La contiguità geografica con l’Europa, le regioni caucasiche, l’Asia centrale e l’Estremo Oriente, così come la sua evoluzione storico-politica, hanno reso la Russia uno degli attori più rilevanti del sistema internazionale. Si tratta di uno stato composito e dalle caratteristiche imperiali, nel quale un centro forte ha da sempre esercitato il controllo su periferie deboli ed eterogenee, spesso animate da istanze indipendentiste. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’Impero russo è giunto a competere con quello britannico per il predominio sul Medio Oriente e sull’Asia centro-meridionale. I gravi problemi politici ed economici di uno stato ancora prevalentemente agricolo, combinati con la vastità del territorio, furono tra le cause delle sconfitte militari (nel 1905 contro il Giappone e nel 1917 durante la Prima guerra mondiale) che avrebbero contribuito alla caduta dello zar, alla presa del potere dei comunisti (bolscevichi) nell’ottobre 1917 e alla costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) nel 1922. L’Urss si trasformò ben presto in uno stato totalitario: riorganizzò nella forma istituzionale la gestione del potere, ma conservò nei fatti molti tratti imperiali. Elemento di novità rispetto all’epoca zarista fu la strutturazione su base federale: ciò contribuì a ridurre l’accentramento e la forte personalizzazione della gestione politica, che pure rimasero caratteristiche determinanti del sistema. Nello stesso periodo l’ideologia comunista, con le sue aspirazioni egalitarie e rivoluzionarie, si diffuse e si radicò anche in Europa, mentre all’interno del paese l’industrializzazione forzata e il riarmo militare dotarono l’Urss di basi economiche più salde rispetto al passato e di uno degli eserciti più forti al mondo. Nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, l’Armata rossa occupava circa metà del continente europeo. La conseguente rapida divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi ideologici, economici e militari contrapposti, egemonizzati da quelle che sarebbero state definite ‘superpotenze’ (Usa e Urss), diede inizio a un periodo di rivalità noto come Guerra fredda, caratterizzato dalla costante minaccia nucleare. Il blocco sovietico si organizzò militarmente attorno al Patto di Varsavia (1955-91), che includeva l’Unione Sovietica e molti stati europei orientali e sarebbe durato fino alla dissoluzione dell’Urss. La fine del bipolarismo e la dissoluzione sovietica ebbero luogo molto rapidamente, tra il 1989 e il 1991: al collasso economico dell’Unione Sovietica seguì la sua frammentazione in un certo numero di stati indipendenti in Europa (Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Estonia, Lettonia e Lituania), nel Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaigian) e in Asia Centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan), mentre i paesi dell’Est europeo si ritirarono dal Patto di Varsavia. L’Urss fu formalmente dissolta nel dicembre 1991, e si disgregò in 15 nuove repubbliche, tra cui la Federazione Russa. La transizione dal sistema economico sovietico, centralizzato e pianificato, all’economia di libero mercato provocò pesanti squilibri, culminati nel collasso finanziario dell’estate del 1998. L’incompiutezza della transizione ha lasciato poi sul campo contraddizioni e problemi economici, sociali e politici. Tra gli altri, la concentrazione oligarchica del potere economico e politico convive con una povertà ancora diffusa tra la popolazione: il pil pro capite è di poco superiore ai 18.000 dollari e almeno 18 milioni di russi vivono sotto la soglia di povertà. Persistono i problemi di instabilità alle frontiere, come quella caucasica e, da ultimo, quella con l’Ucraina, in seguito alla crisi scoppiata nel novembre 2013 che ha portato all’annessione unilaterale della penisola della Crimea alla Russia e alle operazioni militari nelle regioni orientali e meridionali del paese.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, la Federazione Russa è stata lentamente reinserita nelle istituzioni internazionali che sostengono il sistema economico globale: nel 1992 la Russia ha fatto il suo ingresso nel Fondo monetario internazionale (Imf) e nella Banca mondiale (Wb), nel 1997 è stata formalmente accolta nel G8, per poi esserne esclusa con lo scoppio della crisi in Ucraina nel novembre 2013, mentre nell’agosto 2012, dopo quasi diciotto anni di negoziazioni, è divenuta membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Lo stesso percorso non è stato invece seguito in materia di cooperazione e di sicurezza: la Russia ha continuato a guardare con estrema diffidenza al progressivo allargamento della Nato ai paesi dell’Europa Orientale, in particolare ai paesi baltici e alla Polonia, considerandolo una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Il ‘disallineamento’ tra cooperazione economica e sicurezza si spiega con il concetto russo delle relazioni regionali. La classe dirigente e parte dell’opinione pubblica considerano il territorio che faceva parte dell’Unione Sovietica (e, spesso, prima, dell’impero) come uno spazio di naturale proiezione e di influenza russa, all’interno del quale nessun altro stato ha diritto di ingerenza. Non a caso, le repubbliche ex sovietiche vengono fatte rientrare dai russi nella categoria di ‘estero vicino’ (blizhneye zarubezh’e): Mosca si è posta, fin dai primi anni Novanta, alla guida di questo spazio attraverso meccanismi di cooperazione politica, economica e di sicurezza, prima tra tutti la Comunità degli stati indipendenti. La Csi avrebbe dovuto, nelle intenzioni del Cremlino, raccogliere in parte il testimone della disciolta Urss, scongiurando spinte centrifughe delle repubbliche che un tempo ne facevano parte. A partire dallo scoppio delle cosiddette ‘rivoluzioni colorate’ in Georgia nel 2003, in Ucraina nel 2004 e in Kirghizistan nel 2005 – rivoluzioni che hanno portato nei primi due paesi forze dichiaratamente filo-europeiste a rovesciare i governi precedenti – la Csi è apparsa però incapace di affermarsi come un’efficiente e incisiva organizzazione d’integrazione regionale. Di fronte alla debolezza della Csi, ma soprattutto di fronte alla consapevolezza della sempre maggiore attrattività per i paesi dell’estero vicino del modello di integrazione europea, il presidente Putin ha ufficializzato nel 2011 l’avvio dell’ambizioso progetto di Unione Eurasiatica. Il progetto, teso a una ricomposizione regionale sotto l’egida di Mosca e finalizzato a proporre un modello istituzionale credibile e alternativo a quello europeo-occidentale, è un obiettivo prioritario della politica estera russa. A oggi ha portato alla nascita prima di un’Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan e, dal 1° gennaio 2015, alla trasformazione di quest’ultima in una più istituzionalizzata Unione economica eurasiatica di cui è entrata a far parte anche l’Armenia. La crisi ucraina scoppiata nel novembre 2013, però, rischia di diminuire le probabilità di successo del progetto a causa della difficoltà nel contesto attuale di ipotizzare la membership di Kiev, fin dall’inizio considerata dal Cremlino fondamentale per la credibilità dell’Unione.
