Sacrificio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il sacrificio è un rito che permette agli uomini di creare un canale di comunicazione con gli dèi al fine di rivolgere loro diverse richieste e di onorarli con banchetti solenni. È una pratica comunitaria la cui esecuzione ribadisce la gerarchia degli esseri che popolano la terra: animali, uomini e divinità. La procedura rituale varia secondo le occasioni, ma le descrizioni antiche permettono di individuare momenti chiave e ricorrenti.
A Roma il sacrificio è un rito compiuto da una comunità umana (la città, un’associazione, una famiglia) rappresentata dal membro gerarchicamente più importante, al fine di creare un canale di comunicazione con determinati esseri sovrumani, cioè gli dèi, gli eroi (anche se questa categoria è rara nella civiltà romana) o gli antenati.
La comunicazione tra il mondo umano e quello divino messa in atto durante il sacrificio è instaurata per mezzo di un’offerta, generalmente alimentare, che svolge la funzione di intermediario. Il sacrificio consiste dunque in un banchetto offerto agli dèi, seguito da un banchetto umano (ad eccezione dell’olocausto, in cui si brucia completamente l’offerta). Le offerte possono essere animate (animali) o inanimate (vegetali, ma anche derivati animali come il miele, il latte, il vino o prodotti cucinati, per esempio biscotti). Il sacrificio di animali è più prestigioso e spettacolare perché comprende il momento dell’uccisione e della divinazione che, come vedremo, consiste nell’osservazione degli organi interni.
Si sacrifica con diverse finalità: per esempio per onorare una divinità durante la sua festa annuale, per ringraziare gli dèi per i benefici ottenuti (per una guarigione, un ritorno, una nascita), per ottenere una risposta su una questione da dirimere (sacrificio divinatorio). Il sacrificio costituisce anche la pratica più comune per cercare di farsi perdonare dagli dèi per un comportamento che potrebbe essere considerato scorretto. Questo sacrificio riparatore (piaculum) è compiuto per porre rimedio a “mancanze” di vario tipo, per esempio nel caso di lavori all’interno di un recinto sacro, cioè di uno spazio che è proprietà della divinità. Anche se i lavori sono necessari per la manutenzione dell’edificio, si ritiene opportuno, una volta usciti, scusarsi in tal modo presso la divinità per essersi intromessi nel suo spazio. Il sacrificio è anche il mezzo più usato per “trattare” (curare) i prodigi che si manifestano. Il prodigio è un avvenimento singolare e spaventoso, per esempio una nascita mostruosa, che costituisce un ammonimento inviato dagli dèi agli uomini per avvertirli che c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe e che, se non vi pongono rimedio, potrebbero incorrere in gravi pericoli. Gli uomini cercano di scongiurare tali rischi offrendo agli dèi un dono, costituito appunto da un banchetto solenne.
Il sacrificio insomma, rappresenta un canale di comunicazione attraverso il quale gli uomini rivolgono messaggi differenti agli dèi attraverso la mediazione di un’offerta: le preghiere che accompagnano i gesti ne precisano di volta in volta lo scopo.
Ogni sacrificio è compiuto secondo una procedura consolidata dalla tradizione, che varia secondo le occasioni. Si può comunque cercare di descrivere un modello standard, che rappresenta una specie di minimo comun denominatore fra i vari tipi di sacrificio.
Ancora prima di iniziare il rito, è necessario selezionare gli animali. La scelta dipende dalla circostanza: si tratta però esclusivamente di animali domestici, cioè bovini, ovini, suini o pollame. Per riti pubblici e solenni si preferiscono animali di grande taglia, chiamati victimae, una parola che secondo i linguisti romani contiene l’accezione di “prestigio”: le victimae sarebbero dunque gli animali più prestigiosi. Per i sacrifici domestici, per quelli di espiazione e per altri sacrifici meno spettacolari, si immolano invece animali più piccoli, designati normalmente come hostiae, un termine non connotato che indica le vittime sacrificali in generale. I criteri di cui si tiene conto per scegliere un animale piuttosto che un altro sono molteplici: di regola essi non devono avere dei difetti fisici perché gli dèi non gradiscono animali imperfetti (Plinio, Nat. Hist. 8, 183). Sono importanti anche il colore del pelo e soprattutto il sesso, che dipendono dal destinatario dell’offerta: agli dèi celesti sono destinati generalmente animali con il pelo chiaro, agli dèi inferi con il pelo nero; alle dee, femmine; agli dèi, maschi. Alcuni dèi come Marte e Nettuno gradiscono solamente degli animali maschi fertili, mentre Giove preferisce maschi castrati. Questa corrispondenza tra vittime e destinatari non è perfettamente trasparente ai nostri occhi, ma lo era per i Romani che la consideravano una regola da rispettare perché il sacrificio fosse accettato dagli dèi.
