Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Massimo rappresentante, con Teofilo Folengo, di una letteratura d’opposizione che per contenuti e sperimentazione linguistica si contrappone al dominante classicismo cinquecentesco. Al secolo Angelo Beolco, la tradizione ha finito per identificarlo col nome di Ruzante, il contadino rozzo, animalesco ed umiliato intorno a cui egli articola tutta la sua produzione teatrale e del quale, durante le messe in scena, interpreta il ruolo in prima persona. Principale commediografo dell’epoca e non inferiore nel ruolo di attore, scrive quasi esclusivamente in dialetto, e soprattutto in pavano, la parlata della campagna padovana.
Nasce a Padova intorno al 1496, figlio illegittimo di Giovan Francesco Beolco, che dal 1500 è rettore della Facoltà di medicina e farmacia dell’università di Padova, forse la sola che, in un periodo di grandi mutamenti per la nostra penisola, mantiene un ruolo culturale di prim’ordine. Suo padre, agiato proprietario terriero, gli garantisce una formazione culturale non dissimile da quella dei fratelli. La sua vita è segnata dall’amicizia con Alvise Cornaro, aristocratico veneziano trapiantato a Padova, che diventa suo protettore e gli affida l’amministrazione delle proprie terre, e insieme sostiene la sua produzione teatrale; alla casa di Alvise Cornaro, frequentata da nobili raffinati e culturalmente vivaci, Beolco può così delineare una vocazione al teatro che è in lui già matura, poiché a Venezia ha recitato come attore alle feste nelle ville patrizie e, come autore, ha potuto confrontarsi con le punte più alte della drammaturgia contemporanea, la Calandria del Bibbiena e La Mandragola del Machiavelli.
Mentre l’attività teatrale lo vede impegnato a Padova e a Venezia, in seguito anche alla corte estense di Ferrara, l’amministrazione delle proprietà del Cornaro gli garantisce una conoscenza diretta e approfondita del mondo contadino, che fin dagli esordi della sua produzione si traduce nella satira del villano, col quale è lecito associare il Beolco per le magistrali interpretazioni che egli ne fa sul palco, ma certo non per l’indole o lo stile di vita: su questo aspetto la critica novecentesca ha fatto definitivamente luce mettendo a tacere la leggendaria interpretazione romantica che, assimilando l’uomo Beolco al suo personaggio, lo voleva autore senza cultura, che conduce una vita sregolata tra dissolutezza e miseria, mosso alla scrittura da una genialità primigenia. La sua produzione comica si colloca nel quindicennio che va all’incirca dal 1520 al 1535; l’ordinamento cronologico dato un quarantennio fa da Giorgio Padoan sembra tuttora il più attendibile, tenendo presente tuttavia che è impossibile fissare una datazione incontrovertibile, poiché le date certe delle rappresentazioni sono pochissime e la mancanza di stampe contemporanee non aiuta.
Intorno al 1520 esordisce con la Pastoral, scritta in versi come la successiva Betìa (1524-25), mentre il resto della sua produzione è tutto in prosa; già nella Pastoral compare il villano Ruzante, rappresentativo di un mondo contadino istintivo che è quello della campagna reale, che si esprime in dialetto e si contrappone così alla campagna idealizzata d’impronta arcadica e bucolica, nella quale ninfe e pastori parlano un italiano aulico artefatto e ridicolo. Nella Betìa, commedia in cinque atti tutta in pavano, Ruzante-Beolco, mentre dilata la struttura del mariazo (farsa di argomento matrimoniale i cui riti folklorici e doppi sensi osceni erano molto graditi al pubblico veneto colto) e la vivacizza comicamente con la comunanza sessuale tra due coppie di contadini, delinea programmaticamente la propria poetica: nel prologo, sede tradizionale delle argomentazioni teoriche, Ruzante elogia e difende la snaturalité, la spontaneità di un mondo rurale, primitivo e legato agli istinti, non denaturalizzato dalla civiltà; portare sulla scena le dinamiche della campagna reale significa far esprimere i contadini nel loro idioma naturale, così sanguigno e brutale e per questo così corrispondente alla loro indole, e pur sempre motivo di riso per il pubblico colto.