In un contesto di crescenti tensioni tra la Russia e alcuni paesi post-sovietici fin dagli inizi degli anni Novanta, la crisi ucraina – soprattutto a seguito dell’annessione della penisola di Crimea alla Russia nel marzo 2014 e al supporto militare di Mosca alle forze separatiste nelle regioni sud-orientali del paese – è all’origine del più serio deterioramento delle relazioni tra la Russia e l’Occidente dalla fine della Guerra fredda. Dopo la dissoluzione dell’Urss, le tensioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti erano emerse in più occasioni, in particolare a causa del conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, ma la cooperazione tra Mosca e l’Occidente, in particolare nella lotta al terrorismo internazionale e nei negoziati per il disarmo nucleare, aveva limitato le ripercussioni di crisi regionali. Le relazioni con Washington hanno poi vissuto ulteriori momenti di tensione legati in particolar modo, oltre che all’allargamento della Nato, alle operazioni militari condotte in Serbia e Kosovo nel 1999 e a una retorica che, specie nell’era di George W. Bush (2001-08), faceva continuo riferimento al periodo del confronto bipolare. Dal 2009, sotto la presidenza statunitense di Barack Obama, i due paesi hanno puntato al raggiungimento di un accordo sulla riduzione delle armi nucleari, sancito nell’aprile 2010 dal trattato New Start. Si è assistito, tuttavia, a un nuovo irrigidimento delle relazioni in seguito all’annuncio del dispiegamento dello scudo missilistico della Nato, che ha acuito le storiche paure russe per la propria sicurezza per poi arrivare a un confronto diretto e alla sospensione delle iniziative comuni. Prima dello scoppio della crisi ucraina, la Russia aveva ottenuto alcuni importanti successi in politica estera, in particolare nelle negoziazioni sulla Siria e nei negoziati multilaterali sul nucleare con l’Iran. Con il raffreddamento delle relazioni con l’Occidente nei mesi subito successivi, però, l’immagine della Russia come partner relativamente affidabile (oltre che strategico) è stata minata in maniera duratura e Mosca si è in maniera crescente rivolta alla cooperazione con la Cina.
La Cina è storicamente guardata da Mosca con parziale diffidenza, come un importante partner economico e allo stesso tempo come una minaccia alla tradizionale influenza russa sull’Asia Centrale e alla riaffermazione dello status di grande potenza messo in crisi dopo il crollo dell’Urss. Proprio il tentativo di contenere la spinta espansionistica cinese è alla base della cooperazione regionale tra Mosca e Pechino attraverso l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) che, fondata nel 1996, comprende anche le repubbliche centroasiatiche con l’eccezione del Turkmenistan. D’altra parte, le opportunità economiche – tanto più se considerato il rapido peggioramento della situazione economica russa a seguito dell’imposizione di diverse misure sanzionatorie da parte dell’Occidente – hanno portato nel 2014 alla firma di importanti accordi nel settore energetico.
La Costituzione della Federazione russa, adottata nel dicembre 1993, delinea una repubblica semi-presidenziale a struttura federale: il presidente è eletto a suffragio universale e nomina il primo ministro, che deve però godere anche della fiducia del parlamento. Il presidente non può essere eletto per più di due volte consecutive e il suo mandato, in seguito a una riforma entrata in vigore dalle elezioni del 2012, è stato esteso da quattro a sei anni.
Il parlamento federale ha struttura bicamerale e consiste nella Duma (la Camera bassa), composta da 450 deputati ed eletta a suffragio universale ogni quattro anni, e nel Consiglio federale, costituito da 166 senatori eletti in maniera indiretta dalle assemblee locali – due per ciascuno dei diversi soggetti che compongono la Federazione. Negli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris El’cin (1991-99), la Russia dovette affrontare una grave frammentazione politica interna. Tra il 1993 e il 1999 nessun partito riuscì a formare una maggioranza stabile e quasi la metà delle leggi approvate in questo periodo provenivano da proposte governative. El’cin fu costretto a opporre il veto presidenziale su un quinto delle leggi approvate dall’aula e continuò a governare per decreto. Ritenuto responsabile del collasso finanziario del paese nel 1998 e di non essere riuscito a scongiurare i bombardamenti Nato contro la Serbia durante la guerra del Kosovo, El’cin, anziano e malato, si dimise a fine dicembre 1999, lasciando l’incarico ad interim a Vladimir Putin, già primo ministro dall’agosto di quell’anno. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra cecena Putin, già agente della polizia segreta sovietica, trovò nella crisi nel Caucaso settentrionale uno strumento utile a rilanciare il ruolo della presidenza federale, proponendosi come nuovo punto di riferimento nel panorama politico-istituzionale e come leader capace di ricostruire l’identità nazionale russa dopo un decennio di crisi. Il ritrovato sostegno dell’opinione pubblica fu sancito dall’esito delle elezioni del maggio 2000, che gli affidarono la guida del paese.
La riabilitazione della figura e della carica del presidente della Federazione Russa, ricoperta da Putin tra il 2000 e il 2008, ha avuto come effetto quello di stabilizzare il paese dal punto di vista interno e di eclissare, di fatto, il ruolo dei primi ministri. Putin ha inoltre coniato il concetto di ‘democrazia sovrana’, che postula il diritto russo di adottare una forma di democrazia diversa da quella occidentale, persino autoritaria nei suoi risvolti pratici – caratterizzati da paternalismo, centralismo e da un leader carismatico. Nel 2007 Putin ha fondato un nuovo partito, Russia unita, che alle elezioni parlamentari del 2007 ha conquistato il 70% dei seggi della Duma, sancendo l’egemonia del presidente nell’attuale scenario politico. La continuità politica alla presidenza della Federazione è stata assicurata, nel 2008, con l’elezione di Dmitrij Medvedev, delfino di Putin, che ha da quel momento ricoperto il ruolo di primo ministro. Con l’arrivo al potere di Medvedev – che disponendo di maggiori prerogativi istituzionali si è dimostrato in grado di esercitare un certo grado di indipendenza da Putin, con cui non sono mancati i dissensi – si è ricostituito per un certo periodo quell’equilibrio tra capo di stato e presidenza del consiglio venuto a mancare dal 2000.
