russismi
La portata complessiva dell’➔interferenza russa nella lingua italiana è stata largamente sottovalutata. In effetti, sia in età zarista sia nella fase compresa tra la Rivoluzione d’ottobre e la dissoluzione dell’Unione Sovietica sono circolate non poche espressioni riconducibili ad antefatti russi: i progressi della lessicografia permettono di collocare il russo in una posizione rispettabile nella classifica degli apporti stranieri (➔ forestierismi) al lessico italiano, subito dopo l’inglese (➔ anglicismi), il francese (➔ francesismi), lo spagnolo (➔ ispanismi), il tedesco (➔ germanismi) e l’arabo (➔ arabismi).
Per una classificazione tipologica delle diverse forme di ‘contatto’ tra spazio linguistico russo e italiano, si può considerare classica la distinzione che prende a riferimento la Rivoluzione d’ottobre del 1917. A seconda che si collochino nell’epoca prerivoluzionaria o nella fase successiva alla formazione dell’URSS, è invalso infatti l’uso di distinguere dai russismi storici, o russismi propriamente detti (principalmente forme riguardanti il costume, l’ambiente geografico, la vita materiale, la storia e gli ordinamenti della Russia zarista), i cosiddetti sovietismi, termini legati alle istituzioni politiche e socioeconomiche dello stato sovietico nato dagli eventi del 1917 e dissoltosi nel 1991.
Una prima manifestazione di interesse verso i paesi dell’Europa orientale risale al XV secolo, quando mercanti e viaggiatori vi si spingono numerosi diffondendo le prime notizie sulla posizione geografica, l’aspetto fisico, la storia, gli ordinamenti e gli usi di quelle popolazioni. Nel Cinquecento, poi, alle esperienze di viaggio si aggiungono i risultati delle frequenti missioni diplomatiche, intraprese per esplorare la nuova realtà del Granducato di Moscovia che proprio allora, sottrattosi alla dominazione tartara, andava assumendo una forma istituzionale non lontana dalle monarchie assolute occidentali: le relazioni di questi osservatori stimolano la fioritura di descrizioni, compendi storico-geografici e altre composizioni erudite.
Accanto a opere in latino non mancano le traduzioni in volgare come quella eseguita sui Rerum Moscoviticarum Commentarii, redatti nel 1549 dal barone austriaco Sigismund von Herberstein a conclusione delle sue ambascerie moscovite, la cui versione italiana del 1550 contiene la prima attestazione di beluga, boiaro, kvas, poltina, pud, rublo, versta, russo, zar. Molte di queste traduzioni sarebbero state incluse nel secondo volume delle Navigazioni e viaggi di Giovan Battista Ramusio a partire dalla seconda edizione del 1574. Ai Commentarii della Moscovia (1592) del gesuita mantovano Antonio Possevino, che informa sull’ambasceria alla corte di Ivan il Terribile fra il 1581 e il 1582, si deve la prima occorrenza di ulteriori forme quali pope e protopope.
Dopo una fase di stallo che coincide con il XVII secolo (durante il quale fanno comunque il loro ingresso copeco e zarevich, 1671; knut e strelizzo, 1690), il Settecento conosce una rinnovata attenzione verso la Russia, che in quegli anni andava assumendo un ruolo di primo piano nella storia d’Europa con l’entrata in scena di personaggi quali Pietro il Grande e Caterina II: imbevuta di cosmopolitismo illuminista, l’opinione pubblica colta dell’Europa occidentale avverte una favorevole inclinazione verso il mondo russo e si dispone a recepire con curiosità la fioritura di scritti che diffondono notizie su quel paese, come la Storia di Russia di Levesque (1784) e la Storia fisica morale civile e politica della Russia di Le Clerc (1785). Sono riconducibili al Settecento le prime menzioni di boiardo e zarina (1760), mammut e mugik (1784), ukase (1784).
