SACRIFIZIO (da sacra facere "compiere l'azione sacra"; ted. Opfer)
Nella sua più comprensiva accezione il sacrifizio è quell'atto religioso mediante il quale l'offerente entra a partecipare, attraverso l'offerta o la vittima, della vita dell'essere a cui il sacrifizio è diretto.
Da questa definizione risulta: 1. che il sacrifizio è un'azione la quale suppone un offerente, un oggetto animato o inanimato da offrire, un gesto di offerta o d'immolazione, un essere a cui l'offerta vien fatta per entrare in comunione mistica con lui; 2. che l'offerta può essere incruenta, cioè semplice oblazione di primizie spontanee della terra, di vegetali coltivati (farro, orzo, grano, frutta, ecc.) ovvero di animali, sia catturati (primizie della caccia o della pesca), sia domestici (primogeniti del bestiame, ecc.) appositamente prescelti; 3. che quest'offerta è fatta per entrare in comunicazione con l'essere a cui è diretta, comunicazione mistica la quale si può esplicare nel modo più grossolano o nel più sublime a seconda della condizione culturale e morale dell'offerente. Essa dunque non è un dono puro e semplice, neppure nel caso più elementare dell'oblazione incruenta, perché l'offerente intende con essa di mettersi in relazione speciale con l'essere cui si dirige, di renderglisi presente col dono che resta sull'ara, di riconoscerne il dominio sulle cose, con quell'offerta che è insieme restituzione e riscatto. Nel caso poi della vittima immolata, l'intento della partecipazione è anche più evidente, perché la vita della vittima è offerta in qualche modo in sostituzione di quella dell'offerente; 4. che l'essere a cui il sacrifizio è diretto non è necessariamente la divinità, sebbene questa sia la grande maggioranza dei casi, perché esistono anche i sacrifizî funerarî e il sacrifizio dell'ospitalità, in cui l'animale viene immolato per suggellare con il suo sangue il vincolo che lega l'ospite a colui che lo riceve nel suo territorio o nella sua dimora.
Il sacrifizio incruento (oblazione, libazione, offerta) si trova nelle fasi economicamente e culturalmente primitive dello sviluppo umano, e anche nel culto privato dei popoli colti, che riveste caratteri di maggiore arcaicità, come quello che sfugge allo sviluppo religioso-politico dello stato. Ma appena s'iniziano nel gruppo le occupazioni anche elementarissime della vita agricola, subentra l'offerta degli animali domestici, la cui uccisione serve appunto a rendere effettiva l'offerta sottraendo l'animale all'uso profano e togliendogli quella vita che si vuole offrire alla divinità, in una concezione più profonda e integrale del sacrifizio medesimo.
Il sacrifizio cruento, pertanto, è quello verso cui tutti i popoli, in cammino verso condizioni di cultura più complesse e progredite, e fissatisi nelle grandi società politiche ed etniche del mondo antico, si sono orientati; sacrifizio inteso non solo come omaggio alla divinità, ma anche come mezzo per entrare in più intima comunione con essa attraverso la vittima appositamente scelta e preconsacrata, il cui sangue, veicolo di vita, serve appunto a stabilire un contatto mistico tra l'offerente e la divinità stessa.
Nelle religioni universali, in cui la vita religiosa degl'individui assume un grande sviluppo accanto a quella collettiva, il sacrifizio cruento finisce con non essere più sufficiente, sia come azione liturgica troppo materiale, sia come significato mistico, troppo lontano dalla vera spiritualità e legato a concetti animistici; e allora o si abbonda nella preghiera espressa in formule o in cantici collettivi attraverso i quali si attua la coesione sociale (islamismo); oppure si ha l'offerta a Dio e la ripartizione tra i presenti di una oblazione simbolica di pane e vino (protestantesimo). Il culto cattolico invece riproduce, sotto le specie del pane e del vino miracolosamente mutati, il vero sacrifizio di Gesù Cristo sulla croce.
