SABA MALASPINA
Originario della Calabria, canonico e decano della chiesa di Mileto intorno al 1274, S., scriptor presso la Curia pontificia di Martino IV (1281-1285), è autore fra il 1284 e il 1285 di una Rerum Sicularum Historia (tramandata anche come Liber gestorum regum Sicilie) che, fra il 1250 e il 1285, narra in dieci libri oltre un trentennio di scontri, rivalità e antagonismi tra le casate di Svevia, d'Angiò e d'Aragona.
Dopo aver viaggiato in Sicilia e aver soggiornato a Roma, S. è vescovo di Mileto nel 1286, ove muore nel 1296. Uomo di Curia, l'autore dell'Historia occupa uno spazio ben individuato per originalità e temperamento nel novero della storiografia mediolatina in Italia meridionale: il suo coinvolgimento nella vita pubblica e politica, il suo ruolo attivo nel difendere le esigenze della comunità ecclesiale acquistano maggior forza se confrontati con il sostanziale apparente equilibrio di giudizio espresso da altri scrittori di storia della sua generazione, talvolta più informati e partecipi, quali Riccardo di San Germano (v.), Niccolò Jamsilla (v.), Bartolomeo da Neocastro.
Acceso difensore del potere papale nei confronti delle casate regnanti, S., autentico scrittore di parte guelfa, racconta i fatti riguardanti il Regno di Sicilia all'indomani della morte di Federico II di Svevia (1250) e quelli riguardanti il Regno di Napoli fino alla morte di Carlo d'Angiò (1285), non esitando a stigmatizzare le scelte e le condotte degli Svevi e, ancor più, di Carlo d'Angiò, del quale riconosce i meriti politico-militari ma denuncia le crudeltà e gli eccessi (commovente fino alla rievocazione dai toni virgiliani l'episodio della decapitazione dell'adolescente Corradino di Svevia: "Madet terra pulchro cruore diffuso tabetque iuvenili sanguine cruentata, iacet veluti flos purpureus improvvida falce succisus" (Rerum Sicularum Historia, IV, 16). Propugnatore della sottomissione feudale al papa, l'autore della Historia esprime una concezione teocratica che gli inibisce l'accesso a una comprensione più moderna delle cose; la sua prospettica così parziale e condizionata sta alla base d'una impossibilità di capire le forze di cambiamento e di novità operanti nella gestione della monarchia angioina, tutta applicata ad affermare il primato temporale, dei baroni in particolare, sul potere spirituale. Si direbbe una storia d'élite quella narrata da S., perché attorno all'incoronazione di Manfredi (1258) ruotano prelati, nobili, grandi feudatari come unici protagonisti d'un intreccio d'accadimenti che l'autore vede sempre gestito da personaggi di alto profilo; assente il popolo, ma assenti anche le componenti 'basse' (cittadini, emarginati, gruppi d'opinione e di dissenso), oppure presenti, per soffrire, quei contadini "oppressi e travagliati dalle fatiche" (ibid., III, 1) il cui solo desiderio era forse quello di morire in una battaglia o, semmai, di cercare di arraffare qualche bottino. Stessa sorte di totale esclusione dalla storia tocca agli arabi, la cui realtà politica e ideologica è completamente azzerata nelle pagine della Historia. Così, al passaggio dalla monarchia di Manfredi a quella di Carlo d'Angiò, S. non avverte quanta importanza abbiano acquistato le fasce della burocrazia regia nel rapporto con il potere: baroni, conti, magnati d'ogni titolo, feudatari di varia grandezza che sostengono indebitamente il carico del gioco politico; lo scrittore sembra fermare il proprio sguardo soltanto sugli apparati gentilizi di queste società dove il centro urbano rimane sacrificato al ruolo prepotente del castello, dove la terra degli anonimi soccombe davanti alle proprietà dei signori, dove la nobiltà feudale è la sola a poter sostenere la monarchia. Elementi attivi della storia che prevalgono sugli elementi passivi del vissuto: il borgo come luogo di devastazione e saccheggio, i centri abitati (Catania, Licata, Agrigento, Castrogiovanni) diventano oggetto di scontro tra Svevi e Angioini senza mai affiorare nelle loro individualità collettive. Si potrebbe vedere mancante nella scrittura di S. un'attenzione a questo sentimento collettivo della storia e delle cose, quasi una prevalenza dei singoli personaggi sull'insignificanza dei gruppi. Anonimi abitanti trattati come gente dai cuori imbecillia (i pugliesi spaventati dall'azione di Manfredi nel 1254 su Lucera e atterriti dalle possibili ritorsioni da parte degli arabi della città), città assimilate a rozze conventicole d'inetti supponenti (L'Aquila, che fra 1258 e 1259 tenta una via verso l'autonomia dal Regno con l'assurdo tentativo della sua gente di contrapporsi ai baroni confidando nell'appoggio della Chiesa), con conseguenti definitive rappresaglie (Manfredi distrugge quest'ultima città), come a voler dire che solo ai potenti