SABINO, vescovo di Canosa, santo
SABINO, vescovo di Canosa, santo. – Si ignorano il luogo e l’anno di nascita. La Historia vitae inventionis translationis S. Sabini episcopi [= d'ora in poi Vita] tramanda pochi altri dati: Sabino avrebbe iniziato nel 514 il suo episcopato, che si svolse comunque entro la prima metà del VI secolo. La sua intensa attività è documentata da atti conciliari, fonti agiografiche, storico-letterarie, epigrafiche, archeologiche; rivestì un ruolo di primo piano come delegato pontificio in missioni, ambascerie e concili, tra Roma e Costantinopoli.
Nel 525 accompagnò a Costantinopoli papa Giovanni I, in una missione imposta dal re goto Teoderico per porre fine ai provvedimenti antiariani emanati nel 524 dall’imperatore Giustino. Nel 531 papa Bonifacio II convocò Sabino a Roma perché prendesse parte ad un concilio “ristretto”, insieme ad altri tre vescovi, per risolvere problematiche inerenti la supremazia giurisdizionale di Roma sulle sedi suffraganee dell’Illirico e della Tessaglia, non riconosciuta da Costantinopoli: gli atti del concilio menzionano Sabino subito dopo il papa, a conferma dell’importante ruolo svolto. Nel 535 papa Agapito I inviò Sabino a Costantinopoli per arginare la deriva monofisita della corte imperiale, sostenuta dall’imperatrice Teodora con l’elezione di due patriarchi monofisiti, Antimo a Costantinopoli e Teodosio ad Alessandria. L’anno successivo, nel concilio di Costantinopoli, presieduto dal patriarca Mena, Sabino, a capo della delegazione occidentale, difese l’operato del papa Agapito (che – inviato dal re goto Teodato – si era recato a Costantinopoli per trattare con l’imperatore il ritiro delle truppe imperiali stanziate in Italia, nel tentativo di evitare la guerra greco-gotica, ma era morto improvvisamente: ciò che aveva minato il fragile equilibrio politico-religioso raggiunto anche grazie all’azione del vescovo canosino). Sabino, primo tra i vescovi occidentali, sottoscrisse gli atti del concilio.
Dopo il 536 l’attività diplomatica di Sabino si arresta improvvisamente: Sabino non è annoverato tra i numerosi vescovi – tra cui cinque meridionali – che, tra il 546 e il 547 raggiunsero papa Vigilio a Costantinopoli, nel pieno della controversia dei Tre Capitoli.
Anche se il dato della longevità di Sabino è riportato sia nei Dialogi di Gregorio Magno sia nella Vita, l’assenza di Sabino stupisce non poco e potrebbe essere interpretata come indizio del fatto che, a quell’epoca, Sabino fosse troppo avanti negli anni, oppure impegnato in problemi particolari della sua diocesi o, infine, che fosse già morto. Queste considerazioni, accanto alla mancata menzione di Sabino nel ricco epistolario di papa Pelagio I (556-561), potrebbero indurre a ridimensionare la durata e/o ad anticipare la data di inizio del suo episcopato, fissato tra il 514 e il 566, sulla base del dato di 52 anni indicato nella Vita in riferimento alla durata. Sabino morì a Canosa il 9 febbraio.
All’attività politico-diplomatica svolta da Sabino in Oriente non fa alcun riferimento l’autore della Vita, composta in ambienti longobardi agli inizi del IX secolo. È una fonte importante per riscostruire non solo la biografia di Sabino, ma anche le fasi della sua cultualizzazione in epoca altomedievale, promossa da esponenti della dinastia longobardo-beneventana.
L’anonimo autore afferma di aver utilizzato fonti scritte, tra cui i Dialogi di Gregorio Magno, libri, codices, un epigramma, e fonti orali di tradizione ecclesiastica (Vita, cap. I, parr. 1-2, pp. 324-325; cap. V, par. 13, p. 327). Sabino, infatti, è citato in tre loci dei Dialogi in cui sono coinvolti anche Benedetto da Norcia, cui Sabino era legato da profonda amicizia, il re goto Totila e un arcidiacono invidioso (Dialogi, libro II, 15, 3; libro III, 5, 1-2, 3-4): questi episodi sono ripresi dall’autore della Vita e arricchiti di notizie e particolari.