Con le elezioni legislative del dicembre 2011, il partito Russia unita ha ribadito il suo predominio, seppur parzialmente indebolito: ha mantenuto la maggioranza ottenendo 238 seggi a fronte dei 212 dell’opposizione. Le elezioni presidenziali tenutesi il 4 marzo 2012 hanno registrato una larga vittoria di Putin con il 63% dei voti. Ciononostante, rispetto all’elezione del 2007 e come per la Duma, la percentuale degli elettori per il candidato di Russia unita è diminuita di circa otto punti. Contestualmente, sono scoppiate proteste di massa contro la leadership di Putin, che però non a oggi assunto la forma di gruppi politici d’opposizione organizzati.
Negli ultimi decenni la tendenza demografica ha spesso registrato valori negativi (-0,4% tra il 2005 e il 2010). Il paese è sceso dai 148 milioni di cittadini del 1990 ai 140 milioni del 2010. Si stima che, nonostante attiri immigrati in cerca di occupazione, la Russia potrebbe affrontare una profonda crisi demografica (la popolazione potrebbe ridursi a 116 milioni entro il 2050), accompagnata da un progressivo invecchiamento. Con l’annessione unilaterale della Crimea, la popolazione russa aumenterebbe potenzialmente di 2,3 milioni di persone. Il tasso di mortalità è aumentato rispetto agli anni Novanta (15,1 persone su mille tra il 2005 e il 2010, 8,9 nel 2012) per diversi fattori, tra i quali il degrado ambientale e il peggioramento dell’obsoleto sistema sanitario. Inoltre, il consumo di alcol e sigarette è un fattore che sembra avere avuto un forte impatto sulla differenza tra l’aspettativa di vita maschile e qualla femminile: nel 2012 quest’ultima arrivava a 76 anni, mentre la prima si fermava a 65.
Mentre i tre quarti della popolazione vive nella Russia europea, in alcune zone, in particolare la Siberia e l’Estremo Oriente della federazione, la densità della popolazione è molto bassa (fino a 1 persona per chilometro quadrato). Tale fattore è considerato da diversi anni una delle possibili future fonti di tensione con Pechino, dal momento che il boom demografico cinese potrebbe determinare un aumento dell’emigrazione verso l’estremo oriente russo, regione confinante con la Cina e ricca di risorse minerarie.
La popolazione della Federazione Russa è composta in prevalenza da russi (82%), tatari (4%), ucraini (3%), ciuvasci (1%), bashkiri (1%), moldavi (1%) e bielorussi (1%). La maggioranza della popolazione è di religione cristiano-ortodossa, ma solo il 5% dei russi si dichiara osservante, mentre i musulmani vivono prevalentemente nel Caucaso settentrionale e nella Repubblica autonoma del Tatarstan. Dal 2009 la chiesa ortodossa russa è retta dal patriarca Cirillo, figura politica di spicco che esercita una grande influenza sulle altre chiese ortodosse. La libertà di religione è garantita dalla Costituzione, ma di fatto è soggetta ad alcuni limiti. Particolari gruppi religiosi, come i testimoni di Geova, che vengono considerati sette religiose, sono discriminati. Nel 2009 Medvedev ha introdotto l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, decisione che è tuttora contestata da una parte della società civile. Il numero di russi all’estero è elevato, concentrato in particolare in alcuni paesi un tempo appartenenti all’Urss: in Kazakistan e in Estonia vi è la concentrazione in percentuale maggiore di russi (circa il 15%) tra i paesi dell’ex blocco sovietico, anche se in termini assoluti la comunità maggiore è quella residente in Ucraina.
Il livello di istruzione è elevato, ma la successione di crisi economiche ha avuto un impatto negativo e ha peggiorato gli standard educativi rispetto all’epoca sovietica. Nelle università i fondi statali arrivano a finanziare circa un terzo dei costi, coperti per il resto dalle rette degli studenti.
Nel novembre 2013 la Russia è entrata a far parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, assieme a Cina, Arabia Saudita e Cuba, secondo un orientamento che privilegia l’inclusione di partner importanti, benché poco credibili rispetto a una tematica delicata come quella dei diritti umani. L’obiettivo è evidentemente indurre per questa via un miglioramento nella loro situazione politica interna. In occasione dell’ammissione al Consiglio, il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite Vitalij Čurkin, ha annunciato che le priorità della Russia riguarderanno la lotta contro il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza.
Il seggio ottenuto si scontra con la realtà di una nazione che è stata nell’occhio del ciclone nel giugno 2013 per una legge approvata all’unanimità dai 436 deputati della Duma, con un solo astenuto, e che promuove misure repressive contro gli omosessuali. La norma punisce la promozione di «orientamenti sessuali non tradizionali» presso i minori di 18 anni e prevede multe pecuniarie elevate per chi è giudicato responsabile di «propaganda omosessuale». Lo stesso Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva sottolineato la preoccupazione per gli abusi sui civili nell’Ossezia meridionale durante le operazioni militari dell’agosto 2008 e aveva denunciato i casi di tortura, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie nel Caucaso del nord, commessi da militari e personale dei servizi di sicurezza.
Più in generale, secondo l’indice di democrazia stilato dal settimanale britannico The Economist la Russia rientrerebbe tra i cosiddetti «regimi ibridi», al 107° posto su 167 paesi. Il voto resta delicato e non del tutto trasparente: alle elezioni del 2008 l’Osce decise di non inviare una missione di osservatori elettorali per monitorare le elezioni, per gli stringenti vincoli imposti dal governo russo. Durante le presidenziali del 2012, i rappresentanti dell’Osce hanno riferito di numerosi brogli.
