SACCHIS (de Corticellis, Regillo), Giovanni Antonio de', detto il Pordenone
SACCHIS (de Corticellis, Regillo), Giovanni Antonio de’, detto il Pordenone. – Nacque verosimilmente a Pordenone verso il 1483-84, figlio del mastro murario Angelo da Brescia (o da Corticelle, donde il de Corticellis che lo designa in alcuni documenti).
Nel primo documento noto, del 19-21 maggio 1504, Giovanni Antonio è già indicato come pittore e risulta associato a un collega di origine tedesca, Bartolomeo da Colonia: fatto non strano in una città imperiale quale Pordenone. La cultura figurativa settentrionale è del resto assai ben attestata nel Friuli di primo Rinascimento. A conferma della propria emancipazione, il successivo 16 ottobre il Pordenone sottoscrisse i patti dotali con Anastasia, figlia del maestro Stefano di Giamosa. La prima opera pittorica di cui possediamo la data è il trittico ad affresco della parrocchiale di Valeriano, raffigurante l’Arcangelo Michele tra i ss. Valeriano e Giovanni Battista, la cui iscrizione (oggi pressoché illeggibile ma riportata da Venturi, 1908, pp. 457 s.) suona: «Miser Durigo de / Lasin a fato far questo / S. Michiel per sua devotione / MDCCC: VI. Adì 6 / Zuane Antonio de Sacchis / abitante in Spilimbergo». Il 15 gennaio 1507 il Pordenone fu testimone, in Cordovado, alla consegna della dote al pittore spilimberghese Michele Stella (Pecoraro, 2007, pp. 104, 168 s.). L’informazione della residenza di Giovanni Antonio a Spilimbergo è confermata da un documento del 19 ottobre 1507 che elenca il pittore tra i periti incaricati del collaudo di una perduta pala di Gianfrancesco da Tolmezzo per Castel d’Aviano (Goi, 1991, p. 45, e le precisazioni di Furlan - Francescutti, 2015, p. 669). Il trittico presenta lo stemma della famiglia Savorgnan, la cui protezione potrebbe aver favorito gli inizi del pittore, inserendoli in un contesto più ampio di quello strettamente locale (Fossaluzza, 2014, p. 84).
La formazione del Pordenone rimane incerta: Giorgio Vasari, fin dalla prima edizione delle Vite (1550), ne faceva un sostanziale autodidatta. Giuseppe Fiocco (1939, pp. 23, 112; Id., 1969, pp. 27, 136) proponeva di riconoscere il nostro pittore nel Giovanni Antonio documentato a Ferrara come aiuto di Pellegrino da San Daniele nel 1500; a conferma si leggeva come opera iniziale del Pordenone una Madonna col Bambino, firmata e datata «Opus Io. Antonii 1500» del Museum of fine arts di Springfield, ora riportata alla corretta paternità di Giovanni Antonio Bazzi (Buitoni, 2013). Gli studi più recenti collocano gli esordi del pittore nella realtà artistica del Friuli, in particolare vicino a Gianfrancesco da Tolmezzo. Alla koiné tolmezzina guardano il trittico di Valeriano e altri due affreschi giovanili a Pordenone: una frammentaria Maddalena del Museo civico di palazzo Ricchieri, proveniente da S. Francesco, e la Madonna su un pilastro del duomo. Queste opere mostrano anche il tentativo di aggiornamento su modelli più moderni: la Madonna del duomo sembra ispirata a quella di Andrea Mantegna della Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo, databile verso il 1470, mentre il S. Valeriano del trittico datato 1506 sfoggia una volumetria più decisa, da leggere probabilmente in direzione della cultura trevigiana tra Giovanni Buonconsiglio, Pier Maria Pennacchi e, in minor misura, il giovane Lorenzo Lotto. Rimane poi il problema degli affreschi nella volta del presbiterio dell’oratorio di S. Gerolamo a Marzinis, in passato attribuiti a Gianfrancesco da Tolmezzo e oggi ritenuti un incunabolo pordenoniano intorno al 1502 (Furlan - Francescutti, 2015). La proposta rafforzerebbe l’ascendenza della scuola tolmezzina sulla primissima attività di Giovanni Antonio. Va tuttavia osservato che questi affreschi mostrano una propensione alla tridimensionalità che il Pordenone sembra raggiungere solo in itinere del trittico di Valeriano, ma che manca in un altro affresco della primissima attività quale il Dio Padre con il Tetramorfo affrescato nel cupolino della parrocchiale di Gaio e persino nelle figure di s. Michele e del Battista nello stesso affresco del 1506. Somiglianze sono state individuate tra Marzinis e le pareti del coro di S. Andrea Apostolo a Cordovado (la cui volta fu decorata da Gian Francesco da Tolmezzo: Casadio - Portolan, 2002).