Il simbolismo sacrificale. - Il sacrifizio è un'azione, come risulta dalla terminologia cultuale (sacra facere, o semplicemente facere presso i Latini; ποιεῖν, ῥέζειν, δρᾶν, presso i Greci; ‛āsāh, presso gli Ebrei) ed è un'azione rappresentativa che intende di effettuare quello che riproduce. Questo risulta evidentissimo nei riti agrarî dove lo spirito della vegetazione è inteso come un essere vivente (animale o umano) che muore e risorge. Quest'azione rappresentativa acquista maggior valore perché conserva e intensifica il legame sociale, in quanto il gruppo umano che compie il sacrifizio sa di compierlo a imitazione degli antenati e obbedendo alla tradizione che essi hanno fondato e tutti i predecessori del gruppo hanno ripetuto. Questo senso sociale, quando i motivi di simbolismo magico tramontano in seguito allo sviluppo culturale, resta appunto come rappresentativo della vita collettiva, che grazie ad esso si è mantenuta e accresciuta, ma sublima il suo significato in senso altamente morale.
Teorie sull'origine del sacrifizio. - L'etnologia moderna ha presentato tre diverse ipotesi sull'origine del sacrifizio. Secondo l'animismo di E. B. Tylor il sacrifizio è in sostanza un dono che l'uomo fa alla divinità per ottenerne in ricambio sia l'uso dei frutti della terra, sia altri favori di cui abbia bisogno: egli concepisce queste divinità come dotate delle stesse abitudini, affetti e desiderî degli uomini. Secondo la teoria totemistica, oggi tramontata come spiegazione integrale del fatto religioso, il sacrifizio sarebbe in origine una comunione: in quanto il gruppo umano, che si ritiene discendente da un animale divino, in certe solemi occasioni per rinnóvare il legame di parentela col dio e purificare il proprio sangue mediante un'ingestione di sangue divino, uccide l'animale sacro (che altrimenti viene sempre rispettato e mai ucciso) e se ne ciba ritualmente. W. Robertson Smith ha teorizzato in maniera seducente, ma non convincente, questa opinione, seguito da F. B. Jevons, S. Reinach, E. Durkheim. Secondo la scuola storico-culturale di W. Schmidt infine (ma già J.-M. Lagrange aveva, basandosi sugli elementi offerti dalle genti semitiche, sostenuto la medesima tesi) il sacrifizio originalmente è un dono di un oggetto che abbia in sé la vita e serva come sostentamento di vita (primizie) offerto dal primitivo alla divinità tutte le volte che debba far uso dei frutti della terra. Gli elementi magici verrebbero al sacrifizio soltanto dal ciclo culturale totemistico, che sarebbe tutto penetrato di magia: mentre il sacrifizio alimentare verrebbe dal ciclo matriarcale nel quale è assai sviluppato il culto dei morti, e il ciclo culturale dei nomadi (o pastori) avrebbe dato sviluppo al sacrifizio umano, sorto, insieme con la schiavitù e l'antropofagia, dalla mistione di taluni dei cicli su elencati.
Evoluzione del sacrifizio. - Non si può fare a meno - anche tenendo nel debito conto le precisazioni di fatto della scuola storico-culturale - di parlare di evoluzione del sacrifizio, corrispondente ai tre momenti o fasi dello sviluppo culturale umano, che sono la fase tribale, la fase nazionale e la fase universale.