Totila, incuriosito dalla fama di santità di Sabino e volendo metterne alla prova la capacità profetica, si sostituì al servo che gli offriva da bere, ma fu smascherato dal santo benché ormai cieco; il re goto, dopo questo episodio, avrebbe risparmiato la città di Canosa dalla distruzione (Vita, cap. III, par. 7, p. 326), dato non riportato dai Dialogi. Una vicenda analoga vede protagonista un arcidiacono, tanto ambizioso quanto invidioso, di nome Vindemio, che, volendo diventare vescovo al posto di Sabino, tentò di ucciderlo corrompendo un servo perché gli offrisse vino avvelenato; Sabino, dotato del dono della profezia, si accorse dell’inganno e, dopo aver segnato con la croce il calice, ne bevve il contenuto che, miracolosamente, non uccise lui ma Vindemio (Ibid., cap. III, par. 8, p. 326).
Sabino svolse altresì un’intensa attività di vescovo-imprenditore, prodigandosi per la costruzione di numerosi edifici di culto a Canosa: l’autore della Vita gli attribuisce l’edificazione della chiesa del Salvatore, della basilica dei Ss. Cosma e Damiano e del battistero di San Giovanni (Vita, cap. II, par. 6, p. 325); questa notizia è stata confermata, per le ultime due chiese menzionate, dal rinvenimento di laterizi con il monogramma di Sabino.
Laterizi simili sono stati trovati anche nell’area del complesso monumentale di San Pietro e in un edificio di culto di VI secolo, preesistente alla cattedrale medievale; questi edifici pertanto, grazie alle risultanze delle ricerche archeologiche, pur non essendo menzionati nella Vita, sono ascrivibili al vescovo canosino. Sabino fu quindi artefice di un articolato e innovativo progetto di cristianizzazione degli spazi che, da un lato, mirava a realizzare diversi poli religiosi all’interno della città, dall’altro, coinvolgeva anche l’hinterland della diocesi: laterizi bollati con il suo monogramma sono stati rinvenuti anche a Canne e a Barletta.
Sabino, in punto di morte, profetizzò che l’Italia sarebbe stata devastata da popolazioni barbariche e che il luogo della sua sepoltura sarebbe rimasto a lungo ignoto (Vita, cap. IV, par. 10, p. 326).
Dopo circa un secolo, un pellegrino di origine spagnola, Gregorio, gravemente ammalato, dopo l’apparizione a Spoleto del vescovo-martire umbro Sabino che gli disse di recarsi a Canosa «ad fratrem et coepiscopum Sabinum» (Ibid., cap. V, par. 14, p. 327), cominciò a cercare la tomba del santo canosino, ma senza successo. Finalmente gli apparve in visione il vescovo canosino che, dopo averlo guarito, gli rivelò il luogo della sepoltura e gli ordinò di riferire alla duchessa longobarda Teoderada di costruirvi una ecclesia; la richiesta fu esaudita e nell’ecclesia fu collocato un altare di marmo impreziosito con oro e gemme (Vita, cap. V, parr. 14-17, pp. 327 s.). Successivamente, sulla tomba di Sabino, in seguito all’apparizione del santo, si verificò anche la guarigione di un Aquitanus, cieco, sordo e deforme (Ibid., cap. VI, parr. 18-19, p. 328).
La ecclesia, già mèta di pellegrinaggi, con il passare del tempo, diventò insufficiente per accogliere i tanti fedeli che vi si recavano, attirati dalla fama dei miracoli; per questo il vescovo canosino Pietro, decise di trasferire le reliquie del santo in cattedrale. La traslazione fu segnata da eventi straordinari: le ossa trasudarono un liquido profumato; il corpo emanò una luce intensissima; Pietro, ammalatosi, guarì dopo l’apparizione di Sabino (Ibid., cap. VII, parr. 21-23, pp. 328 s.).