Un ruolo cardine nello sviluppo dello stile del Pordenone è costituito dagli affreschi del presbiterio di S. Leonardo a Vacile. L’impianto compositivo della decorazione della volta è ancora in debito con la tradizione tolmezzina, così come le mezze figure del sottarco d’ingresso e alcune delle immagini delle vele (a partire dal Cristo risorto, e leggendo in senso orario) si legano al linguaggio del trittico di Valeriano. Tuttavia, man mano che si avanza nella decorazione lo stile si fa più libero nel disegno e fuso nel colore: probabile lo studio di modelli più moderni e veneziani quali gli affreschi della Scuola del Santo a Padova (Lucco, 1975), e le opere giovanili, tra Brescia e Ghedi, del Romanino (Villata, 2016, p. 18).
Impianto veneziano, pur non aggiornatissimo, presenta la Madonna col Bambino tra i ss. Pietro, Prosdocimo, Barbara e Caterina delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, proveniente dal castello di S. Salvatore di Collalto, e forse prima (Furlan, 1988, p. 53) dalla locale chiesa di S. Pietro. Essa reca l’iscrizione «PRESBITER HOC PETRVS FECIT COMPONERE / QVADRVM / MDXI», che ci offre un riferimento per la cronologia del Pordenone (ne risulta pertanto che gli affreschi di Vacile cadono tra il 1506 di Valeriano e il 1511 della pala in questione). Se l’ipotesi che il committente sia Pietro Marcello consolida l’evidenza della frequentazione veneziana, l’inserimento del Pordenone nell’orbita dei Collalto può dipendere dal contatto con la famiglia Savorgnan, dato il matrimonio di Elisabetta Collalto con Giovanni Savorgnan (Fossaluzza, 2014, p. 84).
Il legame con i Collalto è confermato dalla decorazione a fresco della chiesa di S. Salvatore nell’omonimo centro, distrutta durante la prima guerra mondiale, e dai Ss. Rocco, Gerolamo e Sebastiano oggi nella sacrestia della chiesa della Salute a Venezia, cui sembra connettersi per stile il S. Erasmo su un pilastro del duomo di Pordenone. Gli affreschi in S. Salvatore sarebbero stati eseguiti in due momenti secondo Fabio Di Maniago e Giovanni Battista Cavalcaselle, che riteneva il 1513 un ante quem; la pala veneziana parrebbe collocarsi intorno al 1514, mostrando i frutti della meditazione sui modelli giorgioneschi, iniziata nell’ancona della parrocchiale di Vallenoncello, raffigurante la Madonna col Bambino tra i ss. Ruperto, Sebastiano, Leonardo e Rocco. Viceversa gli affreschi già nella chiesa lateranense di S. Antonio Abate a Conegliano, oggi nel locale Museo civico (la data scomparsa è letta dalle fonti 1514 assieme al nome del committente Lorenzo da Salò: Fossaluzza, 2014, pp. 136-138), rivelano l’attenzione a una fase ancora più moderna della pittura veneziana, come a voler accerchiare Tiziano a partire dalle più facili declinazioni di Palma il Vecchio.
Giovanni Antonio, che l’8 maggio 1513 si era risposato a Pordenone con Elisabetta de’ Quagliati, si accordò il 10 settembre 1514 con i camerari di S. Ulderico e il podestà di Villanova sul pagamento per la già iniziata decorazione del presbiterio della chiesa. Il 14 dicembre gli fu commissionata da Gian Francesco (detto Cargnelutto) da Tiezzo la Madonna della Misericordia con i ss. Cristoforo e Giuseppe per il duomo di Pordenone: il pittore s’impegnò a consegnarla entro la Pasqua successiva (come già a Villanova, il notaio del contratto fu l’umanista Gerolamo Rorario). Il 17 dicembre 1515 presenziò al testamento dello stesso Tiezzo, rogato in Pordenone da Girolamo Mottense. Lo stesso notaio, il 3 giugno 1516, stese il contratto tra Giovanni Antonio e la chiesa di S. Lorenzo a Rorai Grande per gli affreschi con soggetto mariano del presbiterio (oggi cappella laterale); mentre l’8 settembre il Comune di Udine accordò all’artista un pagamento di 12 ducati per la già dipinta Madonna della Loggia.