Veniamo ora al rito vero e proprio. Il sacrificio solenne comincia con una processione che conduce gli animali e gli strumenti sacrificali all’altare. La processione e il resto della cerimonia sono accompagnati dalla musica dei flauti per impedire che rumori non graditi disturbino la cerimonia. All’inizio del rito, viene invocato il silenzio con una formula molto suggestiva, favete linguis (“fate silenzio”, Paolo Diacono, Epitome di Festo, De verborum significatu 78, ed. Wallace M. Lindsay, Teubner, Stuttgart 1997), attraverso la quale si invita a creare un silenzio favorevole, una concentrazione piena di buoni auspìci. Un tratto proprio del sacrificio romano è poi quello della praefatio, un rito introduttivo attraverso il quale si crea il canale di comunicazione tra gli uomini e gli dèi. Esso consiste in una libagione d’incenso e di vino sul focolare: tramite questi due ingredienti, che rappresentano rispettivamente la sovranità e l’immortalità, gli dèi sono invitati al banchetto. Segue la fase dell’immolatio (da cui deriva il nostro termine “immolare” che ha preso il senso di uccidere), durante la quale si versa sulla testa dell’animale il vino e la mola salsa (che è una mistura di sale e farina preparata dalle vestali) e si passa un coltello sulla schiena dell’animale dalla testa alla coda, tenendo la lama piatta. Questa fase del rito è molto importante perché rappresenta il momento in cui l’animale è “consacrato” tramite la mola salsa e il vino, cioè diviene proprietà degli dèi. Il gesto compiuto con il coltello messo di piatto rappresenta un’uccisione simbolica e precede di poco l’uccisione reale che avverrà per mano degli schiavi: l’animale stordito con un colpo di ascia o di martello, verrà sgozzato. Subito dopo, il corpo della vittima è aperto e un indovino controlla che tutti gli organi si trovino al posto giusto, che il fegato non abbia malformazioni e, in questo caso, afferma che gli dèi hanno gradito il sacrificio. Il contrario indica che gli dèi rifiutano il dono perché sono in collera con gli uomini.
Un animale i cui organi non sono al loro posto non è considerato una vittima deforme per natura. Si pensa piuttosto che siano stati gli dèi a modificarne il corpo prima del sacrificio per inviare un messaggio agli uomini. Il controllo degli organi, l’extispicium, è una pratica divinatoria compiuta dagli aruspici, che sono tradizionalmente degli specialisti etruschi della divinazione. Questa pratica permette agli uomini di controllare se la pax deorum, cioè la concordia tra uomini e dèi, è integra. A volte l’osservazione delle viscere serve anche per leggere il futuro (sacrificio divinatorio).
Lucio Anneo Seneca
Edipo, 353-370
Manto: Padre, cos’è mai questo? Le viscere non trepidano agitate da moto leggero come di solito, ma scuotono tutte intere le mie mani e sangue d’aspetto nuovo zampilla dalle vene. Il cuore è marcio: immerso nel profondo [del petto] resta nascosto, livide sono le vene; gran parte della cima del fegato non c’è: corrotto da fiele nero, il fegato manda fuori spuma, ed ecco (augurio sempre cattivo per un potere monarchico!) spuntano assieme due cime del fegato con muscoli uguali; sottile è la membrana che copre entrambi i lembi recisi del fegato e non riesce a tenere nascosto il mistero: ecco che la parte [detta[ nemica [del fegato] si rizza con valido tronco e presenta in tensione sette vie biliari; tutte le taglia un solco trasversale che impedisce loro di tornare indietro. È cambiata l’ordinata posizione [naturale] delle viscere, nulla giace nella sede che gli è propria ma tutto è ribaltato: pieno d’aria a destra non si trova il polmone permeato di sangue, lo spazio a sinistra non è riservato al cuore, membrane con morbide giravolte non distendono grassi involucri sulle viscere; la natura è stravolta, non c’è regola da lei stabilita per la forma dell’utero.
Gli organi osservati prima nel corpo vengono estratti e analizzati di nuovo da specialisti capaci di interpretare attraverso i segni una situazione politica poco chiara o di indicare le scelte giuste in occasione di una battaglia. Il fegato in particolare è oggetto di un esame scrupoloso.
