Sacrificio
Il sacrificio consiste in un atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano a un'entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio. L'offerta o il dono di un oggetto o di un essere vivente alle potenze del mondo non umano o divino ha grande importanza in molte forme religiose. La natura dell'offerta, il significato e gli scopi di ciò che viene sacrificato, come pure il contesto in cui tale attività si situa, variano molto nelle diverse culture, cosicché è spesso difficile distinguere il sacrificio vero e proprio da altre forme cerimoniali che comportano offerte, doni, oblazioni.
Vari autori hanno creduto di individuare alcuni elementi comuni e ricorrenti nelle differenti forme di sacrificio. Per es., J. van Baal (1976) ritiene che vi sia sacrificio ogniqualvolta si abbia un'offerta diretta a un essere soprannaturale, accompagnata dall'uccisione rituale dell'oggetto dell'offerta stessa. Questa definizione pone in luce due aspetti importanti: la dimensione religiosa del sacrificio, in cui ci si rivolge a una potenza o a un essere sovrumano o soprannaturale, e l'aspetto cruento dell'atto sacrificale, l'uccisione di un essere vivente. Se, per quanto riguarda il primo elemento, si può riscontrare una sostanziale concordanza di vedute tra i diversi autori, anche se ciascuno interpreta in modo specifico il significato di questo riferimento a un essere non umano, il secondo aspetto si presenta subito più problematico. Nella definizione di van Baal, infatti, sembrano escluse tutte le forme di sacrificio che non comportano un'uccisione rituale. Eppure si possono trovare offerte di oggetti, come frutta, ortaggi, semi, bevande, pezzi di stoffa o di tabacco. Sebbene in molti casi il sacrificio comporti l'uccisione di un animale, in casi più rari di esseri umani, talvolta l'offerta di un oggetto o di un prodotto vegetale si può considerare sostitutiva di quella di una vittima.
Il sacrificio, in quanto atto cerimoniale, comporta in genere un'attività rituale più o meno solenne, il coinvolgimento di più persone, lo svolgimento di pratiche rigidamente codificate e di rilevanza collettiva. In questo si distingue dal più vasto campo di offerte che possono anche essere semplici atti individuali di devozione o di supplica nei confronti di un'entità spirituale. Inoltre, si configura sempre come un dono, che implica una controparte senziente e consapevole, la quale riceve l'offerta e risponde concedendo la propria benevolenza, accogliendo le richieste degli officianti e così via. Questo aspetto di rapporto di scambio tra sacrificante e destinatario contraddistingue il sacrificio da altre forme di uccisione rituale, quali la deposizione di esseri umani o animali nel sepolcro per accompagnare il defunto e l'uccisione di una vittima come rito di eliminazione di malattie o di influssi impuri e malefici.
Tra i primi studiosi a occuparsi della dimensione sociale del sacrificio, W. Robertson Smith (1889) analizzò le forme sacrificali riscontrabili nell'antico mondo semitico. Secondo questo autore, il sacrificio era una cerimonia pubblica di un clan o di un villaggio, in cui la folla si radunava intorno al santuario oppure al tempio per celebrare l'offerta alla divinità. Il sacrificio vero e proprio consisteva nell'uccisione di un animale che, macellato e cucinato, sarebbe stato consumato dalla comunità in festa. L'attenzione di Robertson Smith era attirata soprattutto dalla vittima sacrificale che, una volta entrata nel recinto del luogo di culto, assumeva una caratteristica sacrale. Tale sacralità derivava dal ricordo dell'animale totem che originariamente veniva sacrificato affinché i membri del clan potessero entrare in comunione con la divinità dell'animale-dio attraverso la partecipazione al banchetto sacrificale. Secondo tale interpretazione, ogni sacrificio in origine era una forma di comunione, grazie a cui membri di un gruppo sociale rinnovavano il senso di solidarietà e di appartenenza alla comunità celebrando i legami che li univano all'animale totem.