laici è concesso battersi contro gli altri poteri e contro l'indistruttibile potere della Chiesa. Se Manfredi è un re illegittimo spetta alla Chiesa abbatterlo, ma nulla possono tentare i ceti urbani, così inclini al tradimento, ai voltafaccia, all'inaffidabilità di vocazione. Si tratta d'una precisa scelta ideologica di S.: è sua forte convinzione che ogni tipo di autonomia non consentita da un gestore dall'alto sia da condannare. I baroni sono il perno su cui ruota la grandezza del Regnum Sicilie, e le rivolte sorte dopo la morte di Federico II sono dovute a una occulta conjuratio. Prova di questo sono anche le tirate contro le iniziative comunali in atto nell'Italia centrosettentrionale: Camerino è condannata per l'opposizione mostrata nei confronti di Percivalle Doria, vicario di Manfredi; i comuni padani sconfitti dalla forza del marchese Pallavicini sono la giusta punizione dopo la caduta di Vittoria e di Federico II; la disfatta dei fiorentini a Montaperti viene intesa come giusta condanna delle mire espansionistiche della pur guelfa Firenze. S. è convinto che alla Chiesa spetti il compito di guidare la storia insieme ai suoi alleati, le nobili famiglie che detengono il potere e che solo alla Chiesa devono rendere conto. Accanto al giudizio fortemente negativo riservato soprattutto al periodo angioino, con relativa denuncia degli abusi di governo, lo scrittore non offre alcuna alternativa ad altre forze in campo: nessun rilievo è riconosciuto ai mercanti, nessun ruolo principale è regalato al popolo grasso dei comuni, nessun riscontro si dimostra sensibile verso la spinta rinnovatrice delle comunità cittadine che, intanto, stanno cambiando il quadro socio-storico dell'Italia medievale. S. non capisce il tempo che cambia e gli sfugge anche il significativo apporto delle burocrazie urbane nell'amministrazione delle patrimonialità non solo regie. Egli crede che "Comites, Barones et alii Magnates Regni" rappresentino un cardine essenziale, dopo la morte nel 1254 di Corrado IV, nell'offrire il Regno a Manfredi, "statura mediocri" ma "homo flavus, amoena facie, aspectu placibilis, in maxillis rubeus, oculis sidereis, per totum niveus" (ibid., III, 13). Le città sono sentine di malesseri, il clero e i nobili sono assolti da ogni colpa; il Vespro è conseguenza del disordine civile, Palermo diventa una fucina di sovversivi tra i quali alligna la violenza popolare turbatrice. Su questo punto la posizione di S. è interessante perché egli riesce bene ad analizzare lo stato d'animo di Carlo d'Angiò allorché è richiesto dal re d'Aragona di porre fine con un duello ai dissidi interni del Regno di Sicilia: Carlo ha sessant'anni, "le malferme ginocchia e pigre le membra, […] il venir meno di ogni energia" (ibid., IX, 24), non se la sente di affrontare l'onta di un duello sicuramente perdente. E dopo la guerra del Vespro sono ben descritti i malesseri e la depressione che logorano Carlo I d'Angiò. Non diversamente l'autore della Historia sottolinea con acume la folle presa di potere da parte dei Lombardi e d'altri inetti regnicoli; anche la famiglia Lancia viene inchiodata al suo carattere di sopraffattrice per essersi applicata al possesso delle terre dei baroni nei confronti dei quali Manfredi non riesce a opporre una politica efficace: i Lancia provocano il disconoscimento di Manfredi quale legittimo re di Sicilia da parte di Urbano IV, preoccupato dall'espansione delle influenze siciliane nell'Italia settentrionale (v., ad esempio, la scomunica inflitta ai senesi nel 1262). S. appare, così, uno scrittore e un testimone del tutto inattuale, completamente fermo a un'ottica statica degli intrecci politici, esaltatore d'un improponibile primato della Chiesa di fronte all'aria nuova che spira dalla civiltà cittadina. Unico centro urbano esente da questo giudizio così limitativo appare Messina, favorevole a Carlo d'Angiò durante la rivolta del 1268, ma anche baluardo difensivo della communitas Siciliae nelle vicissitudini del Vespro; forse ebbero peso fattori autobiografici (S. conosceva bene Messina e la sua realtà), forse fattori ambientali grazie ai quali si salva della città dello Stretto quell'atmosfera d'imprevisto milieu per una vita cortigiana e di rilassatezza; accenti sublimati in questo profilo: "Messina stessa non sarà dello straniero: abbiamo un comune lignaggio, e comuni la lingua, le glorie del passato e l'ignominia del presente; abbiamo consapevolezza che tirannide e miseria sono frutto della divisione […]. Cittadini, capitani del popolo, ritengo che con messaggeri si debba richiedere a tutte le terre di collegarsi con noi nel buono stato comune; che con le armi, con celerità e con audacia si aiutino i deboli, si convincano gli incerti e si combattano gli ostinati" (ibid., I, 2).