In un secondo momento, il corpo dell’animale è preparato dagli schiavi per essere mangiato. Il cittadino romano non interviene in questi preparativi. Cinque organi interni (fegato, vescicola biliare, cuore, polmoni e peritoneo) sono riservati esclusivamente agli dèi: sono gli exta, termine che i filologi antichi spiegavano come le parti “eccelse” (Paolo Diacono, op. cit., 69, Lindsay). A differenza del sacrificio greco in cui alcuni organi detti splanchna sono messi su spiedi e mangiati sul posto del sacrificio dai partecipanti, i Romani fanno bollire gli exta in una pentola o li arrostiscono su spiedi per poi deporli sull’altare della divinità destinataria del sacrificio.
Mentre in senato avvenivano queste discussioni, Gneo Cornelio, chiamato da un messo, uscì dal tempio per farvi ritorno poco dopo con il volto costernato: riferì ai senatori che il fegato di un bue […] che aveva immolato, si presentava completamente spappolato: lui aveva prestato poco credito all’addetto ai sacrifici che gliene dava l’annuncio e aveva voluto personalmente disporre che fosse rovesciata l’acqua dalla pentola dove si stavano cucinando le interiora; aveva dovuto constatare che, mentre tutte le altre interiora erano integre, il fegato era interamente consunto da una putredine mai riscontrata prima. I senatori furono presi dal panico per quel prodigio, anche perché l’altro console aggiunse un ulteriore motivo di preoccupazione: dopo aver trovato mancante del lobo un fegato, non era riuscito ad ottenere presagi favorevoli pur avendo sacrificati altri tre buoi. Il senato dispose allora il sacrificio di vittime adulte fino al raggiungimento di auspìci favorevoli.
La cottura degli exta rappresenta un ulteriore momento di dialogo con gli dèi perché quando questi vogliono manifestare un rifiuto tardivo del sacrificio, e dunque indicare che la pax deorum è compromessa, lasciano che gli organi si liquefacciano nell’acqua. Se invece la cottura dà un risultato positivo, gli exta vengono portati sull’altare dove vengono tagliati e cosparsi di mola salsa. Questa procedura sta a significare che gli dèi sono degli esseri “civili” poiché mangiano come gli uomini la carne cotta, tagliata e accompagnata da cereali e sale.
Al pranzo degli dèi segue il pranzo degli uomini, che si spartiscono la carne dell’animale. Il banchetto rituale è spesso sostituito da una ripartizione della carne nelle sportulae (“sacchetti”) che i partecipanti portano a casa e mangiano con la loro famiglia. Un’altra possibilità è che la carne sia venduta nelle macellerie in cui tutti possono comprarla e partecipare in questo modo al sacrificio. Nei primi secoli della nostra era, l’usanza di mangiare la carne di animali sacrificati nel corso di banchetti privati rappresenterà un problema per i cristiani, perché se invitati, dovranno prima accertarsi che il pranzo loro offerto non provenga da riti in onore di “idoli pagani”.
La procedura sacrificale è una performance che serve a ribadire la gerarchia degli esseri che abitano la Terra. Al livello più basso ci sono le offerte, dunque i vegetali e gli animali, più in alto si trovano gli uomini, che possono disporre della vita di questi come vogliono, senza dover rendere conto della loro messa a morte. Gli uomini si dividono in schiavi, cui sono affidati i compiti più umili (quelli in cui ci si sporca con il sangue come la messa a morte, la preparazione e la cottura della carne), e in cittadini, che partecipano all’atto religioso dirigendone le fasi e mangiando la carne della vittima. Alla sommità di questa scala gerarchica trovano posto gli dèi, “motori immobili” dell’azione, che accettano il pranzo a cui sono stati invitati, se ritengono che in quel momento regni la concordia tra loro e gli uomini.
Il sacrificio umano è attestato solo in rare occasioni, come nel 226, 216 e 113 a.C., quando, si dice, una coppia di Galli e di Greci è stata seppellita viva nel Foro Boario. A questo proposito, gli autori antichi parlano esplicitamente di “sacrificio”. Ne parlano del resto con un certo imbarazzo. La definizione di Livio minime romano sacro (Ab Urbe condita, 22, 57: “rito quasi non romano”), la dice lunga. Anche Plutarco (Questioni romane 83) a proposito del sacrificio del 113 a.C., afferma che, sebbene i Romani condannino i popoli che eseguono questa pratica, la compiono essi stessi, ma solo per ingiunzione dei libri sibillini, cioè agli oracoli degli dèi. Benché dunque il sacrificio umano sia considerato come una pratica crudele propria dei popoli selvaggi, cioè di quelli che si trovano lontani dalla raffinata e colta città di Roma nello spazio o nel tempo (cioè i popoli che abitano terre lontane e gli antichi), essa è attestata, anche se molto raramente, nella religione romana.