SACERDOZIO
. Il sacerdote è il rappresentante di una comunità nelle sue relazioni con le potenze divine, ma può eventualmente essere anche il rappresentante di queste potenze di fronte alla comunità stessa. Non sempre, non ovunque e neppur fino dall'origine il sacerdozio è stato un'istituzione a sé. Talvolta la dignità di capo di famiglia o di capo della tribù si fonde con quella di sacerdote, sicché, in senso fenomenologico, si può asserire, sebbene non si possa provare storicamente, che il primo sacerdote sia stato il padre di famiglia, la prima sacerdotessa la madre. Il sacerdote nella sua qualità di rappresentante compie una funzione ufficiale, e in essa rientra tanto il lato soggettivo della religione (l'uomo si presenta a Dio, gli parla, ecc.) quanto quello obiettivo (Dio si rivela all'uomo, gli parla, ecc.): per mezzo del rappresentante si compie la partecipazione della comunità alla potenza sacra, e per mezzo di lui essa tenta di conciliarsi la potenza, con preghiere, sacrifici, ecc. Perciò la personalità del sacerdote ha un valore nullo o secondario: essenziale è la carica di cui è investita. Una delle più antiche figure di sacerdote è il re, che presso i popoli primitivi e dell'antichità è responsabile, nel senso più lato, di fronte alla potenza divina del comportamento del suo popolo. Presso gli antichi Egizî, p. es., il re compie - per lo meno idealmente - ogni sacrificio, secondo la formula "Sacrificio, che il re dà", oppure, secondo un'altra versione: "Il re sia grazioso e dia". Anche nella regalità ha valore la carica e non la persona: in determinate circostanze il re può venerare sé stesso poiché investito della carica, come si verifica tanto presso i primitivi quanto presso gli antichi Egizî. Ma la carica sacerdotale trova la sua base nel possesso della "potenza" nel senso religioso. Questa potenza distingue il proprio rappresentante dagli altri membri della comunità, conferendogli un valore superiore a quello che ha come individuo. Egli rappresenta seriamente una parte. Perciò si distingue anche esteriormente da coloro che rappresenta, nel vestiario ufficiale, nella lingua ufficiale, originariamente anche portando una maschera, rappresentante il dio o uno spirito. In questo egli è simile allo stregone-medico (v. sciamanismo), le cui funzioni, nelle civiltà primitive, si distinguono appena da quelle del sacerdote. La funzione rappresentativa del sacerdote ha sempre destato il sospetto della frode: il sacerdozio - così opina ancora Randolph Ch. Darwin - si basa sull'inganno esercitato da una casta avida di beni e di autorità. Quest'ipotesi, respinta ormai comunemente da tutti gli studiosi serî, disconosce il valore dell'idea religiosa su cui è basata l'autorità della carica, in virtù della quale l'individuo agisce mosso da una forza estranea e soprannaturale. Ciò non significa che l'autorità sacerdotale non si sia mai e in nessun luogo basata sull'inganno; ma il sacerdozio come istituto ha la sua origine nella fede che la potenza divina si riveli attraverso un suo rappresentante: il sacerdote ne è il ministro accreditato presso la comunità.
Si può parlare di vero e proprio sacerdozio solo quando questa carica si è staccata da quella di capo della famiglia o della tribù. Questa differenziazione dipende dalla distinzione di una sfera di attività generale, puramente sociale, e di una, specificamente religiosa: il capo tribù o il re esercita l'autorità temporale, il sacerdote la spirituale. Questa differenziazione si è venuta però delineando a poco a poco nel corso della storia e ancor oggi la regalità rivela caratteri sacri, mentre il sacerdozio non rinunzia completamente a pretese "profane" o "mondane". Una non piccola parte della storia delle religioni ha per motivo fondamentale le lotte fra le due potestà: in Egitto i Faraoni dovettero combattere la crescente autorità dei sacerdoti di Amon, divenuti talvolta signori effettivi del paese; a Roma la dignità regale, cioè sacerdotale, giuridica e militare, fu divisa tra il console e il Rex sacrorum, che a sua volta mantenne solo il nome dell'antica carica di re sacerdote, di fronte all'altra classe sacerdotale dei pontifices; nell'Europa medievale papa e imperatore si ergevano l'un contro l'altro. Se il sacerdozio si differenziò solo nel corso della storia dalle cariche "secolari" ma in origine anch'esse "spirituali", si staccò invece quasi subito dalla mediazione (tra l'uomo e la divinità) di carattere estatico, così da quella dello stregone-medico come da quella del profeta: il sentimento di essere totalmente dominati dalla divinità si acquieta, per così dire nel sacerdozio; da occasionale, l'accrescimento di potenza religiosa, in esso si normalizza. Ciò non toglie che il sacerdote non si senta altrettanto potente quanto il mistico: per eredità, o per consacrazione o per mezzo di entrambe, il sacerdote acquista una potenza, che talvolta diventa sovrumana, come nel caso classico dei brahmani, che attraverso il compimento dei sacrifici rituali governano l'universo, compresi gli dei. Ma nel sacerdozio il sentimento del possesso da parte della divinità si è concentrato principalmente nella celebrazione del culto. A garantire il successo dei riti che devono assicurare la prosperità alla comunità, non basta l'autorità ottenuta, occorre osservare una serie di prescrizioni; tra le più importanti di esse sono da annoverare la perfezione fisica e una serie di tabu. Così in Roma il flamen dialis era sottoposto a numerose restrizioni riguardanti il cibo, il sonno, l'attività, l'abbigliamento, ecc. Talvolta l'autorità sacerdotale è accresciuta dalla gerarchia, in virtù della quale l'autorità si potenzia in certi uffici i quali rispondono dell'effettiva esistenza dell'autorità stessa anche nei gradi più umili. Ufficio del sacerdote, come è già stato detto, è compiere l'ufficio divino: primo dovere è quello di compiere il sacrificio (compreso il servizio funebre); seguono la purificazione e l'esorcismo. Il suo compito si estende però a tutte le forme della vita, in quanto il sacerdote deve provvedere, rispondendone, a ciò che la potenza (divina) assista tutti gl'individui e presenzii a tutti gli atti della comunità. Perciò compete al sacerdote l'avere cura della dottrina religiosa (teologia), del diritto, della redazione della storia. Il concetto di sacerdozio raggiunge la sua più alta espressione quando si applica alla stessa divinità, p. es. nel Dio uomo, concetto divenutoci familiare attraverso il Nuovo Testamento: Dio medesimo rappresenta la comunità di fronte a sé stesso, sacerdote e vittima diventano una persona sola.