I medesimi temi si ritrovano in due orazioni pronunciate da Ruzante in momenti diversi: recita la Prima Orazione al cardinale Marco Cornaro nel 1521, nella villa di Altivole, e la Seconda Orazione al cardinale Francesco Cornaro nel 1528.
Con la produzione più matura l’adesione al naturale, tanto linguistico quanto comportamentale, si sviluppa a livello sia teorico che pratico e, come si evince dai prologhi, si connota come polo positivo e si contrappone ai modi dei “cacarelli letterati”, che si atteggiano a “parlar moscheto”, in una lingua “fiorentinesca” mistificante e artefatta. Tale poetica si realizza nei capolavori del teatro ruzantiano: i Dialoghi (1528-1529), la Moscheta e la Fiorina, due commedie composte probabilmente tra il 1527 e il 1531.
I Dialoghi, forme sceniche brevi e senza partizione in atti, in cui il tempo drammatico e quello rappresentativo sono del tutto sovrapponibili, sono tre: il Dialogo facetissimo, il Dialogo secondo (detti rispettivamente Menego e Bilora, dal nome dei loro protagonisti) e il Parlamento de Ruzante che iera vegnú de campo (Ruzante che ritorna dalla guerra, dopo essersi arruolato per guadagnare qualcosa e sconfiggere la fame); tutti e tre i protagonisti vivono in una condizione di miseria senza riscatto: Ruzante e Bilora si recano in città per riprendersi la propria moglie, ma nella città falsa e corrotta il villano soccombe, così che Ruzante viene bastonato e cerca rifugio nell’irrealtà, laddove il reale non gli fornisce alcuna via di fuga, e Bilora compie il gesto più estremo, l’omicidio del suo rivale. Le reazioni bestiali dei contadini – malnutriti, condannati a vivere in condizioni igieniche precarie, laceri e minacciati dalla paura per un mondo che li travolge – nonostante i giochi di parole suscitino il riso del pubblico, rivelano un fondo estremamente tragico, il cui tono tetro corrisponde alle circostanze storiche e alla carestia delle campagne padovane provate dalla guerra; tanto l’autore quanto il suo pubblico hanno ben presente le condizioni politico-sociali della regione, dopo la guerra provocata dalla Lega di Cambrai e l’arruolamento in massa dei contadini nelle “cernite”, con la speranza delusa di un guadagno che li salvasse dalla disperazione; i veneziani che assistono alle rappresentazioni, colti dominatori che vedono messa in scena davanti ai loro occhi la condizione della parte più vilipesa dei sudditi padovani, non possono ignorare del tutto la propria dose di responsabilità: i villani goffi che si azzuffano tra loro sono ridicoli e fanno divertire, ma la loro impossibilità di soddisfare anche i soli bisogni primari rende quel riso alquanto amaro. Nel Parlamento fa capolino il personaggio di Menato, interpretato dall’attore Marco Aurelio Alvarotto, compare di Ruzante e sua spalla comica, ulteriore figura portante del teatro ruzantiano.
La Moscheta trae il titolo dal linguaggio ricercato con cui Ruzante mette alla prova la fedeltà della propria moglie: l’unico risultato che ottiene è di perderla definitivamente; sua moglie Betìa è una donna scaltra e sensuale, antitetica alle madonne diafane e assorte, muse della letteratura ufficiale: il bersaglio polemico non è tanto la teoria dell’amore espressa da Bembo negli Asolani, quanto le abitudini della corte e le sue teorie sull’amore, così come, sul piano linguistico, Ruzante non intende criticare il modello bembiano (di là da venire al tempo delle prime prese di posizione di Beolco, considerando che la Prima Orazione è del 1521), ma ridicolizzare lo sfoggio falso ed affettato del travisato petrarchismo cortigiano, che sfuma dalla letteratura alle relazioni sociali.