L'interpretazione di Robertson Smith ebbe un'enorme influenza sullo sviluppo delle teorie etnologiche e storico-religiose dei primi anni del 20° secolo: la si riscontra nell'opera di É. Durkheim per quanto riguarda l'importanza dei rituali collettivi nel promuovere e ricreare la coesione della comunità e nella formazione del sentimento del sacro, come pure nel pensiero di S. Freud, per quanto riguarda la concezione dell'orda primitiva e dell'uccisione del padre primordiale, da cui avrebbe origine la pratica del sacrificio totemico, oltre al costume dell'esogamia e al complesso edipico. Tuttavia, oggi gran parte delle argomentazioni di questo autore appaiono discutibili e inaccettabili. In particolare, la teoria evoluzionistica secondo cui il totemismo costituirebbe una fase attraverso cui tutte le culture umane, compresi gli antichi semiti, sarebbero necessariamente passate risulta insostenibile. Inoltre, la fonte storica più interessante sulla quale Robertson Smith basava la sua interpretazione dell'antico rito sacrificale semitico, il racconto del sacrificio di un cammello da parte dei beduini riportato da Nilus, un presunto eremita che viveva nella penisola del Sinai, si è rivelata un falso storico di autore ignoto e quindi un documento inattendibile (Henninger 1955).
Rimane comunque di grande interesse il contributo metodologico del filone di studi inaugurato dallo studioso scozzese, il fatto cioè di individuare nel sacrificio un meccanismo di doni e di scambi con una doppia valenza: da un lato, il rapporto tra uomini e divinità, in cui l'essere sovrumano viene integrato nelle relazioni sociali mediante l'offerta e il dono; dall'altro, la relazione che lega tra di loro i partecipanti al rituale, la comunità dei praticanti, la quale, attraverso l'identificazione con la divinità del gruppo, celebra la propria solidarietà e i vincoli che la tengono unita. Robertson Smith ha contribuito a porre in evidenza il contesto simbolico e sociale che si articola intorno al corpo della vittima; il senso di comunione, condivisione da parte di tutti i partecipanti di un insieme di pratiche corporali, di gesti e di significati che esprimono i valori sociali del gruppo.
Sulla base della documentazione disponibile, soprattutto sui riti sacrificali dell'India vedica e degli antichi ebrei, H. Hubert e M. Mauss (1899) hanno posto l'accento non tanto sulla trasformazione simbolica della vittima quanto sull'effetto che il sacrificio determina su coloro che ne sono gli attori principali, sui sacrificatori. In questa prospettiva, il sacrificio produce una trasformazione della condizione di colui che lo pratica, mentre l'oggetto sacrificato agisce come termine mediatore tra la sfera del profano e quella del sacro. Il corpo della vittima, in quanto elemento mediatore, viene distrutto perché la pericolosità della sfera del sacro è tale da non poter essere avvicinata impunemente. Secondo l'ottica della scuola sociologica francese, il sacro si rivela come una proiezione di forze e meccanismi sociali: il sacrificio non è che uno strumento attraverso il quale l'individuo ha accesso alla sfera sacrale, ha la possibilità di entrare in comunicazione con il mondo soprannaturale. Dal momento che le potenze ultraterrene non sono altro che proiezioni di forze sociali, il sacrificio si configura come un mezzo mediante il quale l'individuo riconosce la propria dipendenza dalle influenze e dalle rappresentazioni collettive. La prospettiva di Hubert e Mauss, tuttavia, va oltre il semplice riconoscimento del sacrificio come fatto sociale: essa si delinea come tentativo di ricostruire la logica soggiacente ai fenomeni sacrificali.