Sul rapporto corrente tra ogni singola religione e il sacerdozio si può dire quanto segue. Nella religione dei popoli primitivi è difficile separare lo stregone-medico dal sacerdote. Inoltre l'esercizio delle funzioni sacerdotali rimane lungamente affidato al capotribù, mentre, come possiamo constatare nei popoli dell'antichità, ognuno, per regola, è il sacerdote del proprio culto casalingo. Ciò nonostante alcuni popoli primitivi conoscono una classe sacerdotale evoluta; spesso ogni dio e ogni feticcio ha il proprio officiante; si vedano, per es., i numerosi tro presso gli Ewe (Africa occidentale). Non mancano le sacerdotesse, come presso i Toradja (Celebes), le quali procurano la sostanza spirituale necessaria alla tribù mercê una specie di ascensione al cielo. Tra i popoli più o meno civili, possiamo distinguere quelli forniti di molti da quelli forniti di pochi sacerdoti; cioè religioni che hanno una classe sacerdotale evoluta, distinta da decise caratteristiche, dotata di grande influenza e religioni in cui il sacerdozio ha scarsa importanza. Alla prima specie appartiene la religione nazionale giapponese (shintoismo), nella quale l'imperatore funge da sommo sacerdote e il sacerdozio è considerato una carica ereditaria nella schiatta dei Nakatomi, imparentata con la famiglia imperiale. Dell'Egitto abbiamo già parlato.
Anche a Babilonia era nota la monarchia sacerdotale; vi erano sacerdoti addetti all'interpretazione degli oracoli, agli scongiuri, e astrologhi; essi costituivano una casta chiusa. In India veramente il capo di casa è sacerdote, il fuoco del focolare costituisce il centro del culto; i sacerdoti di professione venivano chiamati solo per compiere i sacrifici maggiori, ma il vero e proprio signore del sacrificio (yajāmana) rimane a lungo colui che offre il sacrificio, eventualmente il re, mentre il sacerdote si limita ad assisterlo. Ciò nonostante vi si sviluppò l'immensa, antinaturale potenza della casta dei brahmani, a cui già abbiamo accennato. Anche i Persiani conobbero un ceto sacerdotale chiuso e un monopolio sacerdotale. Nella religione israelita troviamo il monopolio sacerdotale (tribù di Levi), la gerarchia e la funzione assistenziale del sacerdote durante il sacrificio (v. ebrei). Tra le religioni che hanno sacerdozio poco sviluppato ricordiamo il buddhismo primitivo, in cui il vero intermediario col divino era il monaco, e non il sacerdote. Nel tardo buddhismo (Mahāyāna) troviamo un sacerdozio molto sviluppato, specie nel Tibet, dove si afferma anche la gerarchia, sotto forma di successione per incarnazioni ripetute dell'Avalokiteśvara (lamaismo; v.). In questo caso è difficile stabilire la demarcazione tra sacerdozio e monachismo. Pochi sacerdoti contava pure la religione dei Germani, a cui erano ignote tanto la carica ereditaria quanto la casta chiusa. Il gode assisteva il principe e diventava a sua volta principe. La religione più povera di sacerdoti è certo l'islamismo, che ignora addirittura i sacerdoti e conosce i soli ‛ulāmā' dotti nelle sacre scritture: fatto da mettersi in rapporto, come in certe sette cristiane (quaccheri, mennoniti), con l'assoluta mancanza di una vera azione sacra. Tuttavia carattere sacerdotale hanno assunto, nello sviluppo non ufficiale della religione islamica, i maestri della ṭarīqah, del "metodo" mistico e i murshid, una specie di guida spirituale.
Bibl.: J. Lippert, Allgemeine Geschichte des Priesterthums, Berlino 1883-1884; Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch d. Religionsgeschichte, Tubinga 1924-1925; Die Religion in Geschichte u. Gegenwart, 2ª ed., IV, ivi 1926, p. 1481 segg.; R. Ch. Darwin, Die Entwicklung Priestertums u. der Priesterreiche, Lipsia 1929; G. van der Leeuw, Pia Fraus, in Mensch en Maatschappij, VIII (1932), pp. 365-80; id., Phänomenologie d. Religion, Tubinga 1933.
Ebraismo. - Il sacerdozio ebraico, riservato alla sola tribù di Levi, comincia con Mosè; nulla ci risulta del periodo anteriore a lui, salvo che per l'epoca dei patriarchi costoro sono presentati dalla narrazione della Bibbia come operanti da sé stessi quei riti religiosi che più tardi saranno di spettanza del sacerdote.