Il potere giudiziario, inoltre, non è indipendente dall’esecutivo: i meccanismi di nomina dei giudici li espongono a pressioni politiche. I casi di detenzioni arbitrarie e di confessioni sotto tortura sono numerosi. La libertà di stampa, sebbene prevista dalla Costituzione, nei fatti è ostacolata e limitata: il governo controlla direttamente o indirettamente le reti televisive, mentre giornalisti e attivisti per i diritti umani sono vittime di pressioni e violenze, tanto da alimentare l’autocensura. Il caso più noto all’opinione pubblica internazionale è l’uccisione ancora impunita della giornalista Anna Politkovskaja: ma, dal 1992, i giornalisti uccisi, secondo il Committee to Protect Journalists (Cpj) sono stati 56. A dicembre 2013 è stata chiusa l’agenzia Ria Novosti, sostituita da Russia Oggi, vera e propria struttura di propaganda. Una legge del 2006 ha consentito una maggiore discrezionalità per la pubblica amministrazione nell’ostacolare l’attività di organizzazioni non governative critiche nei confronti del governo e una legge del 2012 ha ulteriormente aggravato la situazione, dichiarando illegali i finanziamenti esteri alle ong operanti in Russia, costringendoli a registrarsi come «agenti esteri». L’isolamento politico della Russia ha portato all’irrigidimento della propaganda statale e alle ulteriori restrizioni sulla libertà di stampa. Recentemente è stata approvata la legge che sancisce il divieto di partecipazioni straniere nei media russi, cui hanno fatto seguito diverse decisioni governative volte a limitare o sanzionare quotidiani e siti di informazione nazionali per aver espresso posizioni – per esempio in tema di eventi in Ucraina – non considerate accettabili dal Cremlino.
La corruzione è tradizionalmente diffusa a tutti i livelli, dalla pubblica amministrazione agli organi di polizia: negli studi di Transparency International, la Russia è al 127° posto su 177 paesi nell’indice di corruzione percepita. Il governo si è formalmente impegnato a combattere il fenomeno varando un piano nazionale nel 2008, ma questo sembra talmente radicato e il legame con il crimine organizzato così forte che una politica troppo restrittiva potrebbe provocare disordini. Per quanto concerne l’indice di libertà economica la Russia è al 140° posto su 176. La tutela dei diritti di proprietà privata e di proprietà intellettuale è debole e la giurisprudenza in materia del tutto imprevedibile; la legislazione soffre inoltre di mancanza di trasparenza, vi sono vincoli sulla partecipazione estera nelle imprese e gli stranieri non possono comprare terreni, ma solo prenderli in locazione per 49 anni.
Rispetto al 2013, la Russia ha visto nel 2014 un netto peggioramento delle previsioni di crescita del pil nel prossimo biennio. Le ragioni di questo indebolimento, e di un contesto economico che sembra avviare il paese verso un periodo di recessione dopo anni di dati macroeconomici positivi (escludendo il 2008, anno della crisi globale), sono di natura strutturale e sono state allo stesso tempo negativamente influenzate dalle ricadute della crisi ucraina e dell’annessione della penisola di Crimea nel marzo 2014. In effetti, alla complessità di una transizione economica tuttora incompiuta, a un’eccessiva dipendenza dal settore energetico e a forti carenze infrastrutturali, produttive e di sviluppo, si aggiungono fattori contingenti, legati alle sanzioni settoriali imposte dall’Occidente alla Russia a causa delle forti tensioni in Ucraina.
In merito alla transizione economica avviata dopo il crollo dell’Urss, nel 1991 il pil reale della Russia scese del 12% e il deficit arrivò al 26% del pil: una profonda crisi economica accompagnò la transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Nonostante le numerose riforme varate, come quella fiscale, del welfare e della proprietà privata e un processo di privatizzazione avvenuto rapidamente negli anni Novanta, la crisi economica del 1998 ha rallentato questi processi e la liberalizzazione è rimasta incompiuta.
Lo stato mantiene il controllo dei settori trainanti dell’economia, in primis quello petrolifero (con l’espansione della controllata Rosneft rispetto alla Yukos), ma anche quello bancario e degli armamenti, mentre il numero delle imprese straniere nel paese va sempre più diminuendo. A partire dalla prima presidenza Putin nel 2000, il governo si è impegnato a promuovere maggiore trasparenza e libertà economica, anche tramite la lotta agli ‘oligarchi’, un gruppo di uomini d’affari che costruirono le loro fortune negli anni Novanta. La campagna si è tuttavia rivelata selettiva e mirata a ostacolare le attività di Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij, due uomini d’affari con influenza sui media, e di Michail Khodorkovskij, uno dei principali azionisti della Yukos, che sembrava avere ambizioni politiche. Quest’ultimo è stato arrestato nel 2003 e condannato a otto anni di detenzione per frode ed evasione fiscale. Nel dicembre 2010 Khodorkovskij è stato nuovamente condannato per furto di petrolio assieme a Platon Lebedev, anch’egli ex azionista Yukos, e scarcerato nel 2014. Il recente arresto, sempre nel 2014, di Yevtushenko, numero 15 nella lista Forbes Russia e proprietario del colosso ‘Sistema’, è visto da molti come sintomo che la presa autoritaria e la volontà da parte del governo di un maggiore controllo sull’economia è tuttora presente. Le esportazioni di gas e petrolio sono tradizionalmente una componente essenziale della bilancia commerciale della Federazione Russa, secondo una tendenza che nell’ultimo decennio è andata rafforzandosi, fino ad arrivare a costituire più del 67,1% del pil nazionale.
Anche per questa ragione, in anni in cui il prezzo delle materie prime è cresciuto esponenzialmente, il modello di sviluppo del paese teoricamente orientato verso privatizzazioni, liberalizzazioni, investimenti e innovazioni è stato progressivamente abbandonato, determinando una vulnerabilità strutturale del sistema economico russo. Nel luglio 2014 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto al ribasso le previsioni di crescita del pil del paese abbassandole dall’1,3% allo 0,2% per il 2014 e dal 2,3% all’1% per il 2015. Tuttavia, in seguito al deprezzamento del rublo e alla crisi economica che ha colpito la Russia alla fine del 2014, le previsioni per il 2015 sono ulteriormente peggiorate (-3,5%). In questo contesto, i pacchetti di sanzioni imposte alla Russia dalle potenze occidentali a partire dall’annessione della Crimea nel marzo 2014 hanno avuto un impatto molto negativo, portando l’inflazione nel novembre 2014 a oltrepassare il livello critico dell’8% e a una forte svalutazione del rublo.