La pala della Misericordia presenta figure d’inedita monumentalità e libertà nei movimenti, animate da una vena eccentrica. Entrambe le caratteristiche avevano già fatto capolino nella Madonna col Bambino tra i ss. Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria, Pietro, Daniele e un angelo musicante della parrocchiale di Susegana, databile sul 1513, tra Vacile e Villanova. Questo umore sulfureo trova i propri esiti definitivi in due opere ancora di committenza Collalto. Una è la tavola con le mezze figure dei Ss. Pietro e Prosdocimo (The Raleigh Art Museum) che insieme a un pendant di attuale ubicazione ignota, raffigurante i Ss. Gerolamo e Giovanni Battista, faceva probabilmente parte di un perduto polittico: essa rappresenta il culmine dell’inquietudine già sperimentata a Susegana, cui dovrebbe essere cronologicamente contigua (così come il S. Rocco affrescato in duomo a Pordenone, su incarico di un non meglio precisato Angelo di Zoan da Ferrara, tradizionalmente ritenuto un autoritratto). Ma il contatto con il radicale anticlassicismo, o se si vuole con il tizianismo paradossale del Romanino, qui ancora agli inizi, si amplifica a Villanova e trova la sua massima espressione nella Trasfigurazione della Pinacoteca di Brera, che a Collalto si trovava montata in trittico con le due tavole di Raleigh e di ubicazione ignota. L’influenza di Tiziano appare forte proprio nelle opere di metà decennio: il paesaggio della pala Tiezzo è prossimo a quello del Noli me tangere del Vecellio, così come la mutila Madonna della Loggia.oggi nel Museo civico di Udine (documentata al 1516) rielabora la posa della Vergine nella Sacra Famiglia tizianesca della National Gallery of Scotland a Edimburgo (Rearick, in Il Pordenone, 1985). In questo momento, circa 1515-16, cade anche la prima fase della decorazione del presbiterio di S. Pietro a Travesio, limitata alla volta raffigurante S. Pietro accolto in Paradiso e Storie della vita del santo (i pagamenti ebbero luogo tra il 1517 e il 1518).
Segue un periodo in cui i documenti si diradano: il 19 febbraio 1517 Giovanni Antonio fu teste a un atto in Pordenone, dove ricomparve il 12 gennaio dell’anno successivo. In quest’occasione Pantasilea Baglioni, governatrice di Pordenone per conto del figlio minorenne Livio d’Alviano, concesse all’artista la terza parte, ereditata dalla moglie, di un maso sito a Villanova. Il 14 gennaio 1518 fu eletto a collaudare una pala di Giovanni Martini a Udine, ma il successivo 25 gennaio ancora non vi si era recato. Poco dopo decise di assentarsi, nominando il 4 febbraio un procuratore. Non abbiamo più sue notizie fino al 22 settembre, quando è nuovamente attestato in Pordenone. Allo stesso anno risale il S. Cristoforo affrescato sulla facciata della chiesa di S. Martino al Tagliamento. Non ci sono altre attestazioni della presenza in città di Giovanni Antonio fino al maggio successivo: anzi l’11 gennaio 1519 era assente, dato che il fratello Baldassarre figurò come suo procuratore.