Questo impianto ideologico non impedisce, tuttavia, a S. una certa critica attenzione per la grande personalità dei massimi personaggi: Federico II, per esempio, "che era stato monarca del mondo, e per tutte le contrade del mondo aveva cominciato ad essere venerato, credendo forse grazie ad esperienze matematiche di equiparare la sua natura a quella degli esseri divini, egli che prima di sbagliare aveva eguagliato i suoi costumi a quelli dei grandi, studiò con sollecita curiosità di indagare le opinioni delle cose, e di investigare con profondità le cose celesti. E così, mentre con sottili procedimenti studiava le cose naturali, venerava tanto astrologi, negromanti ed aruspici che, a seconda delle loro divinazioni e predizioni, la cangiante opinione di Federico a similitudine del vento con celere moto continuamente mutava" (ibid.), con qualche critica alle frequentazioni astrologiche di Federico; in nome di tutto questo S. sembra perfino perdonargli il desiderio di essere immortale "contra naturam corporis".
Erede della cultura scientifica espressa nell'entourage dell'imperatore è anche l'inclinazione narrativa di S. allorché narra il celebre episodio del medico di Salerno che si rende disponibile ad avvelenare Corrado, figlio di Federico II, su probabile suggerimento del fratellastro Manfredi. Costretto a letto dalla malaria, Corrado viene ucciso con un clistere a base di acqua, polvere di diagridio e diamante tritato: "il diamante ha notevole durezza, […] taglia netto ogni corpo più consistente; il diagridio […] scioglie tutto quel che tocca. E così Corrado, a causa della virulenza dell'uno e dell'altro, evacuò le viscere stracciate a pezzi" (ibid., I, 4), con buona pace degli assaggiatori di corte!
Ancora nel nome di Federico II S. salva anche la città di Napoli, giudicata "gloriosa sopra tutte le altre di Terra di Lavoro per l'amenità del sito e per la numerosa presenza dei nobili suoi cittadini" (ibid., I, 3; IX, 15): è questa la Napoli dall'aria saluberrima ricordata nelle Constitutiones Regni Siciliae (1231), nell'Encyclica (1232) e negli atti di fondazione dello Studium (1224/1238); è forse la stessa atmosfera che chiama intorno all'imperatore artisti, pittori, architetti in un'intensa vita di progetti e di costruzioni dove anche le chiese concorrono all'esaltazione della gloria di Dio (ibid., X, 24), con il conseguente sacrificio dell'ambiente e del patrimonio boschivo dove non si esitava ad abbattere alberi fruttiferi per fornire di legno l'economia urbana (ibid., IV, 4).
Fra limiti, incomprensioni, esaltazioni papiste e recensioni monarchiche, l'Historia di S. è tutta guelfa nello spirito: questa sua parzialità manifesta è anche la sua maggiore originalità perché nell'aggravare le colpe degli Svevi, degli Angiò, di ogni segmento ghibellino della società del tempo suo, S. non esita a credere nella qualità della propria narrazione, ottusamente convinto del suo pur coerente ruolo di testimone di parte.
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