La produttività agricola è diminuita rispetto all’epoca sovietica, anche se è in ripresa. La vulnerabilità al clima fa sì che il suolo agricolo rappresenti il 32% del totale, mentre il 45% del territorio è ricoperto da foreste che producono legname, uno dei principali beni di esportazione. L’industria estrattiva è molto sviluppata ma, in generale, la Russia ha ereditato una base industriale tecnologicamente arretrata e orientata a processi di trasformazione a basso valore aggiunto. In seguito alle sanzioni, inoltre, numerosi progetti di collaborazione tecnologica con le imprese occidentali sono stati sospesi o riscontrano numerose difficoltà, in particolare per quanto riguarda quelli di esplorazione dell’Artico. L’eredità sovietica ha lasciato una disparità tra le regioni, dal momento che la specializzazione geografica era un aspetto centrale nella pianificazione. L’industria pesante è concentrata nella Russia europea, negli Urali e sull’Artico, dove sono situate le maggiori risorse energetiche, mentre il sud del paese è prevalentemente agricolo. La sola Mosca produceva il 22% del pil nel 2008. Inoltre, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate rispetto all’epoca sovietica (nel 2007 il 20% più ricco della popolazione possedeva la meta del reddito totale russo, rispetto al 38% del 1992).
L’economia russa dipende in gran parte dalla produzione e dal prezzo di gas e petrolio. Dopo la crisi del 1998, la successiva crescita economica dall’inizio del secolo è in gran parte dovuta all’aumento del prezzo del petrolio. Gli idrocarburi contano per oltre il 60% delle esportazioni, che a loro volta hanno rappresentato circa il 30% del pil nell’ultimo decennio. La Russia ha risentito della crisi economica del 2008 più di altri paesi industrializzati, registrando una contrazione del pil del 7,9%, anche a causa del declino dei prezzi del petrolio, ma anche per la guerra in Georgia e per la fuga di capitali che ha fatto seguito alla crisi ucraina. Tra le principali sfide per il governo vi è proprio la risposta alla crisi e la riduzione della dipendenza dalla volatilità del prezzo del petrolio, la diversificazione dell’economia e lo sviluppo del settore avanzato.
Nel 2014 il tasso di crescita reale del pil è stato dello 0,2%, la disoccupazione totale ha raggiunto il 6,2% circa e l’inflazione si è attestata al 5,8%. Nel 2012 il flusso di investimenti stranieri diretti è stato pari a più di 51 miliardi di dollari. La situazione è stata fortemente aggravata dalle sanzioni imposte dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, e da altre potenze occidentali. Se il primo round o ‘pacchetto’ di sanzioni aveva un carattere individuale ed era rivolto a singole personalità politiche che avevano sostenuto l’annessione della Crimea, il secondo è stato indirizzato al sistema economico e alla finanza russa, limitando per esempio i prestiti finanziari alle aziende russe. Il terzo pacchetto ha invece maggiormente colpito la collaborazione tra la Russia e l’Occidente nel settore energetico, senza toccare però le forniture stesse. Come risposta alle misure europee, il 1° agosto del 2014 la Russia ha introdotto l’embargo sulla produzione alimentare dai paesi che avevano approvato le sanzioni.
L’interscambio commerciale con le ex repubbliche sovietiche rimane inferiore a quello con l’Unione Europea. Bruxelles, che dipende largamente dall’energia russa, è di gran lunga il maggior partner commerciale (più del 50% di interscambio russo) e il maggior investitore in Russia (con una quota del 75% degli investimenti esteri). Sempre più rilevante è inoltre l’interscambio con la Cina, che potrebbe aumentare notevolmente in conseguenza dell’avvio di esportazioni di idrocarburi.
La Russia è il terzo produttore e consumatore di energia al mondo, dopo Cina e Usa. Malgrado ciò, ai ritmi di produzione attuali, alla Russia rimangono riserve petrolifere per soli altri 20 anni, mentre l’Arabia Saudita, altro grande produttore petrolifero, ne possiede per altri 75. Per quanto riguarda invece il gas naturale, è il primo paese al mondo per riserve, e agli alti ritmi di estrazione attuali – è il secondo produttore al mondo, dopo gli Usa – gli restano riserve certe per 84 anni. Per mantenere la posizione di preminenza nell’approvvigionamento energetico europeo e dare, al contempo, sostenibilità alla connotazione di potenza energetica, la Russia ha dunque necessità di attirare investimenti stranieri nei settori dell’esplorazione, sfruttamento e trasporto degli idrocarburi. Oltre a costituire il più importante componente del mix energetico, il gas è anche il principale prodotto esportato all’estero, principalmente verso l’Europa: l’85% delle esportazioni totali di gas naturale si dirige verso il continente europeo, arrivando ben al 94%, se nel computo viene inclusa anche la Turchia. Nell’ultimo decennio queste esportazioni sono rimaste costanti, attorno ai 180 miliardi di metri cubi (gmc) all’anno, salvo calare a 138 gmc all’anno nel 2009 a seguito della forte contrazione della domanda europea e mondiale di gas, che ne ha spinto il prezzo verso il basso. Ai russi è convenuto dunque continuare a onorare i contratti di fornitura in vigore con molti paesi europei, i quali fissano il prezzo del gas sul medio periodo e sono legati a clausole ‘take or pay’ (in base alle quali l’acquirente è tenuto a pagare il prezzo di una quantità minima di gas indipendentemente dal suo ritiro), pur riducendo a zero le vendite di gas al dettaglio. A fronte della stabilizzazione della domanda europea di gas e dell’intenzione dell’Eu di ridurre la dipendenza dal gas russo, nei prossimi anni la Russia dovrà cercare di espandere le sue relazioni con i due grandi consumatori di questa materia prima alle sue frontiere orientali: uno, già grande importatore (il Giappone), e uno potenziale e in forte crescita (la Cina). Tuttavia, sebbene in questo periodo si stiano