Visto il cambio di passo stilistico esibito dagli affreschi della cappella Malchiostro nel duomo di Treviso, firmati e datati 1520, impensabili senza una diretta conoscenza delle più aggiornate novità romane, e l’assenza di documenti relativi a Giovanni Antonio tra il febbraio 1517 e il gennaio 1518, tra il febbraio e il settembre del medesimo anno e di nuovo fino a maggio 1519, si impone l’ipotesi di un soggiorno del Pordenone nell’Urbe. Esso fu probabilmente favorito dalla governatrice della città friulana, dato che troviamo l’artista attivo proprio ad Alviano in Umbria, nel palazzo della famiglia del marito di Pantasilea Baglioni (fregio all’antica in tre ambienti al piano terra), e nella locale parrocchiale di S. Pietro, dove realizzò un affresco raffigurante la Madonna col Bambino, i ss. Silvestro e Gerolamo, angeli musicanti e offerente. Quest’opera, talvolta considerata dei primi anni Trenta (Furlan, 1988, pp. 168-174), mostra un classicismo ormai maturo che denuncia lo studio del Raffaello romano, in modo particolare della Madonna di Foligno e degli affreschi in S. Maria della Pace (nell’impostazione cromatica e nella posa di alcune figure, come il s. Silvestro che riprende in controparte uno dei profeti della cappella Chigi, leggibile attraverso un’anonima copia cinquecentesca nel Victoria and Albert Museum di Londra). Come già appariva chiaro a Juergen Schulz (1967) e a John Shearman (1983), anche la volta della cappella Malchiostro (distrutta nei bombardamenti del 1944), caratterizzata dall’invenzione del Dio Padre che si getta nel vuoto sostenuto da una nuvola di angeli, rappresenta un’evoluzione in senso spettacolare e illusivamente drammatico della cupola raffaellesca della cappella Chigi in S. Maria del Popolo. Che il Raffaello decisivo per il Pordenone sia quello ‘pubblico’ degli anni 1511-13 fa pensare che, tra le finestre documentarie disponibili per il soggiorno centroitaliano del pittore, quella che occupa quasi per intero il 1517 sia la preferibile. Tale lettura è compatibile con l’esibito ancorché personalissimo michelangiolismo delle scene affrescate sulle pareti della cappella Malchiostro (Visitazione, Adorazione dei Magi, Augusto e la Sibilla), difficile da spiegare solo con l’eventuale conoscenza del cartone della Battaglia di Cascina. Non si può escludere che da Alviano Pordenone abbia raggiunto anche Firenze, in quanto negli affreschi di Cremona, iniziati nello stesso 1520, emerge qualche ricordo della Battaglia di Anghiari di Leonardo.
Bernardo Malchiostro, patrono della cappella dedicata all’Annunciazione, era l’ambizioso e poco amato vicario del vescovo Bernardo de’ Rossi (Smyth, 2010): che la pala d’altare sia opera di Tiziano, a queste date ormai il più prestigioso pittore veneto, è testimonianza chiara della crescita della fama di Giovanni Antonio.
Il pittore risulta a Pordenone il 23 marzo e l’11 giugno 1520, allorché ricontrattò l’allogazione della pala d’altare della parrocchiale di Torre, rimasta sin lì inevasa: la consegna dell’opera era prevista per Natale, il collaudo venne deciso il successivo 14 febbraio 1521. Il dipinto, tra i più riusciti di Giovanni Antonio, condivide il linguaggio monumentale della cappella Malchiostro, esaltato da un’abbagliante luminosità.
Il 20 agosto 1520 Pordenone firmò una convenzione con i neoeletti massari del duomo di Cremona per l’esecuzione degli affreschi su tre arconi della parete destra della navata centrale verso la controfacciata e della controfacciata stessa, a conclusione del ciclo cristologico avviato nel 1514 e che aveva via via coinvolto Boccaccio Boccaccino, Altobello Melone, Gian Francesco Bembo e Gerolamo Romanino. Il compenso complessivo venne previsto in 1500 lire imperiali, a patto che gli affreschi risultassero di qualità pari a quelli in corso d’opera, da parte del Pordenone, nella casa di Paride Ceresara a Mantova. Si apprende così che Giovanni Antonio era in quel momento impegnato in un altro prestigioso cantiere, subentrato proprio all’inadempiente Romanino. Si previde un andamento