Nei tempi più antichi, principali compiti del sacerdote erano offrire l'oblazione di cose inanimate e il sacrifizio di vittime animali (che tuttavia spesso era offerto anche da altre persone; cfr. Giudici, VI, 18 segg.; XIII, 15 segg., ecc.), e specialmente comunicare l'oracolo divino: ciò si compieva mediante l'impiego del problematico arredo sacro chiamato efod (v.), con cui erano connesse le sorti divinatorie chiamate urim e tummim, oppure mediante altri sistemi (consultazione dei teraphim, sogni, ecc.).
Nei tempi posteriori, con la costruzione del tempio nazionale a Gerusalemme e con la progressiva centralizzazione del culto, il funzionamento sacerdotale si definì e organizzò sempre più. I sacerdoti risultarono divisi in 24 classi, che per turno si succedevano nel servizio del Tempio.
Oltreché del rito sacrificale e del servizio in genere del Tempio, i sacerdoti erano incaricati di varie altre mansioni: ad esempio, esaminare una persona sospetta di lebbra e dichiararla o comune o infetta; trattare i casi del divorzio ebraico; fissare il calendario religioso-civile; decidere su casi di legge, ecc. Particolare autorità avevano i capi-sacerdoti delle 24 classi, e soprattutto il sommo sacerdote, che nei secoli II-I a. C. fu la stessa persona del monarca (nella dinastia degli Asmonei) o fu almeno uno dei personaggi più autorevoli anche in politica.
Oltre alla discendenza suddetta, si richiedeva nel sacerdote integrità fisica e aspetto decoroso; nel periodo di servizio liturgico doveva astenersi dal matrimonio, e da ogni bevanda fermentata; non poteva mai intervenire a funerali, salvo che per i parenti strettissimi. Il sommo sacerdote inoltre non poteva sposare una vedova.
Il sacerdote veniva eletto con un cerimoniale che si protraeva per sette giorni: quotidianamente dopo un'abluzione era rivestito degl'indumenti sacerdotali e unto con olio sacro, offriva sacrifizî propiziatorî, e solo all'ottavo giorno entrava in carica benedicendo il popolo. V. inoltre levi e leviti (anche per la bibliografia).
Grecia. - In Grecia, non essendo la religione di tipo rivelato e perciò dogmatico, il sacerdozio non vi è costituito in gerarchia che abbia il compito di tutelare la verità religiosa, propagandarla e controllarne i ministri; né vi è l'obbligo dell'educazione della gioventù o dell'istruzione del popolo. Il sacerdote (ἱερεύς) è semplicemente l'amministratore di ciò che è sacro, il tecnico del sacrifizio (ἱερεῖον) e il custode del luogo consacrato (ἱερόν, ναός, τέμενος, ἄλσος): non v'è in Grecia sacerdote senza il tempio cui è addetto. Il suo compito essenziale di operatore del sacro a nome della comunità è visibile fino dall'epoca omerica dove il sacerdote è chiamato appunto ἱερεύς nel senso di sacrificatore e ἀρητήρ nel senso di supplicante gli dei a nome del gruppo sociale e, salvo questa mansione, non ha nessun rilievo speciale.
La religione essendo una funzione di stato, talune solenni cerimonie pubbliche erano compiute dal magistrato in carica; p. es., in Atene dall'arconte re che era succeduto nelle mansioni sacerdotali all'antico re patriarcale, e perciò controllava i varî sacerdoti, presiedeva ai processi d'empietà, partecipava alle Lenee e alle Antesterie, mentre l'arconte eponimo presiedeva alle grandi Dionisie e alle Targhelie e il polemarco ai sacrifizî ad Artemide Agrotera e a Posidone Enalio e alla commemorazione dei caduti per la patria; e i due re di Sparta sacrificavano a Zeus Lacedemonio e a Zeus Uranio. Per questo appunto Aristotele distingueva i sacrifici compiuti dai magistrati in funzione, da quelli privati offerti dai semplici sacerdoti (ἱερατικοί).
Condizioni. - Per esercitare il sacerdozio occorreva l'integrità fisica delle membra e della sanità (ἀϕελής, ὑγιής, ὀλόκληρπς); età adulta, qualora la legge del tempio non avesse richiesto altrimenti; e sesso corrispondente (in genere, ma non sempre) a quello della divinità; appartenenza alla medesima comunità cittadina (ἐπιτιμία) con esclusione di bastardi e di stranieri; fama illibata, conoscenza del rituale e, in casi specificamente contemplati, la castità temporanea o perpetua e l'astensione da particolari cibi o bevande. Quanto all'età taluni templi, in umaggio alla purità sessuale e alla parificazione con la divinità richiedevano o l'età fanciulla (come per i sacerdoti di Atena Cranea ad Elatea, di Atena Alea a Tegea e di Zeus a Egio e per le sacerdotesse di Artemide in Egina e in Patre): in questo caso tali sacerdoti fanciulli avevano assistenti per le mansioni del culto. Per ciò anche il candidato alla carica sacerdotale veniva sottoposto a un esame di controllo (δοκιμασία).
Elezione. - L'elezione nei sacerdozî gentilizî (πάτριαι ἱερωσύναι), anche se poi entrati a far parte dei culti di stato, come quelli degli Eumolpidi e dei Cherici nei misteri eleusini, avveniva nel seno della famiglia ma con norme diverse a seconda della tradizione interna: talora succedevano i primogeniti, talora i fratelli e i figli di fratelli; estinguendosi la famiglia il sacerdozio passava ad altra stirpe.