Fase tribale. - Alla fase tribale, che è quella in cui vivono le popolazioni primitive e in cui entrano tutti i cicli culturali della pietra (Pigmei, Tasmaniani, bumerang, culture oceaniche [totem, due classi, arco, polinesiana], pastorale), corrisponde l'offerta di primizie, e anche un sacrifizio animale di tipo magico (ma non per questo empio), nel quale chi l'offre crede di poter promuovere o comunque aiutare l'azione della natura a benefizio del gruppo sociale nel cui nome egli agisce. Così la tribù australiana degli Arunta (ciclo del totem) compie a primavera una grande azione sacrificale detta intichiuma. Essa parte dal concetto che gli antenati totemici dei clan (canguro, lucertola, bruco, emu) abbiano lasciato sulla terra tracce del loro passaggio, specialmente su pietre e rocce da essi frequentate: in quelle pietre è riposta una riserva di energia alla quale è possibile attingere per la riproduzione delle specie viventi. A questo scopo si va processionalmente verso quelle pietre e se ne trae per stropicciamento la polvere, la quale, dispersa ai quattro venti, provocherà la moltiplicazione della specie; oppure, se non vi sono pietre sacre, si disegna l'animale sul terreno, su quel disegno il capo e i suoi assistenti si cavano sangue, inginocchiandosi intomo ad esso al canto di una nenia, persuasi che da quella effusione sull'animale rappresentato deriverà lo sviluppo della specie animale; questa cerimonia è connessa con l'obbligo di non mangiare l'animale totemico, salvo che non si mangi in rito di comunione. Questo avviene nel clan del canguro, in cui l'animale ucciso e portato nel campo viene prima gustato insieme con gli anziani dal capo, che si unge il corpo con il suo grasso, e poi distribuito al resto dell'assemblea; poi tutti gli uomini si disegnano sul corpo il canguro e tutta la notte vegliano cantando le imprese dei divini antenati canguri. In questa complessa azione è evidente, accanto all'obiettivo magico di moltiplicazione della specie (polvere di pietre, sangue), anche quello di comunione mistico-magica mediante l'ingestione dell'animale totemico, e non è escluso il carattere di oblazione, specialmente nella effusione del sangue, con la quale si rende omaggio agli antenati divini e s'invitano a mantenere la loro efficiente protezione a riguardo del clan. Questa forma di sacrifizio è propria degli aggruppamenti primitivi, ma può restare come sopravvivenza anche presso gruppi più vasti, che abbiano raggiunto la consistenza nazionale. Valga ad esempio la festa romana delle Fordicidie (v.), in cui s'immolava una vacca gravida e se ne estraeva e bruciava il feto per aiutare magicamente la terra, anch'essa gravida della semente, a portare a luce il frutto.
Fase oblativa. - Con l'evolversi della civiltà varia l'interpretazione delle credenze religiose e del rituale corrispondente. Gli dei non sono più forze impersonali da costringere, ma esseri personali, possenti e liberi, da pregare. Essi sono i patroni dello stato, ai quali si conviene quel medesimo tributo che lo schiavo dà al padrone, il suddito al sovrano. Questo tributo è appunto il sacrifizio, che viene compiuto nell'interesse della città o dello stato, con esclusione rigorosa di coloro che non vi appartengono, allo scopo di conservare la prosperità dello stato stesso e mantenere l'armonia tra il gruppo e gli dei. Appartengono a questa fase i sacrifiżî offerti dalle religioni etniche antiche e moderne dell'Egitto, dell'Assiria e della Babilonia, della Palestina e della Fenicia, dell'India (vedismo e brahmanesimo), di Grecia, di Roma, della Cina (confucianesimo e taoismo), del Giappone (shintoismo), dell'America precolombiana.
Fase mistica. - L'ulteriore sviluppo di una civiltà nell'economia nella politica, nel pensiero arreca una corrispondente evoluzione nello spirito religioso degli uomini, i quali non si appagano più dei vecchi concetti grettamente utilitarî nelle aspirazioni, troppo ristretti nel chiudere l'idea della divinità entro le barriere dello stato e della razza, troppo impari a soddisfare gli aneliti dell'anima individuale, che ormai, con l'allargarsi delle istituzioni, con lo sviluppo del pensiero, con l'evolversi del diritto sia privato, sia pubblico è venuta affermando le sue prerogative nell'ambito della famiglia e dello stato e sente tutto il valore della sua vita interiore, di fronte al tradizionale principio autoritario, che considerava gl'individui come semplici ruote dell'ingranaggio sociale.