spedito: entro l’anno in corso l’esecuzione dei dipinti sugli arconi (previa accettazione dei cartoni preparatori, e quindi approvazione del primo arcone); entro il 29 settembre dell’anno successivo la controfacciata. Il pittore rispettò sostanzialmente i patti, dal momento che il 20 ottobre 1520, eseguita la scena del primo arcone (Giudizio di Pilato e incoronazione di spine), gli vennero confermate le due rimanenti (Salita al Calvario e Cristo inchiodato alla croce). La Crocifissione sulla controfacciata reca la data 1521; l’8 ottobre di quest’ultimo anno, infine, gli vennero corrisposte all’autore 150 lire imperiali per il Compianto su Cristo morto, sempre in controfacciata. L’impegno cremonese portò il Pordenone a trascurare altri lavori: il 29 aprile 1521 la decorazione del presbiterio della chiesa di Rorai, lasciata da lui interrotta, venne affidata a Marcello Fogolino, mentre il 25 luglio giunse da Mantova una sollecitazione da parte di Ceresara al pittore, definito «amico charissimo in Cremona» (Geiger, 1912, pp. 513 s.); inutile, peraltro, se un’altra, da parte dello stesso marchese Federico Gonzaga, giunse il 26 settembre 1522. Tanta familiarità fa il paio con le espressioni superlative utilizzate nei confronti del Pordenone dai documenti cremonesi (viceversa l’espressione pictor modernus con cui è designato in alcuni di essi significa solo che egli era l’ultimo di una serie di pittori succedutisi a dipingere sulle pareti del duomo): del resto Giovanni Antonio era stato fortemente voluto dai nuovi massari, al punto di impugnare la decisione dei loro predecessori, che in scadenza di mandato avevano affidato la prosecuzione dei lavori al Romanino. A Mantova come a Cremona Pordenone era ormai un nome di prestigio, avvertito come un’alternativa più ‘moderna’ (cioè più romana) a Romanino.
Nel succedersi delle scene il pittore enfatizza la violenza come elemento dominante delle azioni umane e l’espansione dei volumi e delle anatomie, di un michelangiolismo stravolto e portato al grottesco; dalla lezione di Michelangelo deriva anche la sostanziale rinuncia a una definibile ambientazione per portare le figure sul proscenio, pronte a uscire dallo spazio fittizio per occupare illusivamente quello reale dell’osservatore. Per ottenere questi risultati Giovanni Antonio non si fa scrupolo di interrompere la cadenza sin lì osservata di due storie per ogni arcone, occupando con una sola scena lo spazio di ciascuna campata. La climax espressiva, che raggiunge l’apice nella Crocifissione, si placa poi d’improvviso nel sottostante Compianto, in cui Pordenone riallaccia i rapporti con il tradizionale illusionismo prospettico padano, probabilmente favorito dal contatto con le tarsie dei Platina in duomo e soprattutto con il ‘lignamario’ cremonese Paolo Sacca (Villata, 2016, pp. 45, 48 s.). Analoga decantazione stilistica, attenta anche alla coeva pittura milanese, si ritrova nella pala raffigurante la Madonna col Bambino e i ss. Filippo e Giacomo e il donatore Giacomo Schizzi, commissionata dall’arciprete del duomo di Cremona ed eseguita nel 1522 (Ballarin, 2009).
Terminati gli affreschi a Cremona, Giovanni Antonio tornò a Pordenone, dove tra il febbraio e l’aprile del 1522 ottenne l’incarico di un gonfalone per Vallenoncello, raffigurante il Cristo morto con due angeli, e parte del pagamento per una pala destinata alla chiesa dei Ss. Giacomo e Filippo di Strada sopra Valvasone: entrambe le opere sono perdute. Il 5 giugno nominò Girolamo Rorario suo procuratore, e il 31 agosto lo si ritrova nuovamente a Cremona, ove si impegnò a eseguire affreschi oggi scomparsi con storie della Passione per il refettorio del convento eremitano di S. Agostino. I lavori dovevano terminare entro fine anno per un compenso di 500 lire imperiali, previo collaudo di un pittore, del priore e di Paolo Sacca. Dal maggio del 1523 all’aprile del 1524 Giovanni Antonio risulta a Pordenone; dal 15 luglio al 7 agosto 1524 ricevette pagamenti per i dipinti della cassa e delle ante dell’organo di S. Maria a Spilimbergo.