La figura dell'entità a cui si rivolge il sacrificio viene oscurata e si scolora in una più o meno definita ipostatizzazione della società stessa. Per contro, l'attenzione si sposta sul sacrificatore e sulle modificazioni che la sua condizione subisce attraverso il processo sacrificale: l'uomo accede a una diversa dimensione sacrale mediante la manipolazione della vittima, che assume le caratteristiche di un simbolo, di un tramite. L'oggetto o l'animale che si distrugge offrendolo alla divinità è lo strumento che consente al sacrificatore di passare a una condizione diversa, di manipolare e modificare il proprio rapporto con la sfera sacrale. D'altra parte, l'oggetto sacrificato assume anche caratteristiche che lo assimilano o lo identificano con il sacrificatore. In questa prospettiva si può collegare il sacrificio di un oggetto esterno con la pratica dell'autosacrificio. La vittima offerta in sacrificio è una parte del corpo del sacrificatore stesso, lo rappresenta, si identifica con lui: in molti casi, ciò che di più prezioso il sacrificatore può offrire è il proprio corpo, il proprio sangue.
Tra i maya del periodo classico, per es., l'offerta del proprio sangue da varie parti del corpo era una pratica diffusa e ricorrente: spine venivano infilate nella lingua, nelle labbra, nelle guance, nelle orecchie o nel pene, e il sangue veniva lasciato scorrere liberamente. In questo modo i maya cercavano probabilmente di ottenere una visione quale manifestazione di un antenato o di una divinità. L'offerta di sangue rappresentava uno dei principali 'ingredienti' della loro pietà religiosa e costituiva parte integrante di ogni attività rituale (Schele-Miller 1986). Al loro arrivo gli spagnoli, inorriditi da queste pratiche, le condannarono e le repressero con brutalità in quanto manifestazione di idolatria e paganesimo, dimenticando quanto spesso le feste e le processioni del mondo cattolico ispanico fossero teatro di flagellazioni, macerazioni e mortificazioni corporali, le cui finalità andavano nella stessa direzione.
L'aspetto più inquietante e, al tempo stesso, avvincente del fenomeno sacrificale consiste nella soppressione cruenta di una vittima: è pur vero che esistono varie forme di sacrificio che comprendono offerte e distruzioni di oggetti, di prodotti vegetali, di bevande o di altri beni, ma è sicuramente il sacrificio di sangue quello che ne costituisce il modello per eccellenza e che ne fa una forma di culto del tutto singolare. Il fatto poi che varie tradizioni religiose (quali lo zoroastrismo e il buddhismo, oltre che l'ebraismo postesilico e l'islamismo) si siano scagliate con forza contro la pratica dei sacrifici di sangue ne sottolinea l'antichità, ma al tempo stesso la variabilità di interpretazione e di valorizzazione religiosa. L'enigmatica caratteristica del sacrificio, di essere cioè un rituale religioso che si prefigge di promuovere il benessere della comunità dei praticanti, la benevolenza degli esseri soprannaturali e la scrupolosa esecuzione delle tradizioni sacrali attraverso l'uccisione di un essere vivente, venne affrontata, fra i primi, dall'etnologo tedesco A.E. Jensen (1951), il quale considerava l'interpretazione del sacrificio inteso quale dono offerto a una divinità come niente altro che una sopravvivenza impoverita e deformata di una pratica che aveva avuto la sua origine fra le più antiche culture di agricoltori.
Per questi popoli il cosmo si presentava basato su un ordinamento instabile, in cui si alternavano periodicamente distruzioni e ricreazioni, morti e rinascite, così come accade ai prodotti dei campi, che devono essere tagliati e distrutti: seppelliti poi i semi questi daranno vita, la stagione successiva, a un nuovo raccolto. Ispirandosi alle popolazioni dell'area indonesiana, Jensen riteneva che l'uccisione rituale di uomini e animali non fosse che la riattualizzazione di un mito, a suo parere universalmente diffuso tra le culture di orticoltori primitivi. Secondo tale mito, nei tempi primordiali esistevano esseri semidivini, chiamati dema. Uno di questi, un personaggio generalmente femminile, venne ucciso e dal suo corpo scaturirono le piante alimentari utili agli uomini. Da quel momento gli esseri umani furono tenuti a ripetere ritualmente il gesto originario da cui nacque la possibilità stessa di promuovere e sviluppare le forze vitali del cosmo. Il ciclo agricolo palesava la compresenza di vita e morte, distruzione e creazione. Con l'atto del sacrificio gli uomini si impadronivano del mezzo per poter controllare e manipolare a loro beneficio questo alternarsi e completarsi vicendevole di morti e rinascite. R. Girard (1972) ha invece posto l'accento sul nesso inscindibile che lega il sacro alla violenza e al sacrificio: l'ambiguità nei confronti dell'uccisione di una vittima è, secondo questo autore, l'evento fondante su cui si basa lo sviluppo della società e della religione.