A soddisfare questi spiriti nascono le religioni supernazionali (universali) o dovute all'opera di un riformatore religioso nato e vissuto nella piena luce della storia (Buddha, Maometto) oppure sublimazione di un primitivo culto, in genere agrario, e riannodate a un fondatore mitico, di natura divina (Dioniso, Osiride, Attis, Mithra). Queste ultime sono le religioni dette di mistero, perché suppongono un'iniziazione segreta e una serie di riti nei quali l'iniziando (che vi può accedere, senza tener conto dei vincoli di razza, di casta o di nazione) si assimila al dio, nella fiducia di averne beneficio spirituale in vita e di assicurarsi dopo la morte una beata immortalità (v. misteri). In queste religioni il sacrifizio assume il suo valore più alto perché riproduce e commemora il sacrifizio del dio, e questo sacrifizio è considerato come un segno di salvezza per quanti ne vorranno lucrare il beneficio.
Nomenclatura del sacrifizio. - Varî sono gli aspetti dai quali si può considerare il sacrifizio e le circostanze in seguito alle quali si offre.
Riguardo al tipo il sacrifizio è positivo, quando tende ad affermare e potenziare la vita dell'individuo o del gruppo che lo offre, negativo, quando vuole eliminare tutto ciò che nuoce alla vita.
Riguardo allo scopo il sacrifizio è gratulatorio, quando è offerto per ringraziare di un benefizio, espiatorio, se è offerto per remissione di una colpa o per fuggire un flagello, impetratorio, se diretto a ottenere un benefizio.
Riguardo alla materia il sacrifizio è cruento, se con uccisione della vittima; incruento, se si tratta di una semplice offerta o libazione; olocausto, se la vittima viene bruciata completamente; quando le vittime sono numerose, il sacrifizio cruento prende il nome di ecatombe; reale, se l'offerta o la vittima sono vere, simbolico, se sono finte in caso di difficoltà di procurarsi la vittima reale.
Riguardo alle circostanze il sacrifizio è periodico: giornaliero, mensile (neomenico), annuale (agrario); o occasionale: riti di passaggio (nascita, nozze, morte, intronizzazione), voti, divinazione, dediche, alleanze, iniziazione.
Poiché il sacrifizio è l'atto centrale del rito, è opportuno applicare anche a esso la triplice divisione adottata per il rito distribuendo i sacrifizî in tre grandi categorie: sacrifizî connessi con riti di passaggio, sacrifizî di oblazione (partecipazione), sacrifizî di propiziazione (v. più sotto).
La prassi del sacrifizio. - La preparazione. - Essendo l'atto religioso per eccellenza, il sacrifizio si deve compiere in ambiente che già sia sacro o che almeno venga reso tale per l'occasione con cerimonie preliminari di consacrazione. Quanto alla forma del sacrifizio, bisogna distinguere colui in cui vantaggio il sacrifizio si offre (offerente), che può essere o un singolo individuo o tutto un gruppo sociale, da colui che come esperto compie l'atto sacrificale (sacrificatore, sacerdote, ministro). Tanto l'uno quanto l'altro debbono trovarsi in stato di santità rituale (astensione da contatto venereo, bagno, vesti nuove o bianche, digiuno, emblemi o tatuaggi speciali), e mantenersi in questo stato di separazione dal mondo profano fino a che il sacrifizio non sia compiuto.
La vittima poi o è già un animale sacro (totem) o bisogna renderlo santo mediante riti e cerimonie speciali. Innanzi tutto deve essere senza nessun difetto fisico; poi, scelta e lavata, ornata, incoronata, viene invitata a procedere volentieri verso il luogo del sacrifizio, talora anche lodata per esaltarne il valore, ravvicinarla alla divinità e renderla così più acconcio veicolo di partecipazione di vita tra l'offerente e la divinità. Questa consacrazione della vittima è conchiusa da una cerimonia speciale: spalmatura di burro (India), di olio (Israele) o da una cospersione di farro e sale (mola salsa, Roma) o di orzo (οὐλαί, Grecia).