Nei sacerdozî pubblici v'era il sistema della scelta e quello del sorteggio, che era preferito in quanto la nomina sembrava determinata dalla divinità stessa: talora i due sistemi venivano combinati cioè si estraeva a sorte il candidato da una lista di eleggibili; non era esclusa la compera della carica, specie nei templi dell'Asia Minore, come le iscrizioni documentano; perché quivi, data l'organizzazione esistente intorno al tempio, l'investito della carica (ἀρχιερεύς) doveva provvedere a ingenti spese ed era il capo dell'assemblea di tutta una provincia (κοινὸν τῆς 'Ασίας, ecc.).
Il sacerdozio non era a vita, salvo il caso di sacerdozî gentilizî o di sacerdozî speciali le cui norme sono fissate dalle singole leggi dei templi. Il più sovente la carica era annuale o poteva durare un periodo maggiore: due, tre, quattro anni, a seconda della periodicità della festa titolare del tempio; oppure a seconda di circostanze speciali prefissate: come il giungere della pubertà, lo spuntare della barba, il contrarre matrimonio, la perdita di un figlio, ecc.
Vesti. - I sacerdoti indossavano, in genere, una lunga veste bianca, essendo questo secondo Platone (Leggi, XII, 956) il colore caro agli dei; lasciavano intonsi i capelli, durante il sacrifizio si ponevano in capo una corona vegetale (ulivo, mirto, ecc.) che variava a seconda delle divinità; talora portavano bende o infule e scettro, come Crise, il sacerdote di Apollo in Omero. Ma queste norme non erano assolute: così il sacerdote di Dioniso vestiva di giallo croco (Aristofane, Rane, 26); la sacerdotessa di Atena a Pellene (Polieno, VIII, 59), vestiva alla foggia della dea portando l'armatura e l'elmo.
Uffici. - La funzione principale del sacerdote era soprattutto liturgica cioè relativa all'azione sacrificale e alla concomitante preghiera nella festa del dio. Il sacrifizio non era giornaliero (salvo che per l'altare di Zeus a Olimpia), ma cadeva nei giorni previsti dal rituale, a meno che qualche privato non domandasse a suo profitto una libazione o un sacrificio. Compito del sacerdote non era tanto quello di uccidere la vittima o scuoiarla, cosa a cui potevano provvedere i ministri minori, quanto di "immolarla" cospargendola di cruschello d'orzo (οὐλαί) e tagliandole un ciuffo di peli sulla fronte, e di recitare la preghiera.
V'erano poi anche mansioni amministrative. Se il tempio era piccolo, il sacerdote adempiva da solo a tutte le mansioni di pulizia e di sfruttamento della proprietà annessa al luogo sacro: ma trattandosi di grandi santuarî vi era tutta una schiera d'inservienti: ieroduli, neocori (νεωκόροι) e di amministratori (ταμίαι, ἐπιμεληταί) i quali ultimi dovevano rendere conto al magistrato alla fine della loro gestione.
Profitti. - Al sacerdote spetta parte della vittima sacrificata (τὰ ἱερώσυνα), parte che varia secondo l'animale sacrificato (pelle, zampe, lingua, testa, cosce, filetto, ecc.) e secondo la legge del santuario, come l'epigrafia abbondantemente documenta. Tipica è a questo riguardo la legge del tempio di Artemide Pergea ad Alicarnasso (cfr. Corp. Inscr. Graec., n. 2656). Oltre alla porzione della vittima il sacerdote riceveva doni di focacce, frutta, vino, e contribuzioni in danaro, specialmente se egli forniva la materia dell'oblazione o del sacrifizio (ϑύστρα, ἐπιϑύματα, ϕερνά) che in qualche iscrizione sono elencate a norma degli oblatori. Il danaro così raccolto era versato direttamente al sacerdote o deposto in apposito scrigno (ϑησαυρός).
Il sacerdote abitava presso il santuario e godeva l'usufrutto dei beni del medesimo, con esenzione dalle imposte. Ma, nonostante tali proventi, l'esercizio di taluni sacerdozî era così dispendioso sia per la spesa dell'entrata in carica sia per la celebrazione delle festività, con processione, banchetti, gare ginniche e musicali, distribuzioni, che soltanto i cittadini più facoltosi potevano aspirarvi; e vi aspiravano in vista della posizione sociale onorifica e dei privilegi che quelli assicuravano, tra cui il più noto era quello della προεδρία ossia il posto d'onore nel teatro, nei giuochi e nelle assemblee.
Personale subalterno. - Nei templi maggiori ad assistere il sacerdote v'era tutto un personale subalterno costituito: da accoliti che coadiuvavano il sacerdote nelle mansioni liturgiche ed erano detti ἱεροποιοί e anche ἱεροϑύται, ἐπιμήνιοι; da incettatori di buoi per il sacrificio (βοῶναι), macellatori e preparatori della carne della vittima (μάγειροι), da araldi e banditori (κήρυκες) detti σπονδοϕόροι quando bandivano la tregua in occasione di grandi celebrazioni, come quelle eleusine; da custodi del tempio detti ναοϕύλακες con ufficio di fabbriceri e architetti, e νεωκόροι con funzione di sacrestani. L'epiteto di neocoro divenne nell'età ellenistica titolo di onore per la città che custodiva il tempio del dio, e, durante l'epoca imperiale, il tempio degl'imperatori divinizzati: una città che aveva due, tre templi imperiali vantava il titolo di due volte (δίς), tre volte (τρίς) neocora.