Le ante mostrano aperte la Caduta di Simon Mago e la Conversione di Saulo, chiuse l’Assunzione della Vergine. Sono state proposte letture anti oppure filoprotestanti (rispettivamente Cohen, 1975, e Calì, in Il Pordenone, 1985), ed è probabile che la scelta iconografica rifletta sì ansia di riforma, ma entro un’indiscussa fedeltà alla Chiesa romana. Sul piano stilistico le tele di Spilimbergo, così coraggiose nello spalancare spazi aperti e nello spettacolare dinamismo, si connettono strettamente agli affreschi nel mausoleo Pallavicino e nella cappella della Concezione nella chiesa dell’Assunta di Cortemaggiore, databili sul 1525-26 (mentre la pala con la Disputa sulla Concezione, oggi a Capodimonte a Napoli, sembra già opera degli anni Trenta: Villata, 2016, p. 57). La conferma di tale cronologia (che vale anche per la tela raffigurante il Compianto su Cristo morto nella medesima chiesa e la Pietà nella collegiata di Cortemaggiore) è fornita dalla pala con i Ss. Gottardo, Rocco e Sebastiano commissionata dall’omonima confraternita di Pordenone il 13 ottobre 1525 e oggi custodita nel locale Museo civico. Si conferma l’acquietarsi dell’estremismo di Cremona, mentre compare un fittissimo dialogo con le opere parmensi del Correggio. Al periodo che segue immediatamente Cremona appartiene anche il S. Francesco incoronato di Gallipoli, ricco di umori eccentrici, il cui ante quem è il 1523 della pala di Fogolino nel duomo di Pordenone (Tanzi, in corso di stampa).
Come risulta da un pagamento del 24 novembre 1524 Pordenone risiedette qualche tempo a Spilimbergo, e da lì verosimilmente si recò a Valeriano per affrescare la facciata della chiesa dei Battuti (ne ottenne il pagamento il 1° ottobre); un lavoro perduto per S. Martino al Tagliamento gli venne pagato nel 1525, anno cui risale anche il rovinato affresco mariano realizzato a Pinzano. I documenti lo confermano a Pordenone il 1° febbraio e il 3 maggio 1525 (e, come visto, in ottobre, mentre il 30 novembre, a Lestans, ricevette l’incarico per la perduta decorazione del presbiterio della parrocchiale), e di nuovo, con una certa continuità, tra il gennaio e il luglio 1526. Il 26 aprile 1526 ottenne la commissione per un polittico destinato alla parrocchiale di Varmo, tuttora in loco, per il quale ricevette pagamenti dal luglio 1526 al gennaio 1527. Dal regesto del Pordenone risulta che la più probabile finestra cronologica per l’esecuzione degli affreschi di Cortemaggiore, che indizi esterni e motivi di stile collocano sul 1525-26, sia il maggio-ottobre 1525. 1526 era la data letta ancora da Giovanni Battista Cavalcaselle nella Fuga in Egitto affrescata a Blessano e ora conservata, in pessime condizioni, nel Museo civico di Pordenone.
Il 1527 vide la realizzazione degli affreschi nella cappella di S. Sebastiano in S. Martino a Pinzano, per i quali il pittore ricevette pagamenti dal 10 marzo al 28 gennaio 1528, e soprattutto del ciclo parietale nel presbiterio di S. Pietro a Travesio, caratterizzato da una cornice architettonica entro cui si collocano scene cristologiche e paoline: in particolare la Decollazione di Paolo, con la veduta urbana a cannocchiale e l’irrompere di personaggi contemporanei nella cornice architettonica, anticipa soluzioni destinate a grande fortuna nella pittura veneta. Il 30 marzo 1527 Pordenone si propose al consiglio cittadino di Udine per le pitture della cantoria dell’organo nel duomo, per le quali era già stato contattato Pellegrino da S. Daniele (la determinazione in suo favore ebbe luogo il 28 ottobre, il pagamento il 5 gennaio 1528). Il 30 giugno 1527 ottenne il saldo per la solenne Natività, affiancata da una piccola Fuga in Egitto, con cornice illusiva a mo’ di pala d’altare affrescata all’interno della chiesa dei Battuti di Valeriano. Nello stesso anno realizzò le portelle mobili di un altare ligneo per Venzone, note da copie antiche (Palazzetti, 1999-2000 [2006]). Tra il 1527, il 1528 e il 1529 s’incontra spesso il pittore nella sua città, impegnato in affari immobiliari; più interessante il contratto per gli affreschi del coro di S. Rocco a Venezia, primo lavoro importante nella Dominante, stipulato il 9 maggio 1528 (saldo 21 marzo 1529): oltre agli affreschi sostanzialmente perduti, il Pordenone realizzò le tavole raffiguranti S. Cristoforo e S. Martino e fornì probabilmente il disegno per il marmoreo altare maggiore, opera di Bartolomeo Bergamasco (Markham Schulz, 1984).