rapidamente sviluppando le capacità mondiali di liquefazione, trasporto via nave e rigassificazione del metano, il commercio del gas naturale è ancora in massima parte rigido, legato cioè alla necessità di viaggiare attraverso gasdotti, i quali richiedono grossi investimenti iniziali, e che oggi collegano la Russia quasi unicamente all’Europa. Questo ha fatto sì che le sanzioni e le contro-sanzioni non abbiano inciso significativamente sulle esportazioni del gas. Le esportazioni di petrolio sono più che raddoppiate nell’ultimo decennio, fino a raggiungere 7,3 milioni di barili al giorno nel 2009. La quota maggiore (l’80%) è diretta verso i paesi europei, il 12% verso quelli asiatici e il 3,5% verso gli Usa. La maggior parte della produzione interna è dominata dalle imprese nazionali. Al termine di un processo di privatizzazione fortemente condizionato dalla politica, queste aziende sono oggi poche e notevolmente concentrate. Rosneft, impresa a conduzione statale, è attualmente il maggior produttore petrolifero del paese, mentre la penetrazione di società straniere è stata osteggiata. Queste ultime hanno perciò scelto o di ritirarsi, o di partecipare ai progetti petroliferi investendo direttamente in Rosneft. Sotto il profilo ambientale, infine, la Russia è il quarto emissore di anidride carbonica al mondo (dopo Cina, Usa e India) e il quindicesimo per emissioni pro capite. Per questo la politica energetica russa è stata indirizzata verso lo sviluppo del nucleare civile (si punta a raddoppiare la capacità di produzione di energia elettrica entro il 2030) e dell’idroelettrico, così da ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Tuttavia, gran parte delle 31 centrali nucleari del paese è obsoleta, e circa metà di esse si basa ancora sullo stesso tipo di reattore che provocò l’incidente di Černobyl´ nel 1986.
Una delle principali minacce alla sicurezza in Russia è legata al terrorismo, a sua volta innescato e acuito dal conflitto ceceno, per il quale si è temuto per la sicurezza russa in occasione delle Olimpiadi invernali di Soči. La Russia ha inoltre una controversia territoriale ancora irrisolta con il Giappone circa la sovranità sulle Isole Curili meridionali, occupate dall’Unione Sovietica nel 1945. Nella percezione di Mosca anche l’allargamento della Nato costituisce una minaccia alla sicurezza. Lo stesso vale per il progetto di scudo spaziale nell’Europa centrale, portato avanti dall’Alleanza atlantica dopo l’abbandono da parte degli Usa dei progetti bilaterali con Polonia e Repubblica Ceca promossi dall’amministrazione Bush. Avendo interesse a garantire la stabilità della regione ex sovietica e dell’Asia Centrale e a creare una partnership per la sicurezza comparabile alla Nato, la Russia ha promosso la creazione dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), accordo di difesa e sicurezza creato nell’ambito del Cis da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Inoltre, la Russia fa parte dal 1996 dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco) assieme a Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. La Sco mira a rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza e a combattere fenomeni come terrorismo, estremismo, separatismo, commercio di droga, traffico di armi e immigrazione clandestina. Inoltre costituisce un importante forum di dialogo tra Cina e Russia in materia di sicurezza, ma non prevede misure di difesa come la Csto. La presidenza Putin ha cercato di rafforzare entrambe le organizzazioni.
L’interesse russo a mantenere la stabilità e la propria influenza nell’estero vicino si manifesta in numerosi altri aspetti. Il paese possiede alcune basi militari situate prevalentemente nell’ex area sovietica (a eccezione della base di Tartous in Siria, paese con cui la Russia ha ancora forti legami). La Russia ha anche concluso alcuni accordi bilaterali di difesa con le ex repubbliche sovietiche – quello con l’Armenia, nel 2010, è stato prorogato fino al 2044 – ed è presente nella regione anche attraverso missioni di peacekeeping. La volontà di mantenere il ruolo esclusivo di garante della sicurezza nello spazio già sovietico, ritagliandosi margini di influenza e ingerenza, è stata dimostrata negli ultimi anni dalla Guerra dei cinque giorni (7-12 agosto 2008) contro la Georgia, che aveva tentato di riconquistare il controllo della regione separatista dell’Ossezia meridionale, in cui la Russia aveva dispiegato un proprio contingente di peacekeeping. Viceversa, la presenza nell’ambito delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite è limitata: i russi hanno inviato le proprie truppe solo nella Repubblica Centrafricana (Minurcat) e in Sudan (Unmis). Il settore militare ha risentito profondamente del crollo dell’Urss. L’esercito, oggi composto da poco più di 800.000 militari, ne comprendeva 2,7 milioni nel 1992 e la spesa militare ha subito un forte ridimensionamento (dal 14,2% del pil del 1989 al 4,2% del 2013). Vi sono stati numerosi tentativi di riformare e modernizzare l’esercito, però rivelatisi di difficile attuazione e non adeguatamente finanziati. Nel 2008, per esempio, Medvedev ha avviato una riforma tesa a ristrutturare l’esercito, rafforzarne l’efficacia, migliorare la formazione militare e modernizzare l’arsenale militare, provvedendo all’acquisto di armi tecnologicamente avanzate. Nonostante le forze convenzionali siano inferiori a quelle della Nato e a quelle cinesi, l’arsenale nucleare rimane un importante deterrente. La Russia detiene il maggiore arsenale nucleare al mondo, sebbene continui a ridurlo seguendo gli impegni in materia di disarmo posti del Trattato di non proliferazione nucleare. Il primo accordo Start I con gli Usa risale al 1991. Nel 2010, i due paesi hanno concluso il nuovo Start, in base al quale si sono impegnati a ridurre gli arsenali entro sette anni a un massimo di 1550 testate atomiche schierate.