Il confronto serrato tra la Vita e i dati archeologici pone, tuttavia, numerosi interrogativi, non del tutto risolti, sia in riferimento all’individuazione del luogo di sepoltura di Sabino (ambiente absidato all’interno della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano; basilica di Santa Sofia, sulla collina di Lamapopoli; mausoleo absidato all’interno dell’area di San Pietro), sia in riferimento all’intervento di Teoderada (edificazione di una ecclesia sul luogo dell’inventio; edificazione di una cappella all’interno o adiacente la chiesa di San Pietro; intervento di abbellimento di una struttura già esistente). Le questioni sono tuttora aperte e riguardano anche il problema dell’individuazione della cattedrale in uso all’epoca di Sabino (chiesa di Santa Maria o chiesa di San Pietro) e della cattedrale in cui furono traslate le reliquie di Sabino agli inizi del IX secolo (chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, o edificazione di una nuova cattedrale).
Ma numerose altre inventiones e translationes caratterizzano l’iter cultuale di Sabino, a sottolineare l’importanza che le sue reliquie hanno avuto nella storia religiosa e politica delle diocesi di Canosa e Bari, un tempo unificate, che continuano a rivendicarne il possesso.
Alla fine dell’XI secolo risalgono la composizione della Historia inventionis S. Sabini episcopi Canusini (= d'ora in poi Historia), e della Vita metrica S. Sabini ad opera di Giovanni Arcidiacono. Secondo il racconto dell’Historia l’abate Elia, arcivescovo di Bari, ordinò una ricognizione sotto l’altare della cripta della cattedrale, dove si riteneva fossero custodite le reliquie dei vescovi canosini Rufino e Memore, predecessori di Sabino. Tra lo stupore generale, il 10 dicembre 1091, furono ritrovate invece le reliquie di Sabino che, secondo quanto riportato da un’iscrizione rinvenuta all’interno, sarebbero state traslate nell’851 dal vescovo canosino Angelario. Secondo l’Historia le reliquie furono ricollocate sotto l’altare, in un sepolcro di marmo, con una iscrizione che riportava la data dell’inventio: in cripta, un’iscrizione murata a sinistra dell’altare, datata al febbraio 1092, ricorda la traslazione ad opera di Angelario, l’inventio ad opera dell’abate Elia, e il riposizionamento sotto l’altare. Tuttavia i dubbi sull’autenticità del ritrovamento non sono pochi: le fonti storiche non fecero alcun cenno alla traslazione; alla metà del IX secolo Bari era una città poco sicura per traslarvi le reliquie perché sotto la dominazione araba; i materiali – stoffa e tufo – su cui era incisa l’iscrizione erano deperibili; la presenza delle reliquie di Sabino sotto l’altare non fu segnalata durante importanti interventi di ristrutturazione intrapresi dall’arcivescovo Bisanzio (1025-35).
L’inventio delle reliquie di Sabino a Bari, subito dopo l’arrivo delle reliquie di san Nicola nel 1087, ad opera di Elia, già custode delle ossa del santo di Myra, in un racconto “confezionato” da Giovanni Arcidiacono, già autore di uno dei resoconti della translatio delle reliquie di San Nicola a Bari, si configura come un’operazione strategica finalizzata a ricompattare la città e ad affermare una politica religiosa unitaria, in linea con quella di papa Urbano II, ma che fosse al tempo stesso di contenimento del clero di rito greco e di affermazione di quello latino.
Nel 1156 l’arcivescovo Giovanni (1151-69) effettuò un’altra ricognizione, ricordata in un’epigrafe collocata a destra dell’altare. Nel 1224, un ulteriore intervento, a opera dell’arcivescovo Andrea, è menzionato in un’iscrizione rinvenuta nel 1994, in occasione dell’ultimo saggio di scavo realizzato sotto l’altare della cattedrale. La ricognizione ha portato alla luce anche settantasei frammenti ossei, appartenenti a due individui di sesso maschile, di diversa età: il primo, tra i ventuno e i quaranta anni, il secondo intorno ai sessanta (Rufino e Memore?), dati biometrici che non coincidono, comunque, con quanto tràdito dai Dialogi e dalla Vita secondo cui Sabino sarebbe morto in età molto avanzata.
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