Nella prospettiva di Girard, la società umana non produce inevitabilmente una coesistenza pacifica tra i suoi membri, anzi, il formarsi di rivalità, conflitti, tensioni, costituisce un ingrediente fondamentale della vita sociale e comporta pericolose tendenze alla violenza, che mettono in pericolo l'ordine sociale e il rispetto delle norme. Se però le varie tendenze aggressive vengono focalizzate su un singolo oggetto, un capro espiatorio, queste possono essere neutralizzate, trovano un canale di espressione formalizzato ed esterno e non pregiudicano la continuità dell'ordine sociale. La vittima, il cui corpo costituisce il termine sostitutivo su cui si concentrano gli impulsi violenti del gruppo, assume al tempo stesso caratteristiche di impurità e di sacralità: è esecrato e distrutto in quanto simbolo dei mali che affliggono la comunità, ma è anche considerato sacro, in quanto portatore di salvezza per il gruppo e per le norme sociali che lo reggono. Dalla violenza e dall'uccisione della vittima scaturisce quindi il senso del sacro e, con esso, la possibilità di garantire alla collettività un nuovo ordine sociale. Girard ritiene che la logica arcaica del sacrificio venne trascesa soltanto con il cristianesimo, laddove Cristo assume su di sé il ruolo di 'capro espiatorio' e offre il proprio corpo per la redenzione delle colpe di tutta l'umanità. Dall'ineludibile aggressività dell'essere umano muove anche W. Burkert (1972) in un'originale interpretazione del sacrificio nel mondo antico.
Le pratiche sacrificali, così diffuse tra le società del passato, evidenziano che "proprio nel cuore della religione incombe, affascinante, la violenza sanguinaria" (trad. it., p. 22). Anche Burkert scorge nel meccanismo rituale del sacrificio una sorta di riparazione da una colpa collettiva: è questo aspetto che gli permette di fungere tanto da cardine dell'integrazione sociale quanto da fondamento dell'ordine che governa la comunità. L'origine di tale rapporto apparentemente contraddittorio tra uccisione, mantenimento della vita e garanzia di sopravvivenza deve essere ricercata nel mondo dei cacciatori della preistoria: qui si costituisce il nucleo ideologico di una pratica che vede lo strumento della sopravvivenza degli esseri umani nell'uccisione violenta di altri esseri viventi. Con il passaggio alla cultura agricola, avvenuto in seguito alla 'rivoluzione neolitica', i rituali di caccia, da attività legate alla sopravvivenza quotidiana, divengono rappresentazioni simboliche e si aggiungono offerte vegetali e alimentari: tuttavia il nucleo centrale del sacrificio rimane la realtà della morte e lo scorrere del sangue, simbolo concreto del mistero per cui dalla morte può nascere la vita e dall'uccisione violenta il pacifico convivere in società.