Oggi la Cecenia è una repubblica autonoma che fa parte della Federazione Russa con una popolazione che conta poco più di un milione e duecentomila abitanti. Resta un territorio fortemente instabile, dove negli ultimi vent’anni si sono combattute le due guerre russo-cecene, l’ultima delle quali terminata nel 2009 ma con episodi violenti che continuano tutt’oggi a verificarsi soprattutto nella parte nord del Caucaso e in altre repubbliche del Caucaso settentrionale. Le due guerre si inquadrano nei più ampi processi innescati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dalla lotta per l’indipendenza dall’URSS prima, e dalla Federazione Russa poi. Nel novembre 1991, contestualmente al conseguimento dell’indipendenza delle tre Repubbliche socialiste sovietiche del Caucaso meridionale (Armenia, Azerbaigian e Georgia), la Repubblica Cecena di Ičkerija che, assieme all’Inguscezia, beneficiava dello status di repubblica autonoma, proclamò la propria indipendenza da Mosca. Tale atto diede origine a un conflitto mai davvero concluso con le autorità federali, preoccupate del possibile ‘effetto domino’ della secessione cecena. Le ricadute del conflitto sono sfociate in forme di terrorismo di matrice islamica che hanno colpito non solo il territorio ceceno, ma anche la Russia fino ad assumere forme di terrorismo internazionale: ceceni erano i due giovani attentatori che hanno colpito alcuni partecipanti alla maratona di Boston dell’aprile 2013. Le connessioni tra la Cecenia e altre zone del Caucaso con il network del jihadismo globale restano tuttavia argomento di dibattito. Il personaggio principale del primo periodo di esistenza della Repubblica di Ičkerija è stato Džochar Dudaev, generale dell’aviazione sovietica, poi leader indipendentista e infine presidente della autoproclamata Repubblica fino al 1996, anno della sua uccisione. Nel 1993 il parlamento ceceno tentò di sfiduciare Dudaev ma lui dissolse l’Assemblea e iniziò un governo autoritario. La formazione di un movimento di guerriglia ostile a Dudaev, finanziato e sostenuto da Mosca, sfociò nella prima guerra russo-cecena (tra dicembre 1994 e agosto 1996), durante la quale i russi occuparono Groznyj ma riportarono una delle più recenti sconfitte sul campo dopo il tragico conflitto con l’Afghanistan, e furono costretti a negoziare un cessate il fuoco e a ritirarsi dalla regione. Il fallito tentativo di riannessione lasciò sul campo circa 5700 militari russi e 17.300 morti ceceni. Tra il 1996 e il 1999 la Cecenia fu preda di una lunga guerra civile che portò la regione al collasso economico, dove la violenza politica si mischiò con l’estremismo islamico. Lo stesso islam sufi, presente nella regione, si scontrò con la corrente radicale dei wahhabiti, un fenomeno esterno alla cultura cecena. Proprio le azioni di una fazione wahhabita, la Brigata islamica internazionale, rappresentò il casus belli della seconda guerra russo cecena (1999-2009), con l’invasione nell’agosto 1999 del Daghestan, per sostenere i separatisti della regione, mentre in ottobre una serie di attentati dinamitardi in alcune città russe provocò quasi 300 morti. Putin, allora primo ministro, decise di invadere nuovamente la Cecenia. Le principali operazioni di guerra si svolsero tra l’ottobre 1999 e il maggio 2000 ma la guerra si protrasse fino al 15 aprile 2009, dopo anni di sforzi volti a colpire le sacche di resistenza della guerriglia separatista, i cui attentati più eclatanti furono quello del 2002 al teatro Dubrovka di Mosca, che causò la morte di almeno 170 persone, e quello del 2004 in una scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, dove lo scontro tra guerriglieri e forze di sicurezza provocò più di 380 vittime. A parte questi episodi, le cronache del conflitto russo-ceceno riportano gravi abusi nei diritti umani e contro la popolazione civile da entrambe le parti. Gli attentati di Boston hanno riacceso l’attenzione degli osservatori internazionali verso quest’area strategica dello spazio politico russo.
L’attuale interdipendenza energetica tra Russia ed Europa, regioni rispettivamente esportatrice e importatrice di risorse energetiche, ha trasformato una parte dei paesi europei fuoriusciti dall’ex Unione Sovietica (Bielorussia e Ucraina) o facenti parte dell’ex Patto di Varsavia (Polonia) in stati di transito per gasdotti e oleodotti diretti verso ovest. Sebbene il greggio possa essere trasportato anche attraverso petroliere, il commercio del gas è infatti ancora in vasta misura ‘rigido’, legato cioè alla sua trasmissione attraverso gasdotti. La posizione strategica di questi paesi (sommata, in alcuni casi, agli storici legami con l’ex Urss) ha dunque permesso loro di strappare prezzi minori rispetto a quelli di mercato. Malgrado ciò, la loro pressoché totale dipendenza dalle importazioni energetiche, e in primo luogo di gas, dalla Russia ha permesso a Mosca di utilizzare la minaccia o l’effettivo blocco delle forniture per spingere verso la risoluzione alcune tra le vertenze (in larga parte commerciali, ma dai risvolti spesso politici) che fino a quel momento rimanevano irrisolte. L’utilizzo politico della minaccia dell’interruzione delle forniture è stato un tratto costante delle politiche russe dell’ultimo decennio, tanto da aver aumentato il senso di insicurezza energetica dei paesi dell’Europa occidentale, che vedono minacciata la stabilità dei loro approvvigionamenti. Il progressivo indebitamento dei paesi clienti (e in particolar modo di quelli dell’Europa centro-orientale) è stato, inoltre, spesso ripianato da questi attraverso la cessione della propria rete infrastrutturale alle compagnie russe. Per tale motivo, i due grandi progetti infrastrutturali che dovrebbero collegare l’Europa alla Russia hanno di fatto l’obiettivo di evitare i paesi con cui è più probabile che nascano nuove controversie in futuro. Da una parte, infatti, il Nord Stream, in funzione dal 2012, scavalca Bielorussia e Polonia attraverso il Baltico; dall’altra il South Stream, atteso per il 2015 ma congelato a tempo indeterminato, non passerebbe dall’Ucraina (paese attraverso cui oggi transita circa l’80% del gas diretto in Europa occidentale) ma per il Mar Nero. La capacità teorica di questi gasdotti (di 137 miliardi di metri cubi di gas all’anno) garantirebbe alla Russia una posizione di assoluta dominanza dell’approvvigionamento di gas europeo. I nuovi gasdotti sarebbero dunque in grado di assicurare all’Europa occidentale una continuità di approvvigionamenti anche in caso di interruzioni di fornitura ai paesi dell’Europa orientale.