L'azione. - Consacrata la vittima, si procede all'uccisione, la quale libera il principio di vita chiuso nell'animale, che diviene così, mediante il suo sangue, efficace mezzo di partecipazione. Essa viene avvicinata all'ara, orientata sia verso taluno dei punti cardinali sia verso la presunta dimora degli dei, e in mezzo a un silenzio profondo, rotto solo dal suono di uno strumento rituale o dal mormorio di formule sacre, viene abbattuta, o iugulata, o soffocata, secondo i varî rituali e la specie dell'animale. Una volta a terra viene squartata, se ne estraggono i visceri o l'omento che sono la porzione riservata agli dei, mentre il resto viene desecrato e gustato dall'offerente e da quelli che hanno partecipato al sacrifizio.
L'uscita. - Compiuta l'azione sacrificale, prima che i partecipanti rientrino nella vita comune si debbono scaricare della sacralità accumulata su loro dal sacrifizio, mediante abluzioni, la deposizione delle vesti sacre e la purificazione degli utensili che hanno servito al sacrifizio.
Si capisce che questo schema, generale e universale, può variare nelle proporzioni delle sue parti a seconda dello scopo del sacrifizio. Infatti, se l'offerente vuole entrare in stato di santità rituale e se la vittima è profana e deve essere consacrata, i riti preparatorî sono assai sviluppati, e brevi quelli conclusivi, specialmente se l'offerente deve rimanere nello stato di santità raggiunto, come avviene nelle cerimonie d'iniziazione. Ma se l'offerente è già carico di santità rituale o perché criminale o perché malato, non c'è bisogno di riti preparatorî e la sua polluzione morale o fisica si scarica subito sulla vittima che viene immediatamente uccisa o bandita. In questo caso, invece, sono lunghi i riti di uscita perché l'offerente, pur avendo accumulato sulla vittima il proprio male, deve liberarsi di tutte le scorie e di tutti i contatti residui prima di rientrare nella vita normale.
Principali specie di sacrifizî. - Sacrifizi connessi con i riti di passaggio. - Rientrano in questa categoria i sacrifizî che si fanno nelle più importanti circostanze del culto domestico, nascita, nome, morte; i sacrifizî dell'iniziazione puberale (v. iniziazione), i sacrifizî connessi con l'iniziazione ai culti di mistero (v. misteri), i sacrifizî della soglia, del confine, dell'ospitalità. Una particolare menzione meritano i sacrifizî funerarî. Nei gruppi umani primitivi, i viventi, di fronte al morto, si preoccupano soprattutto di mantenere la separazione dai vivi e di tenerlo a bada nel timore che nuoccia, almeno fino a che non si è compiuta la scarnitura del cadavere. Per placarlo, oltre a fornire la sua tomba delle cose da lui usate in vita, si provvede a sostentarlo con offerte di cibo e di bevanda, con immolazione di animali il cui sangue rinnova temporaneamente la vita del defunto. Le tombe poi di uomini che furono dotati di speciali virtù in vita (capi, stregoni, anziani) seguitano a irradiare le medesime virtù e diventano un'ara sulla quale s'immolano sacrifizî non più a scopo alimentare, ma per attestare l'omaggio dei viventi e rendere questi possenti morti favorevoli alla loro famiglia e al gruppo sociale (v. eroe). Nelle religioni universali, siano o no di mistero, nelle quali la beatitudine del regno ultramondano è garantita ai fedeli che hanno seguito la legge religiosa, il sacrifizio non ha più né valore alimentare né valore di omaggio, ma, là dove esiste, serve a facilitare l'ingresso nella sede beata all'anima del defunto che per le sue colpe può non averla raggiunta subito.
Sacrifizî di oblazione. - Sono di gran lunga i più numerosi perché il gruppo sociale li offre normalmente per mantenere la pace con il mondo divino, riconoscere il suo dominio, ringraziarlo dei benefici ricevuti. Le grandi civiltà antiche, Egitto, Babilonia, Grecia, Roma, India, Cina, hanno praticato questa forma di sacrifizio.