Al principio dell’Ottocento, furono da una parte l’eco della campagna napoleonica (1812) e dall’altra il movimento romantico, positivamente orientato nei riguardi di tutto quanto sapesse di esotico, a favorire in Italia l’interesse per la cultura russa; nella seconda metà del secolo la grande stagione della narrativa rilanciò l’immagine della Russia tra gli intellettuali italiani. Non è un caso del resto che in questa fase i russismi di età prerivoluzionaria raggiungano il picco di attestazioni: diventano familiari forme quali tundra (1816), samovar (1818), isba (1832), balalaika (1836), trojka (1842), vodka (1848), mir (1875), dacia (1877), ecc. Un altro segmento di lessico russo recepito in italiano è formato dai titoli di opere letterarie assunti a modulo e a stereotipo: basti qui rinviare a sintagmi come anime morte, umiliati e offesi, delitto e castigo, guerra e pace, che in ultima analisi rendono modelli russi, e alla connessa fortuna di alcuni ➔ antroponimi legati allo stesso mondo, quali Ivan, Katia, Tania, ecc.
In definitiva, alla vigilia del declino della Russia zarista si andò stabilizzando la presenza di un manipolo di ➔ prestiti (pochissimi ➔ calchi) che, pur conservando l’impronta di un mondo remoto, avevano acquisito diritto di cittadinanza. Malgrado la maggior parte dei russismi non vada al di là dello status di esotismi, non poche espressioni, specie se in grado di evocare attitudini singolari di quel popolo, si prestano a un uso generalizzato e figurato anche al di fuori di ogni riferimento alla realtà russa: è il caso di mammut, nichilista e nichilismo, zar e zarina, autocrazia.
Le unità lessicali classificabili come sovietismi possono essere ripartite in vari nuclei tematici: istituzioni e ordinamenti (dal soviet, struttura basilare del nuovo stato socialista, al presidium; dalla milizia, ridenominazione della polizia, all’Armata rossa), organi e attività del Partito comunista (cellula, quadri; anche tovarišč «compagno», 1917, appellativo dei membri del partito), parole d’ordine (rivoluzione permanente, cinghia di trasmissione), formule propagandistiche e periodizzazioni (comunismo di guerra, nuova politica economica), epiteti polemici (avventurista, frazionista, ecc.), economia e lavoro (pianificazione, emulazione socialista).
Nel passarle in rassegna prenderemo a riferimento la scansione cronologica dei sovietismi, distribuendoli, a seconda della data d’ingresso, in un certo numero di segmenti temporali, ognuno dei quali segnato da un diverso modo di guardare alle vicende della Russia postrivoluzionaria (Mancini 1994; Nicolai 1994; Orioles 2006).
Negli anni successivi alla Rivoluzione d’ottobre, piuttosto che uno sforzo di comprensione imparziale, prevalse una interpretazione ideologica della nuova esperienza politica che andò polarizzandosi nei suoi due estremi, l’esaltazione acritica da parte dei simpatizzanti e l’atteggiamento diffidente proprio di quei settori moderati che paventavano il contagio rivoluzionario.
Un’eco indiretta di questa preoccupazione si coglie nel Dizionario moderno di Alfredo Panzini (a partire dall’edizione del 1918; ➔ lessicografia), che, nel momento stesso in cui accoglieva molti ➔ neologismi, li sovraccaricava di connotazioni affiancando alle lapidarie definizioni caustici commenti, orientati a mettere in luce negativa figure e istituzioni della Russia sovietica. La loro funzione di parole-chiave del processo rivoluzionario esponeva in particolare bolscevico e soviet ad acquisire una semantica peggiorativa: così bolscevico si carica dell’accezione estensiva di «persona ribelle a ogni autorità e tradizione, fautore di novità rivoluzionarie» (sorte analoga tocca a bolscevismo), mentre soviet viene interpretato come «voce russa che vale consiglio. Nuovo istituto politico della rivoluzione russa, 1917, a base, si dice, di delegazioni di operai»).
Il periodo tra il 1927 e il 1936 segna una svolta nella valutazione dell’esperienza politica dell’Unione Sovietica. Da una parte suscitavano sensazione i traguardi economici realizzati mediante la pianificazione e la modernizzazione tecnologica; dall’altra si prendeva atto dell’apparente stabilizzazione istituzionale (nel 1936 veniva promulgata la nuova Costituzione che, almeno sul piano formale, era fortemente innovativa). Si moltiplicavano poi le adesioni di uomini di cultura che, pur senza professare il marxismo, guardavano con interesse all’esperimento socialista (i cosiddetti compagni di strada: il filosofo pedagogista John Dewey, il commediografo George Bernard Shaw, lo scrittore André Gide).