Se il sacrificio cruento costituisce la manifestazione più significativa e impressionante del fenomeno sacrificale, a maggior ragione ciò si manifesta quando la vittima è un essere umano. Il caso forse più clamoroso e singolare in tal senso è costituito dal ruolo centrale che il sacrificio umano ha assunto nel mondo azteco. Imponenti riti sacrificali erano celebrati in numerose occasioni presso i templi: i sacerdoti estraevano il cuore dal corpo delle vittime e lo offrivano in oblazione agli dei. In una sorta di scambio cosmico, gli dei fornivano agli uomini i mezzi di sussistenza, garantivano la crescita dei raccolti, la pioggia che ne permetteva il prosperare, l'abbondanza dei prodotti della natura, ma in compenso imponevano di essere nutriti a loro volta dal sangue delle vittime umane. L'universo degli aztechi era un cosmo instabile e precario, destinato a estinguersi come era avvenuto già numerose volte durante le epoche precedenti e richiedeva il continuo apporto di fonti vitali da parte degli uomini, che garantivano, attraverso la pratica del sacrificio, il mantenimento dell'ordine cosmico e il procrastinarsi dell'inevitabile distruzione (Duverger 1979). Il sacrificio azteco aveva però anche un altro aspetto: quello di mantenere il dominio sui popoli soggetti e, contestualmente, di giustificare la stratificazione sociale, in cui la classe sacerdotale godeva di una condizione privilegiata (Scarduelli 1980). In un contesto storico-culturale diverso, M. Detienne e J.-P. Vernant (La cuisine du sacrifice... 1979) hanno dimostrato come nel mondo greco antico il sacrificio cruento costituisse un elemento determinante nella demarcazione simbolica fra umano e divino, fra greci e barbari, fra normalità e devianza. Entro i confini della città greca, il sacrificio si risolve in una spartizione collettiva delle carni, nella quale si riflette la visione dell'organizzazione sociale. I marginali, le forme di aggregazione religiosa e sociale atipiche, vengono esclusi dalla spartizione, mentre i rispettivi ruoli del sacrificatore e dello spettatore pongono anche una divisione di ruoli tra l'uomo e la donna.
L'importanza delle relazioni sociali che uniscono tra loro i partecipanti al rito sacrificale e che vengono illuminate dalle diverse fasi del rituale (scelta della vittima, uccisione, macellazione, cottura e distribuzione) rimane ovviamente valida anche in altri contesti culturali e offre una stimolante direzione di ricerca per interpretare questi fenomeni. Le forme sacrificali diffuse nelle diverse culture umane mostrano una grande varietà di funzioni e di obiettivi: vi sono sacrifici di ringraziamento e di comunione, come strumento per sancire un contratto o un legame speciale tra gli uomini e la divinità, come mezzo attraverso il quale garantire la continuità dei cicli cosmici o per rimediare a una qualche calamità inviata dagli dei. Come ricordato, si possono trovare offerte di oggetti apparentemente banali (prodotti dei campi, semi, bevande, nastri di stoffa ecc.), mentre in taluni casi il sacrificio comporta l'uccisione di un animale, in occasioni più rare di esseri umani. In tutte le circostanze descritte ricorre l'aspetto del dono di un corpo, tramite il quale si realizza una comunicazione tra mondo umano e mondo delle potenze sovrumane. La manipolazione del corpo della vittima, la sua uccisione e, spesso, la sua consumazione in un pasto in comune rivelano il contesto simbolico di comunione, condivisione da parte di tutti i partecipanti di un insieme di gesti e di significati che esprimono i valori sociali del gruppo. In molte religioni il sacrificio costituisce un modello paradigmatico attraverso il quale si definiscono anche le pratiche religiose più spiritualizzate: l'ascetismo, l'abnegazione, la preghiera, la condotta morale e la pratica cultuale vengono frequentemente definite come pratiche di sacrificio, sia nel cristianesimo sia nel buddhismo. Questa tendenza all'uso metaforico e analogico del linguaggio sacrificale non deve però indurre a vedere nelle pratiche sacrificali, e in particolare nel sacrificio umano, qualcosa di totalmente estraneo alla società moderna.
Recenti casi di omicidi-suicidi in massa, in Svizzera, in Canada e in Uganda a opera di sette religiose, palesano la costante presenza dell'uccisione sacrificale come ambigua e perturbante possibilità dell'agire collettivo degli esseri umani, come paradossale rivendicazione del privilegio di dare la morte o di infliggere a sé stesso o ad altri la morte, per affermare il proprio dominio sulla morte stessa.
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