Sacrifizî di propiziazione. - Si suddividono in tre categorie principali: sacrifizî agrarî, sacrifizî espiatorî, sacrifizî di fondazione.
Il sacrifizio agrario parte dal postulato proprio della mentalità prelogica del primitivo, che l'uomo deve contribuire con la sua azione al ritmo delle stagioni affinché la terra produca il suo frutto. Esso suppone anche la credenza animistica che il campo coltivato abbia un suo proprio principio di vita, sintetizzato in uno spirito (spirito della vegetazione) che può essere incorporato in un essere inanimato (pietra, fantoccio), in un animale (volpe, cane, gallo) o in un uomo. A questo spirito bisogna offrire una parte del raccolto che è suo, per poter usare impunemente del raccolto stesso. Questo spirito, che si spegnerebbe dopo il raccolto, bisogna incorporarlo in qualche oggetto o animale, e mantenerlo vivo mediante l'azione sacrificale. Il sacrifizio agrario, pertanto, consta di due momenti: 1. espulsione del vecchio spirito della vegetazione sotto le spoglie di un vecchio o di un animale; 2. introduzione di un nuovo principio di vita.
Un caso tipico di sacrifizio agrario è quello che aveva luogo in Atene, dopo la mietitura, in onore di Zeus Polieus (Dipolie, Bufonie). Innanzi all'ara del dio stanno focacce d'orzo incustodite. Un bue si appressa per mangiarle, ma viene colpito con l'ascia da un sacerdote che subito fugge. L'ascia viene processata e condannata, la vittima scuoiata e distribuita ai presenti, la pelle riempita di paglia e l'animale così ricostituito attaccato all'aratro. Questo rito si scompone in quattro atti: 1. offerta delle focacce d'orzo, primizie della raccolta e oblazione di riscatto; 2. uccisione del bue che ne ha violato la santità, e tuttavia processo all'ascia perché quell'uccisione è stata un sacrilegio essendosi il bove incorporato lo spirito della vegetazione; 3. distribuzione della vittima in sacrifizio di comunione a tutti i presenti i quali così sono messi in grado di usare del nuovo raccolto e di operare con efficacia i lavori agricoli; 4. la risurrezione, e cioè la continuità dello spirito della vegetazione, raffigurata dall'impagliatura della pelle e dall'aggiogamento all'aratro.
L'importanza dei riti agrarî, nell'economia generale della natura, è stata sempre così grande in seno ai gruppi umani, che questi riti sono rimasti come sopravvivenza nel folklore della mietitura. Anche qui si ha il medesimo schema fondamentale. Lo spirito della vegetazione è raffigurato dall'ultimo covone ("covone madre", "madre del grano") che resta nel campo dopo la mietitura e che o viene conservato per mescolarne i chicchi al grano della nuova semina, o viene bastonato, bruciato o comunque malmenato per cacciare via lo spirito e costringerlo a entrare nella nuova semente, o talora è rappresentato da un animale, reale (cane, gatto, maiale) o finto, se l'animale è raro o pericoloso, o dal covone stesso. O infine è rappresentato da un uomo: l'ultimo mietitore a tagliare la mannella, o l'ultimo a legare il covone, o un viandante che passa per il campo in quel momento: i quali tutti, a seconda degli usi, vengono o malmenati o coronati di fiori e trasportati sull'ultimo carro, o legati e costretti a pagare per il loro riscatto, ecc.
Dal sacrifizio agrario è facile il passaggio al sacrifizio del dio quando la vittima umana si sostituisce, come spirito della vegetazione, all'offerta vegetale, perché perdendo il contatto con l'elemento vegetale lo spirito di vegetazione perde la sua autonomia a favore dell'individualità umana e ne assume il nome, la personalità morale e infine anche la leggenda. Creata questa leggenda mitica, è fissata anche la figura del dio e il sacrifizio agrario periodico diviene la ripetizione salutare della vicenda sacrificale avvenuta al dio in origine e la cui ripetizione serve ad assicurare agli uomini i benefici (che non sono più agrarî, ma religiosi) di quella immolazione primordiale. In talune religioni di mistero (misteri di Attis, Adone, Osiride) è possibile riconoscere la sublimazione di un antico rito agrario (v. misteri).