Quanto alla percezione italiana, la pubblicistica dell’epoca era indirizzata a sottolineare le analogie tra bolscevismo e fascismo, nel nome della comune appartenenza a regimi totalitari e nell’intento di trarre una conferma della validità del principio autoritario, come superamento della democrazia liberale. Le ripercussioni linguistiche di un atteggiamento, se non benevolo, quanto meno neutrale sono evidenti: a questo periodo è riconducibile la diffusione di prestiti e calchi legati alle più significative innovazioni del sistema sociale ed economico dell’URSS: dalle aziende agrarie collettivizzate (kolchoz e sovchoz, 1929, con le equivalenze fattoria collettiva e fattoria di stato; kombinat, 1934) agli strumenti della pianificazione economica (piano quinquennale, pjatiletka); dai termini legati alle campagne di incentivazione della produzione (udarnik «lavoratore d’assalto», 1931) ad alcune tipiche istituzioni (l’organizzazione giovanile di massa Komsomol, 1927; il Torgsin, forma abbreviata per indicare i magazzini russi per stranieri, 1931; l’ufficio turistico di stato Inturist, 1933; l’agenzia di stampa TASS, 1935).
Dalla seconda metà degli anni Trenta gli osservatori cominciano a interrogarsi sulla degenerazione totalitaria del regime sovietico, quale emergeva dai processi di Mosca (trapelano le prime informazioni sulla repressione attuata con le ‘purghe’ staliniane), e si iniziano ad affacciare i primi dubbi sulle effettive condizioni di vita nell’URSS. La demitizzazione condiziona il quadro connotativo dei russosovietismi accolti negli anni che precedono lo scoppio della seconda guerra mondiale: espressioni che fino a qualche anno prima era state recepite e diffuse con valenze neutre o persino apologetiche vengono ora riproposte in termini svalutativi. È questa in particolare la sorte toccata alla serie espressiva legata ai primati stabiliti dal minatore Stachanov (stachanovismo, stachanovista), che proprio in questo lasso di tempo acquista i sovratoni ironici che ne avrebbero fatto un tipico ‘antisovietismo’.
Nel secondo dopoguerra, in una situazione di contrapposizione frontale tra Est e Ovest (la cosiddetta guerra fredda, 1946-1953), il giudizio di valore su fatti e istituzioni dell’Unione Sovietica si trasferisce sulle espressioni che ne sono la designazione: in questo contesto storico si concentra la maggior parte dei moduli espressivi improntati a forte carica polemica o ironica. Basti pensare ad agit-prop (1945), l’abbreviazione che designa l’attivista di base del partito comunista (peraltro fatta oggetto di un curioso fraintendimento: da designazione della struttura organizzativa cui era affidata l’attività di «agitazione e propaganda», l’acronimo passa a indicare il singolo militante); a purga (1946, resa di čistka «purificazione»), che per influsso dell’inglese purge acquista il significato di «epurazione» nel senso di «drastica operazione volta a eliminare i propri avversari politici»; a deviazionista, -ismo (1948, 1950).
Una prima parziale attenuazione del pregiudizio antisovietico si fa strada durante la leadership di Nikita Chruščëv (1953-1964), segnata dal processo di destalinizzazione e dalla denuncia del culto della personalità (1956; secondo il modello del russo kul’t ličnosti) diffusa con la pubblicazione del rapporto segreto al XX Congresso del PCUS. Parallelamente alle prime caute aperture all’Occidente (è il periodo della cosiddetta distensione), emergono sia formulazioni che riflettono in termini positivi il nuovo equilibrio o ne evocano situazioni e figure (dalla coesistenza pacifica, 1953, calco strutturale di mirnoe sosuščest-vovanie, al disgelo, 1955, calco semantico di ottepel’), sia espressioni cariche di una velata connotazione ironico-denigratoria, come trojka (1960) nell’accezione metaforica di «triumvirato, dirigenza a tre»; popolarizzatasi per impulso della proposta sovietica di sostituire la segreteria unica delle Nazioni Unite con un collegio di tre Segretari generali; e niet (1963), che da semplice intercalare diventa sinonimo di «diniego secco, categorico», con uno slittamento dovuto alle pratiche ostruzionistiche con cui la diplomazia sovietica, attraverso i suoi delegati permanenti al Consiglio di sicurezza dell’ONU, si avvaleva sistematicamente del diritto di veto.