I grandi santuarî avevano poi addetti dei corpi di musici, danzatrici, ieroduli, nonché una schiera di ierodule per il servizio della prostituzione sacra, p. es., a Corinto (Strab., VI, 418).
Per il sacerdozio divinatorio v. divinazione; oracolo; sibilla.
Bibl.: J. Martha, Les sacerdoces athéniens, Parigi 1882; E. Curtius, Das Priestertum bei den Hellenen, voll. 2, Berlino 1882; Lehmann, Quaestiones sacerdotales (Diss.), Königsberg 1888; L. R. Farnell, The cults of the greek States, voll. 5, Oxford 1896-1909; P. Stengel, Die griech. Kultusaltert., Monaco 1920.
Roma. - In Roma il sacerdote (sacerdos, quasi sacrum dans, cfr. Opfergeber) è, alla pari che in Grecia, colui che compie l'azione sacra. E poiché nella città antica la religione è un elemento dell'ingranaggio statale, sottoposta nella sua esplicazione alla potestà suprema dello stato, che in Roma fu più che altrove onnipresente e accentratore, il sacerdote romano è più che altro un esperto del rituale, che per questa sua conoscenza tecnica guida il magistrato quando questo compie, come rappresentante della comunità, le funzioni religiose. Si può anzi affermare che la separazione di attribuzioni tra sacerdozio e magistratura è il segno discriminante del trapasso dalla monarchia patriarcale, dove le due funzioni politica e religiosa erano riunite, alla repubblica aristocratica la cui evoluzione politico-religiosa è caratterizzata dalla scalata che i plebei dànno ai maggiori sacerdozî cui erano rimaste indirettamente connesse prerogative politiche.
Non essendo la religione romana di tipo rivelato e quindi dogmatico e universalistico, il sacerdozio non ha posizioni dottrinali da tutelare, né una dottrina o una legge religiosa da diffondere tra la gioventù e il popolo per mezzo di un personale appositamente addestrato. Tuttavia per quel senso assai più profondo della disciplina statale che i Romani hanno avuto di fronte al particolarismo politico-sociale dei Greci, i varî sacerdozî finirono per organizzarsi in una specie di gerarchia con a capo il pontefice massimo.
I sacerdotes publici populi Romani Quintium vanno divisi in due grandi categorie: gli ascritti ai collegi ufficiali e gli ascritti alle corporazioni o confraternite.
I collegi ufficiali sono quelli i quali disimpegnano le funzioni di controllo religioso e rituale o di divinazione nell'interesse dello stato. I principali sono quattro: 1. i pontefici che sono i sapienti della preistoria latina, depositarî della tradizione giuridica e storica del popolo: il loro collegio, prima di 5 membri, salì a 9, 10, 15, 16; loro capo era il pontefice massimo cui erano sottoposti anche il rex sacrorum, i flamini e le vestali; 2. gli auguri, successori degli indovini dell'età preistorica, di funzioni puramente consultive perché il magistrato prendeva da sé stesso gli auspici ma aveva bisogno di un esperto che lo guidasse per i meandri della disciplina augurale; il loro numero da 5 salì a 6, 9, 15 e 16; 3. quindecemviri sacris faciundis (inizialmente duumviri, poi decemviri s. f.), che, nonostante il loro titolo che li presenta come sacrificatori, costituiscono un sacerdozio di consultazione divinatoria, interpreti ufficiali dei libri sibillini in casi gravi o solenni per la vita dello stato: a loro come interpreti di un dio non romano, il greco Apollo, è affidato il controllo dei culti stranieri ammessi nello stato; 4. i septemviri epulones (in origine tre) che sostituiscono i pontefici nel dirigere le epulae o banchetti sacri in occasione di feste religiose e particolarmente dei ludi.
Oltre ai quattro collegi maggiori vanno menzionati i flamini in numero di 15, addetti a divinità singole da cui prendono il nome (fl. Dialis, Martialis, Quirinalis, Furrinalis, ecc.); non sono uniti in collegio ma ascritti a quello pontificale; i feziali, interpreti e custodi del diritto internazionale nei riguardi delle alleanze e delle guerre: il loro collegio è di 20 membri.
Le corporazioni invece sono sacerdozî di reclutamento gentilizio, addetti al culto di una divinità particolare che appartiene allo stadio più antico della religione romana. Sono in genere in numero di 12, il loro capo ha il titolo di magister. Le principali corporazioni sono: 1. gli arvali, confraternita agricola votata al culto della dea Dia (Cerere, Demetra); 2. i luperci, suddivisi in quintili e fabiani, addetti al culto di Fauno; 3. i salii o saltatori, suddivisi in palatini e collini che celebrano il culto di Marte; 4. i sodales Titii che non si sa a quale dio fossero votati né quali cerimonie compissero. A somiglianza di queste corporazioni si costituirono nell'epoca imperiale dei sodalizî per il culto degl'imperatori divinizzati (sodales Augustales, Claudiales, Flaviales, Titiales, Cocceiani, Ulpiani, Hadrianales, Antoniniani, ecc., e al disotto di questi, nei municipî minori, associazioni di sei uomini (seviri Augustales) che rendevano onore al numen Augusti.
La grande autorità che il collegio pontificale aveva su tutti gli altri, non impediva tuttavia che nelle cerimonie ufficiali le precedenze fossero fissate secondo l'anzianità statale dei sacerdozî stessi risalente alla monarchia patriarcale; cosicché il primo posto lo aveva il rex sacrorum creato per compiere le mansioni liturgiche un tempo demandate al re; seguivano i tre flamini diale, marziale e quirinale e ultimo il pontefice massimo (Festo, s. v. ordo sacerdotum).