Al 1530 risale il Leone di s. Marco affrescato sulla porta di città verso Ceneda di Conegliano, ma soprattutto, il 15 febbraio, il primo contratto per gli affreschi nel santuario civico di S. Maria di Campagna a Piacenza. Il primo lotto di lavori prevedeva la decorazione del tiburio e della cappella di S. Caterina (comprensiva di pala d’altare), di patronato di Francesco Pavaro, rettore del santuario. Considerando che il tiburio non venne mai terminato dal Pordenone (compito che spettò poi a Bernardino Gatti, detto il Soiaro), dobbiamo credere che l’affrescatura cominciasse proprio dalla cappella.
Se le Storie di s. Caterina parlano ancora il linguaggio della Natività di Valeriano, la pala d’altare e la cupola esibiscono una svolta apertamente manierista, con figure allungate e dalle pose ricercate, caratterizzate dalla volontà di fare di ogni scena una vera e propria summa di cultura figurativa, senza peraltro cadere mai nell’eclettismo. Pare evidente l’apertura di un confronto con il Parmigianino, che si conferma puntualmente anche nell’esame dei disegni coevi.
Capolavoro manierista è anche la pala per l’altar maggiore del duomo di Pordenone, pagata grazie alle offerte dei fedeli tra il 1532 e il 1538. Il 1° aprile 1533 Pordenone ricevette la dote di 200 ducati da parte della futura terza moglie Elisabetta Frescolini (sorella di un notaio di sua fiducia), e il 6 maggio, a Castions di Zoppola, ottenne il pagamento per i perduti affreschi della parrocchiale. Continuavano gli acquisti di terreni, ma non mancarono le liti con i fratelli per questioni di eredità nel 1531 (il pittore risultò perdente) e di nuovo nel 1533, con epilogo cruento: nel 1534 Baldassarre denunciò il fratello Giovanni Antonio di furto e di aver attentato alla sua vita mediante imboscata, nella quale rimase ucciso tale Pasqualino Vissa (sentenza assolutoria pronunciata il 25 aprile 1535). Il 22 gennaio 1534 Pordenone ricevette una prima rata per la pala raffigurante la Trinità, dall’omonima confraternita di S. Daniele del Friuli, città in cui risulta presente il successivo 21 febbraio. 1° maggio 1534 è datata la predella con Storia di s. Rocco oggi all’Accademia Carrara di Bergamo, forse un tardo completamento della pala di S. Gottardo in Pordenone. Il 29 giugno venne steso il contratto di matrimonio tra Graziosa, figlia di Giovanni Antonio, e il pittore Pomponio Amalteo, il più importante e fedele seguace del Pordenone.
A questi anni risalgono anche opere di grande decorazione, come gli affreschi delle facciate di palazzo Tinghi a Udine (già citati in un documento del 15 dicembre 1534) e di palazzo Talenti (poi D’Anna) a Venezia (De Maria, 2004), la decorazione interna del convento di S. Stefano a Venezia (lacerti conservati, dopo lo strappo, alle Gallerie dell’Accademia) o di elegantissima maniera, quale il Noli me tangere (Museo archeologico di Cividale) dipinto prima del luglio 1534 per la cappella della Maddalena in S. Maria a Cividale, su probabile incarico di pre’ Andrea Damiani. A questo momento dovrebbe risalire anche la fugace apparizione a Genova, per dipingere al posto di o accanto a Perin del Vaga in palazzo Doria a Fassolo, salvo (come afferma Vasari) esservi presto sostituito da Domenico Beccafumi.
Nulla sappiamo di un S. Michele dipinto prima dell’agosto 1534 per ser Battista Capitano di Solimbergo, né del mulino a tre ruote che lo stesso Giovanni Antonio edificò a Pordenone (settembre 1534). Il 24 aprile 1534, grazie ai buoni uffici di Girolamo Rorario, nunzio apostolico alla corte magiara, Pordenone ricevette dal re di Ungheria Giovanni I una patente di nobiltà trasmissibile: si tratta di un tassello importante nella strategia autopromozionale del pittore, che, pur mantenendo saldi legami con la terra di origine, puntava ormai all’affermazione a Venezia. Così i ‘nobili consorti’ di Valvasone, che il 25 maggio gli avevano commissionato le ante d’organo per la loro parrocchiale, dopo aver corrisposto un anticipo nel gennaio 1537 e mandato il 18 luglio 1538 un emissario a Venezia, dove nel frattempo il pittore si era trasferito, in seguito alla sua morte dovettero accontentarsi dell’opera di Pomponio Amalteo, che lavorò sui disegni del suocero (alcuni studi preparatori sono oggi all’Ambrosiana di Milano e agli Uffizi).