La permanenza a Ferrara non può non influenzare il suo teatro. Di certo egli si esibisce nella città estense nel gennaio 1529, per il carnevale del 1530 (Moscheta) e del 1532 (probabilmente Piovana) e, anche se mancano certezze, presumibilmente anche nel maggio 1529 e durante il carnevale del 1531. Questo significa entrare in contatto con un teatro fiorente come quello che si stava sviluppando nel ducato estense, con l’Ariosto, indiscusso maestro di corte, e con le sue commedie. Gli anni ferraresi coincidono con l’elaborazione della Moscheta, sulla quale è probabile che il nuovo clima culturale abbia influito; certa è l’induzione di una svolta classicheggiante di Ruzante, consapevole di quanto il pubblico della corte estense fosse diverso da quello della villa di Fosson di Alvise Cornaro.
Ecco allora tra il 1532 e il 1533 la composizione della Piovana e della Vaccaria, originali rielaborazioni rispettivamente del Rudens e dell’Asinaria di Plauto.
La Piovana è tradizionalmente la commedia rappresentata a Ferrara per il carnevale del 1532, con l’allestimento delle scene curato dall’Ariosto (il riferimento a questi avvenimenti si trae da una celebre lettera scritta da Ruzante ad Ercole I d’Este, del gennaio di quell’anno); è totalmente in dialetto perché l’autore, come spiega espressamente nel prologo, intende adattare per i vivi ciò che era stato fatto per gli antichi e quindi ora è adatto solo per i morti. Nella Vaccaria la differenza sociale dei personaggi è rimarcata dal diverso codice linguistico: il pavano per i servi, l’italiano per i signori, sintomo di apertura verso il mondo letterario e cittadino per cui Beolco scrive. La Piovana è sempre stata considerata antecedente alla Vaccaria, mentre i recenti studi di Piermario Vescovo propongono un’inversione temporale nella composizione delle due commedie: del resto, come si è detto, le coordinate cronologiche del teatro di Ruzante non possono fondarsi su certezze assolute. Non soltanto gli autori latini e l’Ariosto (nella Vaccaria sono presenti rimandi anche all’Orlando furioso) influenzano la creazione delle nuove commedie ruzantiane: cultura ferrarese significa anche ricezione del teatro di Machiavelli. Il parallelismo di contenuti tra il prologo della Piovana e quello della Clizia e quello strutturale tra Clizia e Vaccaria sono accompagnati da un’indiscutibile vicinanza d’intenti tra l’ultimo Ruzante e l’ultimo Machiavelli, tesi entrambi ad innalzare il modello plautino con una marcata componente terenziana.
L’Anconitana, terza e ultima commedia composta in modo classico, sembra successiva al 1534; la sua letterarietà più marcata si spiega con lo spostamento dell’attenzione di Ruzante dall’ambiente rurale a quello cittadino, linea di tendenza probabilmente parallela ai gusti del circolo di casa Cornaro: in essa l’utilizzo di italiano, pavano e veneziano a caratterizzare personaggi diversi, con l’alternarsi di sezioni comiche e serie, sembra anticipare la commedia dell’arte.
Nell’ultimo decennio della sua vita Ruzante non compone più nulla per il teatro, che stava via via aderendo a schemi sempre più fissi; ci resta tuttavia una lettera datata 6 gennaio 1536 (secondo l’uso veneto; quindi in realtà corrispondente al 6 gennaio 1537), ultima sua scrittura fino alla morte, avvenuta all’improvviso nel 1542, e per questo ritenuta una sorta di testamento spirituale. Vivace testimonianza epistolare in un periodo di nuova fioritura del genere della lettera familiare, meglio comprensibile se calata nel gruppo ristretto dei sodali di villa Cornaro, in essa la descrizione onirica del regno di Madonna Allegrezza viene fatta da un morto in un dialetto pavano che ha perso ogni sua mimesi comica, proiettato in una dimensione infantile e sognante che, a distanza di molto tempo, sarà propria di poeti quali Cesare Ruffato e Andrea Zanzotto.