Elezione. - I sacerdoti sia dei collegi sia delle corporazioni erano eletti per cooptazione ossia per nomina fatta dai membri del sodalizio, con esclusione sia dei magistrati sia del popolo. Il pontefice massimo nominava direttamente il rex sacrorum, i flamini e le vestali; i quindecemviri dal canto loro provvedevano direttamente alla nomina dei sacerdoti dei culti stranieri sottoposti alla loro giurisdizione.Tuttavia dal sistema della cooptazione si passò gradatamente a quello della elezione popolare quando nel 104 a. c. il tribuno Cn. Domizio Enobarbo propose che si estendesse a tutti i sacerdozî la nomina dei candidati attraverso un comizio di popolo (comitia calata), presieduto dal pontefice massimo e formato da 17 tribù su 35 (cioè la metà meno uno per salvaguardare il principio quod populus per religionem sacerdotia mandare non poterat". Cic. De lege agr., II, 18); il candidato eletto dal popolo veniva poi cooptato dal collegio.
Silla abolì questa conquista popolare (lex Cornelia de sacerdotiis, 81 a. C.), che tuttavia fu richiamata in vigore a iniziativa del tribuno Azio Labieno (lex Atia de sacerdotiis, 63 a. C.) e resa anche più radicale dalla disposizione che i comizî fossero presieduti non dal pontefice massimo ma dai consoli. Ma con Augusto, malgrado le apparenze in contrario, scompare ogni vestigio sia di cooperazione popolare sia d'iniziativa autonoma del sacerdozio, perché egli dopo avere assunto nel 12 a. C. il pontificato massimo riservò a sé la nomina dei varî membri, riservandosi anche il diritto di nominarne in soprannumero. I suoi successori seguirono l'uso, espresso nei testi e nelle iscrizioni con le frasi cooptatio ex litteris, per tabellas, iudicio imperatoris, ecc. Le elezioni alle cariche sacerdotali (comitia sacerdotum) cadevano una volta l'anno (Plin., Epist., II, 1, 8).
La carica di sacerdote era a vita, a meno che il candidato non vi rinunciasse esplicitamente. L'elezione era seguita, per il rex sacrorum, i flamini e gli auguri, da un'apposita cerimonia consacratoria (inauguratio) che non aveva luogo per gli altri sacerdoti neppure dei collegi maggiori.
Dapprincipio i sacerdoti si reclutavano nel patriziato; poi la plebe ottenne l'entrata dei plebei nei collegi dei pontefici e degli auguri (lex Ogumia, 300 a. C.), e l'elezione al pontificato massimo (con Tib. Coruncanio, 252 a. C.), fino a che Augusto restaurando i sacerdozî stabilì che i candidati ai quattro collegi maggiori e alle corporazioni, inclusi il rex sacrorum e i tre flamini maggiori, appartenessero all'ordine senatoriale e quelli dei rimanenti sodalizî all'ordine equestre.
Condizioni per essere ammessi ai sacerdozî erano l'integrità fisica del corpo e della salute, la cittadinanza romana, la nascita legittima e da ingenui, l'irreprensibilità della condotta.
Vesti. - La veste dei sacerdoti era quella civile, cioè la toga, di lana bianca, orlata di porpora (praetexta, eredità dell'epoca regia), che indossavano solo nella cerimonia. Durante il sacrificio tiravano sul capo un lembo della toga e facevano passare avanti al corpo un altro lembo della medesima arrotolato (cinctus Gaffinus). La toga sacerdotale (secondo Festo, s. v. pura vestimenta) doveva essere "pura" cioè non consunta (obsita) non tocca da fulmine (fulgurita) né da cadavere (funesta) e non macchiata (maculam habens). I sacerdoti delle corporazioni avevano vesti o distintivi speciali: gli arvali le bende e la corona di spighe, i salii l'apex, l'ancile e la lancia, i luperci vestivano di pelli nella cerimonia del lupercale, il flamine diale portava in capo un berretto bianco senza tese (albogalerus).
Rendite. - Le entrate del sacerdozio erano in origine costituite: 1. dall'incasso del deposito (sacramentum) in danaro che i querelanti facevano prima del processo e che veniva perduto dalla parte soccombente; 2. dalle prestazioni dei cittadini per il mantenimento dei templi; 3. dalla rendita di terreni appartenenti allo stato e da questo assegnata ai templi. I sacerdoti erano esenti dalle imposte e dal servizio militare.
Personale subalterno. - Era costituito dai: calatores, uscieri al servizio sia di singoli sacerdoti sia di tutto un collegio (calatores pontificum et flaminum): potevano essere anche liberti; camilli, fanciulli di buona famiglia, usciti da matrimonio legittimo, e patrimi e matrimi cioè con entrambi i genitori viventi (cfr. gli ἀμϕιϑαλεῖς in Grecia), essi erano addetti come accoliti al servizio dell'ara; cultrarii, popae e victimarii, per la mattazione o iugulazione della vittima e preparazione delle sue carni per l'ara e per la distribuzione; lictores che in numero di dieci (decuria lictorum curiatia) servivano al decoro delle cerimonie pubbliche; tibicines o suonatori di tibia per il silenzio rituale prescritto nel sacrificio.