Il sacrifizio espiatorio muove dal concetto magico che si possa trasferire il male (fisico o morale) da un oggetto sopra un altro che poi viene allontanato o ucciso. Tipico caso di sacrifizio espiatorio era, in Israele, quello del capro espiatorio o emissario, sul quale il sommo sacerdote, vestito di lino e dopo opportune lustrazioni, accumulava, posandogli ambe le mani sul capo, tutti i peccati del popolo e che poi faceva subito condurre via da un uomo lì pronto che doveva abbandonarlo in un luogo deserto e, in tempi più tardi, precipitarlo da un dirupo (Mishnāh, tr. Yoma). La vittima di un sacrifizio espiatorio poteva anche essere umana, come avveniva nell'antichità a Marsiglia in caso di pestilenza (Serv., Ad Aen., III, 57) e annualmente in Atene nella festa delle Targelie. Ai sacrifizî espiatorî appartengono anche quelli lustratorî (v. lustrazione).
Il sacrifizio di fondazione partecipa dell'elemento consecratorio e di quello espiatorio. Parte dal concetto di porre lo spirito dell'animale (o dell'uomo) sacrificato a protettore dell'edifizio da costruire. Così i Bataki di Sumatra pongono i cadaveri sulle travi angolari delle loro abitazioni, i beduini del paese di Moab uccidono l'animale nel punto dove piantano il piolo principale della tenda. Nell'antico Canaan lo scavo ha dato numerosi resti di sacrifizî di fondazione; in Roma sotto l'abside della basilica di Porta Maggiore sono stati trovati resti delle ossa di un cane e di un porco.
Il sacrifizio della messa. - Per quanto non sia per sé essenziale al sacrifizio l'immolazione di una vittima, è certo che per la teologia cattolica la forma completa e perfetta di sacrifizio è quella in cui si ha non soltanto l'oblazione ma anche la distruzione reale o equivalente di un oggetto sensibile che l'uomo offre per riconoscere il supremo dominio di Dio e insieme per espiare le proprie colpe (Franzelin). Nella quale definizione sono adombrate due delle tre specie di sacrifizio fondamentali elencate più sopra, cioè il sacrifizio oblativo (detto anche dai teologi "latreutico" in quanto riconosce il dominio supremo di Dio, "eucaristico" in quanto rende omaggio di grazie per i benefici ricevuti, "impetratorio" in quanto si offre per ottenere da Dio benefici) e il sacrifizio propiziatorio, con il quale si placa la divina giustizia rendendogli la dovuta soddisfazione per le colpe degli uomini.
Il sacrifizio unico del cristianesimo è l'oblazione sacrificale dell'Eucaristia che si svolge nella celebrazione della messa. La teologia cristiana ha fino da principio spiegato il carattere sacrificale dell'Eucaristia, la quale si fa in commemorazione (ἀνάμνησις) della morte del Signore (S. Paolo, I Corinzî, XI, 24-25; Matteo, XXVI, 26-28; Marco, XIV, 22-24; Luca, XXII, 19-20). La quale morte fu un vero sacrifizio (ϑυσία), come dimostra l'Ep. agli ebrei (IX, 11-14). La sua celebrazione serve a esprimere il vincolo sociale della comunità (κοινωνία) (I Cor., X, 16-17).