Nell’agosto 1535 il Consiglio dei dieci di Venezia pregò, tramite i buoni uffici di Pietro Scarpon, la comunità di Piacenza di sopportare un ritardo nel rientro del Pordenone per attendere all’affrescatura della cappella della Vergine in S. Maria di Campagna, in quanto il pittore era attualmente impegnato in una sala del palazzo ducale (probabilmente il soffitto e alcuni fregi della Libreria); il 10 settembre gli fu commissionata una pala dedicata a S. Giacomo, perduta, per la chiesa di S. Felice. Nel 1536 uscì il Primo libro di Sacripante di Ludovico Dolce, recante nel frontespizio una xilografia basata su un disegno del Pordenone (oggi in Ambrosiana), che si conferma così pienamente inserito nelle committenze e nella vita intellettuale di Venezia. Nel frattempo anche la cappella della Vergine a Piacenza risulta già compiuta in un documento del 31 dicembre 1536. Il successo veneziano di Pordenone fu tale da mettere in pericolo la commissione a Tiziano per la sala del Maggior Consiglio. La proposta di sostituire il Vecellio con Giovanni Antonio, avanzata dai procuratori del Sale, fu respinta il 30 novembre 1537 dal Consiglio dei dieci: ma Pordenone riuscì comunque a ottenere la commessa di altri dipinti destinati al medesimo ambiente. Poco prima, tra il 21 settembre e il 15 ottobre, si era arrivati alla composizione della controversia (che in realtà ebbe una coda giudiziaria nell’anno successivo) tra Pordenone e i padri di S. Maria dell’Orto, quasi certamente originata dalla pala raffigurante il beato Lorenzo Giustinian con santi e fratelli turchini, dipinta verso il 1530 (Pierguidi, 2006) per volontà di Angelo Frescolin. Tra le opere eseguite a Venezia nella seconda metà degli anni Trenta si ricordano le tavole del soffitto della sala terrena nella Scuola di S. Francesco ai Frari, la pala d’altare con i Ss. Rocco, Sebastiano e Caterina e gli affreschi del cupolino e del portico esterno in S. Giovanni Elemosinario, e i cartoni per alcuni mosaici di facciata per la basilica di S. Marco. L’ultima opera eseguita dal Pordenone fu probabilmente l’Annunciazione in S. Maria degli Angeli a Murano, realizzata secondo Vasari in sostituzione di una, troppo onerosa, di Tiziano.
Il 16 settembre 1538 il duca Ercole II d’Este scrisse a Iacopo Tebaldi, suo ambasciatore a Venezia, inoltrando al Pordenone una richiesta di trasferimento a Ferrara, per attendere ad alcuni cartoni destinati ad arazzi con Storie dell’Odissea. Pare probabile, anche sul piano figurativo (alcuni disegni per le ante d’organo di Valvasone sembrano memori dei dipinti tizianeschi per il Camerino di Alfonso I, troppo vecchi perché Giovanni Antonio avesse potuto vederli in corso di esecuzione a Venezia), che qualche contatto tra il pittore e la corte estense ci fosse già stato, e anzi che Pordenone avesse già brevemente soggiornato in città (Villata, 2016, p. 120). Il pittore accettò l’invito (dispaccio del Tebaldi del 18 settembre), salvo tergiversare alquanto: ma il 12 dicembre tutto era pronto per la partenza.
Pordenone soggiornò a Ferrara a partire dal 24 dicembre (Scardino, in corso di stampa). Già il 14 gennaio 1539, però, ne veniva registrata la sepoltura in S. Paolo a Ferrara.
L’assistenza ricevuta presso l’osteria della Campana annessa all’ospedale di S. Anna, durante la fulminea malattia, sembra far cadere i sospetti, circolati molto presto, di un avvelenamento (ibid.).
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