Sacerdoti municipali. - I sacerdozî finora nominati sono quelli del culto pubblico della Roma repubblicana. Ma vi sono anche i sacerdoti di più culti che Roma trovò nei municipî occupati e che essa non incorporò ai culti di stati, come fece per i culti federali di Giove laziale, di Lavinio, di Lanuvio, ma lasciò vivere nel loro luogo. Sono tra questi: i sacerdotes Cabenses (sacerdotes Cabenses feriarum Latinarum montis Albani) cui era in epoca preromana demandata la cura delle ferie latine e che prendevano il loro nome da Cabum località situata presso l'attuale Rocca di Papa: essi seguitano ad esser nominati in vista delle ferie latine; i sacerdotes Caenineses, da Cenina città distrutta da Romolo; i sacerdotes Laurentes Lavinates che custodivano i sacra della distrutta Lavinio aggregati a quelli di Laurento; i sacerdotes Luciniani, località sconosciuta, ricordati da quattro iscrizioni; varî sacerdoti Albani (pontifex, salius, virgo vestalis, rex sacrorum) che accudivano ai sacra di Alba Longa, aggregati dopo la distruzione della città a quelli di Boville; i sacerdotes Tusculani, per il culto dei Castori, ecc.
Sacerdoti provinciali. - Il culto imperiale diffusosi nelle provincie di Oriente e di Occidente all'alba dell'impero portò alla creazione di un sacerdos provinciae (chiamato spesso e più giustamente flamen in quanto era dedicato al culto di una divinità specifica). Questo presiede in Occidente al culto imperiale di una o di un gruppo di provincie affini (p. es., le tre Gallie), viene scelto annualmente tra i notabili dell'aristocrazia locale, gode del diritto di cittadinanza, ma non ha autorità sugli altri sacerdoti della provincia. Quando officia innanzi all'ara o al tempio imperiale veste di porpora e si pone in capo una corona aurea per ricordare più da vicino il nume che rappresenta. In Oriente dove, a causa della maggiore cultura, Roma non poté imporre ex novo un'organizzazione religiosa ma si adattò a quelle preesistenti, il sacerdote della provincia era detto ἀρχιερεύς, aveva funzione di capo dell'assemblea provinciale κοινόν) ed ebbe in più di un caso la sua sede presso un santuario famoso, nel recinto del quale ara collocato il tempio o il simulacro del culto imperiale. Dopo Costantino il sacerdozio provinciale decade definitivamente.
Bibl.: L. Mercklin, Über die Anordnung und Einteilung des römischen Priestertums, Pietroburgo 1853; A. Gemoll, De cooptatione sacerdotum Romanorum, Berlino 1870; C. Bardt, Die Priester der vier grossen Collegien aus römisch-republikanischer Zeit, ivi 1871; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, 2ª ed., ivi 1885, p. 218 seg.; L. Deubner, Die ältesten Priestertümer der Römer, in Vorträge über wissensch. und kult. Probleme der Gegenwart, Riga 1913.
Dottrina cattolica. - La dottrina cristiana non rigetta, ma chiarisce e integra il comune concetto, secondo il fatto positivo dell'istituzione di Cristo, e la spiegazione data da S. Paolo del sacerdozio nuovo in relazione al sacerdozio antico d'Israele: riserbato questo a una tribù, quella di Levi, e in essa a una sola famiglia, ai discendenti di Aronne, il quale solo vi era stato personalmente eletto per vocazione speciale; laddove quello non si partecipa né per eredità né per appropriazione personale, ma per chiamata divina; onde "assunto di fra gli altri uomini, il sacerdote è preposto a pro' degli uomini stessi in tutte quelle cose che riguardano Iddio, perché offra doni e sacrifici in espiazione dei peccati... E nessuno si appropria questo onore, ma chi è chiamato da Dio" (Ebrei, V, 41).
L'istituzione e la natura di questo sacerdozio nuovo è da Cristo, quale Uomo-Dio, redentore del genere umano e mediatore del nuovo Testamento (Ebrei, XII, 24); perciò sacerdote primario ed eterno, che volle partecipi del suo sacerdozio e continuatori dell'opera sua, gli Apostoli e loro successori, quando loro disse, dopo l'istituzione eucaristica nell'ultima Cena: "Questo fate in memoria di me" (I Cor., XI, 24-25; Luca, XXII, 19). Parole precettive e, perché divine, operative di quello che significano: e ciò è l'investitura sacra conferita agli Apostoli stessi e per essi ai loro successori, che li abilita alla funzione sacerdotale, ad essi prescritta: all'oblazione, cioé, del sacrificio, che è memoriale insieme e rinnovazione, sebbene incruenta, del sacrificio medesimo di Cristo sulla Croce. È questo il potere del nuovo sacerdozio sul Corpo reale di Cristo: la potestas ordinis (v. ordine sacro) essenziale al sacerdozio cristiano. Ma ad esso si accompagna, per la stessa istituzione di Cristo, un altro potere sul Corpo mistico di lui, che sono i suoi fedeli: quello di legare e di sciogliere, cioè di rimettere o ritenere le colpe. E anche questo potere è significato da Cristo nelle parole dette primieramente a Pietro (Matteo, XVI, 9), indi agli altri Apostoli (Matteo, XVIII, 18), infine loro confermato nella prima apparizione che Gesù fece a tutti insieme dopo la risurrezione: "Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li riterrete" (Giovanni, XX, 22-23). Esso è dunque una potestas iurisdictionis, che abilita il sacerdote al ministero della salvezza e santificazione delle anime, quindi anche il governo della Chiesa, secondo il grado gerarchiro di ciascuno; giacché il sacerdozio ha la sua pienezza nell'episcopato.