Ciò apre tuttavia il campo a conseguenze anche negative. Oltre ad approfondire la dipendenza energetica europea dalla Federazione Russa, quest’ultima disporrebbe infatti di maggior spazio di manovra nell’utilizzo delle leve energetiche nei confronti dei paesi dell’Europa orientale, la cui sicurezza energetica non sarebbe più legata a doppio filo a quella dei loro vicini occidentali.
Il ruolo della Russia sullo scenario internazionale è stato fra i più mutevoli a causa delle profonde trasformazioni che il paese ha affrontato in un breve lasso di tempo. Nel secolo scorso si sono manifestate ben tre diverse varianti di Russia: l’Impero russo (1721-1917); l’Unione Sovietica (1917-1991); e infine l’attuale configurazione della Federazione Russa, decurtata del 20% del territorio e con una popolazione ridotta del 40% rispetto alle due versioni antecedenti. Il nuovo stato conserva la tradizionale caratteristica della multinazionalità (il 20% della popolazione è costituito da non russi), ereditata dall’espansionismo dell’epoca imperiale, così come l’instabilità dei territori che rientrano sotto la sua sovranità. Per questo, la sicurezza russa è tuttora minacciata da destabilizzanti forze centrifughe, prevalentemente di origine caucasica (Cecenia, Inguscezia, Daghestan, Nagorno-Karabakh) che non esitano a ricorrere allo strumento del terrorismo e a saldarsi con movimenti estremisti transnazionali. Nei primi anni Novanta, l’instabilità politica e la grave crisi economica che attanagliava il paese spinsero l’élite politica ad aprirsi verso l’esterno alla ricerca di credito politico e finanziario. La politica estera russa era definita sulla base delle necessità interne e la debolezza del paese fu la causa della sua marginalizzazione nella politica internazionale. L’avvento al potere nel 2000 di Vladimir Putin segnò la fine del caos politico interno e l’inizio di una straordinaria crescita economica. Questi due elementi ebbero un riverbero positivo anche sulla politica estera del paese con una riduzione importante della forbice fra rango (determinato da ciò che prima l’impero zarista e poi l’Unione Sovietica furono: vittoria nella Grande guerra patriottica, potenziale nucleare, diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Un, relazioni di dipendenza sedimentate di carattere economico e culturale) e ruolo (la capacità effettiva di influenzare e orientare il sistema internazionale coevo). La direttrice prevalente nell’orientare le scelte di politica estera fu proprio la riconquista dello status perduto al momento dello sgretolamento dell’Unione Sovietica.
Il ritorno della Russia sullo scenario internazionale si accompagna, inizialmente, alla volontà di intessere relazioni proficue sia con gli Stati Uniti che con l’Europa e di ampliare il portfolio di partner strategici. Come ha affermato lo stesso ministro degli esteri, Lavrov, nel relazionarsi con gli altri paesi, la Russia è incline a una forma di ‘cooperazione multivettoriale’ guidata da una diplomazia realista e pragmatica (scevra da vincoli normativi e valoriali come quelli che condizionano il mondo occidentale) fondata su alleanze a geometria variabile definite da interessi contingenti. La Russia si è anche impegnata nella promozione di forme di cooperazione transnazionale a diversa intensità come quella dei Bric e altre a carattere regionale come l’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione o l’Unione doganale con Kazakistan e Bielorussia. La Russia sembrava perciò ormai convertita a una politica di potenza non più fondata sulla forza e l’uso del potere militare ma piuttosto sul pragmatismo, il mercantilismo e la cultura. Soprattutto nei confronti dei paesi contigui, Mosca ha impiegato strumenti soft come quelli economici (investimenti diretti, risorse energetiche e finanziarie, offerta di opportunità di lavoro) e culturali (lingua, mass media). La decisione nell’agosto del 2008 di ricorrere alla forza militare in Georgia poteva ancora essere interpretata come una sorta di extrema ratio, ossia uno strumento residuale da utilizzare quando gli altri si siano rivelati inefficaci. L’annessione della Crimea nel marzo 2014, durante la grave crisi politica in Ucraina, potrebbe invece aprire una nuova fase, più aggressiva, nella politica estera.
La Russia, che aspira a diventare uno dei centri globali di potere in un sistema internazionale concepito come poliarchico, ritiene che ciascun polo/stato debba costituire un fulcro di attrazione per i paesi contigui formando una sorta di blocco regionale (Russia più spazio post-sovietico). La Russia si oppone perciò a interferenze o pressioni motivate ideologicamente (ivi compresi i principi sulla tutela dei diritti umani), provenienti dall’esterno e in particolare dall’Occidente che si fa portatore di principi teoricamente assurti a norma della comunità internazionale. In questa ottica, si inserirebbe la dura reazione del Cremlino alla ‘entrata’ dell’Ucraina nella sfera occidentale attraverso la sottoscrizione di un Accordo di associazione con l’Unione Europea. Tuttavia, la reazione decisa di Mosca, che continua a fomentare i nazionalisti russi nelle regioni ucraine sud-orientali, potrebbe anche rispondere alla necessità di coalizzare i propri cittadini intorno alla bandiera del patriottismo, un tema che accalora anche i più critici rispetto al ‘putinismo’. La terza presidenza di Putin si è infatti contraddistinta, rispetto alle precedenti, per un marcato calo del consenso interno e per una decelerazione della crescita economica. Sebbene gli Stati Uniti e l’Eu abbiano raggiunto un accordo, nonostante le posizioni europee non fossero unisone, sul comminare sanzioni economiche alla Russia, la loro capacità di influenzare la condotta di Mosca è scarsa mentre il paese continua a essere un attore chiave su tutti i fronti di crisi aperti dall’Ucraina al Medio Oriente. Una Russia ostracizzata dall’Occidente rischia non solo di slittare verso Oriente, rafforzando la partnership con la Cina, ma anche una pericolosa regressione interna.