Ma a dare notorietà alla gestione di Chruščëv contribuirono senza dubbio le imprese spaziali, che non mancarono di lasciare una scia di suggestioni lessicali: dai nomi dei veicoli spaziali (lo sputnik, designazione del primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra nel 1957, e la sonda lunik lanciata nel 1959 per l’esplorazione della luna) alle formazioni composte a primo elemento cosmo- (cosmonauta, cosmonave, cosmodromo, 1961) che, diffuse dopo il volo di Jurij Gagarin (1961, finirono con il creare una singolare concorrenza con il tipo ‘occidentale’ formato con astro-.
Un certo numero di sovietismi deve risonanza all’involuzione autoritaria di Leonid Brežnev e dei suoi immediati successori Jurij Andropov e Konstantin Černenko (1964-1985), contrassegnata in politica estera dalla legittimazione dell’intervento militare nei ‘paesi fratelli’ e in politica interna dalla dura repressione del dissenso. Le espressioni circolate in questa fase richiamano la coercizione sociale e politica di quel periodo: si va da apparatčik (1965; anche nel calco uomo di apparato), appellativo teso a screditare il membro a tempo pieno del Partito comunista visto come un burocrate, al russolatinismo nomenklatura (1980), che riassume in sé la gestione oligarchica del potere; fino alla serie espressiva normalizzazione, normalizzare introdotta con l’invasione della Cecoslovacchia (1968) per evocare il ristabilimento dell’ordine nei paesi dell’Est, e più in generale per designare ogni forma di intervento volto a ripristinare con la forza l’ordine costituito.
Si diffondono nel contempo i tipi espressivi che evocano la dissidenza russa: da samizdat (1970), denominazione delle pubblicazioni diffuse con mezzi di fortuna da parte degli intellettuali dissidenti (letteralmente «edizione in proprio»), che, attraverso un progressivo allargamento semantico, è passata a indicare ogni circuito editoriale clandestino; a gulag, l’acronimo dell’organismo statale preposto alla gestione dei campi d’internamento, la cui accezione figurata si presta a indicare qualsiasi «luogo, reale o morale, di isolamento» (attestato dal 1974 e nel valore traslato dal 1977). Giunge infine anche l’eco del latinismo dissidente (1977), che nell’URSS era usato in chiave polemico-denigratoria, e di refuznik, espressione ricorrente per designare gli ebrei cui le autorità sovietiche negavano il permesso di emigrare in Israele e, più in generale, in Occidente (1986).
Con il 1985 ha inizio il periodo gorbacioviano che si conclude con il collasso dell’Unione Sovietica (1991). Anche se Michail Gorbačëv assunse le funzioni di segretario generale del Partito comunista sovietico l’11 marzo del 1985, il nuovo corso politico può essere fatto decorrere dal 25 febbraio 1986, data del XXVII Congresso del PCUS, durante il quale furono lanciate le ‘parole d’ordine’ (Lasorsa Siedina 1990), legate al rinnovamento e alla democratizzazione interna intrapresi dallo statista, sintetizzate dalle voci perestrojka e glasnost’, quest’ultima impropriamente calcata con trasparenza. È in ogni caso paradossale la vicenda di queste formazioni, che hanno conosciuto un picco di grande fortuna cui è seguito un rapido declino, conseguente all’esaurirsi dell’esperienza politica e istituzionale che ne aveva ispirato l’adozione; una inopinata fortuna arride però a trasparenza, che, sganciata dal contesto storico-politico che l’aveva generata, è diventata motivo guida dei rapporti tra cittadini e istituzioni: singolare destino di quello che, alla fine del Novecento, era un sovietismo caratterizzante di una svolta considerata promettente.
Ramusio, Giovan Battista (1980-1983), Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, Torino, Einaudi, 1978-1988, 6 voll., voll. 3º- 4º.
Lasorsa Siedina, Claudia (1990), Il discorso politico di M.S. Gorbačëv, in Linguistica selecta I, Roma, Bagatto, pp. 33-84 (già in «Rassegna sovietica» 3, maggio-giugno 1989, pp. 128-148).
Mancini, Marco (1994), Voci orientali ed esotiche nella lingua italiana, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° (Le altre lingue), pp. 864-868 e 875-878.
Nicolai, Giorgio M. (1994), Viaggio lessicale nel paese dei Soviet. Da Lénin a Gorbačëv, Roma, Bulzoni.
Orioles, Vincenzo (2006), I russismi nella lingua italiana. Con particolare riguardo ai sovietismi, Roma, Il Calamo.