L'investitura di questo doppio potere, che fu comunicata da Cristo immediatamente agli Apostoli, come si rileva dai passi citati, vediamo poi dagli Apostoli comunicata ad altri, com'è del resto presupposto evidentemente dalle parole stesse del divino istitutore che voleva continuata l'opera sua negli Apostoli e nei loro successori. E la vediamo comunicata in modo sensibile e manifesto, cioè per un segno o rito esteriore; esso è l'imposizione delle mani, che significa e causa il conferimento della grazia; ed è perciò sacramento. Di esso parlano gli Atti (VI, 6 segg.; XII, 2-3) e S. Paolo (I Tim., IV, 14; II Tim., I, 6), il quale ricorda la grazia del sacerdozio, come conferita mediante l'imposizione delle mani: grazia che si deve far fruttificare, ma non va perduta se anche negletta, potendosi ravvivare, come appunto l'Apostolo esorta Timoteo a ravvivarla.
Tale essendo la funzione del sacerdozio e la grazia in essa conferita, di natura sociale, col doppio potere accennato sopra, valevole non per la virtù o il merito o demerito personale, ma per virtù del sacerdote primario ed eterno che è Cristo, come già ragionava S. Agostino contro i donatisti, è un'investitura sacra, permanente, connessa perciò ad un carattere indelebile, il quale resta come impresso nell'anima, quasi sigillo - o σϕραγίς, come lo chiamavano i Padri greci - del sacerdozio. Esso differenzia perciò intrinsecamente e perpetuamente il sacerdote, in senso stretto, dal laico o semplice fedele, che pure vien detto ed è partecipe in un largo senso di un "regale sacerdozio" e finanche dell'oblazione stessa del sacrificio in unione col sacerdote offerente; e in ciò la dottrina cattolica si differenzia da quella dei protestanti: i quali, confondendo l'uno con l'altro, hanno finito con negare ogni ragione di sacerdozio cristiano.
Questa dottrina cattolica, dedotta dalla Sacra Scrittura, si trova già accennata dai primi Padri della Chiesa: nominatamente da S. Ignazio martire nell'Epistola a quelli di Smirne, dove già si additano i tre ordini della gerarchia, vescovi, presbiteri, diaconi o ministri, indi spiegata dai successivi scrittori, come da Giovanni Crisostomo nel suo trattato Del sacerdozio fra i Greci, da Ambrogio e Agostino fra i Latini, fino ai teologi scolastici del Medioevo e dell'età moderna. Essa ebbe infine il suo pieno svolgimento e la sua espressione più adeguata e precisa nelle definizioni della sessione XXIII (15 luglio 1563) del concilio di Trento intorno al sacramento dell'ordine.
Eccone, in breve sintesi, i capisaldi definiti: 1. Come in ogni religione il sacerdozio era congiunto col sacrificio, così nel Nuovo Testamento, avendo la Chiesa cattolica ricevuto per divina istituzione il santo sacrificio visibile dell'Eucaristia, si dà un nuovo sacerdozio visibile ed esterno, in cui è passato l'antico (Ebrei, VII, 12 segg.) e quindi un potere di consacrare e offrire il vero corpo e sangue del Signore, e di rimettere e ritenere i peccati, non già il solo e nudo ministero del predicare. 2. Perché il ministero sacerdotale, che è cosa divina, si possa esercitare con più dignità e venerazione, si dànno pure nella Chiesa parecchi e diversi ordini di ministri, che servono per officio al ministero sacerdotale e sono ordini maggiori e minori, come gradini per ascendere al sacerdozio, mentre anche dei "diaconi" fa esplicita menzione la Scrittura (vedi diacono). 3. La sacra ordinazione, o investitura del sacerdozio, che si compie con parole e segni esterni, non è un semplice rito di elezione dei ministri della parola e dei sacramenti; molto meno invenzione umana; ma è vero e proprio sacramento, istituito da Cristo a conferimento di grazia (II Tim., I, 67; cfr. I Tim., IV, 14): per esso è comunicato lo Spirito Santo e impresso il carattere, onde il sacerdote non può più tornare laico, anche se dall'autorità competente ridotto alla condizione laicale. 4. Vi è dunque un'ordinata gerarchia, divinamente istituita nella Chiesa; per cui non tutti i cristiani sono promiscuamente sacerdoti del Nuovo Testamento, né tutti i sacerdoti sono investiti di un eguale potere spirituale: primeggiano i vescovi, succeduti agli Apostoli e "posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio" (Atti, XX, 28); seguono i semplici sacerdoti o presbiteri (preti), e infine i diaconi e gli altri ministri; ma tutti indipendenti dal consenso del popolo o del potere laico.
Bibl.: Denzinger-Bannwart, Enchiridion Symbolorum, Friburgo in B. 1928, nn. 957-68; M. I. Rouet de Journel, Enchirid. Patristicum, ivi 1911, n. 65 ecc.; R. Bellarmino, De controversiis, III, De Sacramento Ordinis, Venezia 1621; O. Tournely, Praelect. Theol. De Sacram. Ordin., Parigi 1729; L. Thomassin, Vet. et nov. eccl. disciplina, Parigi 1678-1679; L. Mamachi, Origines et Ant. Christ., IV, Roma 1752; I. Tixeront, L'Ordre et les Ordinations, Parigi 1925; J. Coppens, L'imposition des mains et les rites connexes dans le N. T. et dans l'Église ancienne, Lovanio 1925. Notevole specialmente per il lato storico l'opera del martire (canonizzato nel 1935) J. Fisher, Sacri sacerdotii defensio contra Lutherum, Colonia 1525 (ripubblicato nel vol. IX del Corpus Catholicorum dell'Aschendorf, a Münster); G. M. Van Rossum, De essentia sacramenti Ordinis, Friburgo in B. 1914.