I padri e i dottori della Chiesa hanno ampiamente sviluppato questo tema: 1. dimostrando come nei sacrifizî dell'Antico Testamento si ha un'ombra e una figura del sacrifizio di Cristo (cfr. S. Leone Magno, serm. VII e VIII De passione Domini), e nelle profezie, particolarmente in quella d'Isaia, LIII, 1-11, con la descrizione del "Servo di Jahvè", il prototipo di Gesù; 2. mostrando che il sacrifizio di Cristo consiste nella volontarietà della sua immolazione, che egli compie come sacerdote in quanto volontariamente agisce e come vittima in quanto volontariamente accetta la morte (Aug., De civ. Dei, X, 6); 3. facendo rilevare come il frutto del sacrifizio di Cristo sia stato la redenzione del mondo la quale, una volta compiuta in sé stessa, deve ora operarsi in ciascun individuo (S. Thom., De veritate, q. 39, a. 7, ad 8): 4. sostenendo perciò che la sua funzione di mediatore tra Dio e gli uomini, compiuta sulla croce, Cristo la continua in cielo (Franzelin, De verbo incarnato, LI, 2).
Bibl.: G. De Cesare, Dell'origine vera de' sacrifizî, Napoli 1811; P. Kleinert, Religionsgeschichtliche Studien zur Theorie des Opfers, in Theologische Studien und Kritiken, 1874; W. Robertson-Smith, The Religion of the Semites, Londra 1889; E. B. Tylor, Primitive culture, ivi 1891; F. B. Jevons, Introduction to the History of Religion, ivi 1896; S. Reinach, Cultes, mythes, religions, I, Parigi 1905, p. 96 segg.; M.-J. Lagrange, Études sur les religions sémitiques, 2ª ed., Parigi 1905, pp. 247-74; W. Wundt, Völkerpsychologie, VI, Mythus und Religion, parte 3ª, Lipsia 1915, p. 459 segg.; H. Hubert e M. Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, in Année sociologique, II, 1899, ristampato in Mélanges d'histoire des religions, Parigi 1909; E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, ivi 1912; G. van der Leeuw, Die do-ut-des-Formel in der Opfertheorie, in Archiv für Religionswissenschaft, XX (1920-21), p. 241 seg.; id., Phänomenologie der Religion, Tubinga 1933, p. 327 seg.; A. Loisy, Essai historique sur le sacrificie, Parigi 1920; A. Lods, Examen de quelques hypothèses modernes sur les origines du sacrifice, in Revue d'hist. et de litt. religieuses, 1921, p. 483 seg.; W. Schmidt, Ethnologische Bemerkungen zur theologischen Opfertheorien, S. Gabriel-Mödling 1922; id., Notions générales sur le sacrifice dans les cycles culturels, in Semaine d'ethnologie religieuse, III sess., Tilburg 1923; R. Will, Le culte, I, Strasburgo 1925; M. Mauss, Essai sur le don, in Année sociologique, n. s., I (1925).
India. - Sin dal più antico monumento religioso dell'India, il Ṛgveda, il sacrifizio appare essere stato al fedele mezzo imprescindibile per impetrare dagli dei, cui egli si rivolgeva e che invitava al banchetto, ogni migliore grazia (do ut des): vittoria sui nemici, ampio bottino, figli maschi che potessero continuare la stirpe, ecc. Né mancava il sacrifizio per espiazione, diretto a pacificare con offerte gli dei, adirati contro il mortale che li aveva offesi col trasgredirne la volontà; ignota invece, quasi interamente era la cerimonia sacrificale per rendimento di grazia. Non fa perciò meraviglia che il sacrifizio, per cui già nel Ṛgveda stesso si dice che l'uomo può fare violenza sulla volontà del dio, anzi superarlo, ed "esercitare la sua misteriosa influenza sulle cose e sugli avvenimenti", finisse con l'attrarre nel suo ambito ogni più ampio potere della vita religiosa, col divenirne il centro, col signoreggiare su essa. Ferma, cioè, si fece la certezza che solo per la "via delle opere" (karmamārga) battuta col compimento del sacrifizio, l'uomo avrebbe potuto raggiungere il suo massimo bene; che nulla al mondo si sarebbe potuto avverare di quanto all'uomo fosse sperabile, che non dipendesse dal sacrifizio; ma di più: si affermò che al suo immenso potere soggiacevano pure gli dei, i quali, traendo da esso il loro nutrimento, potevano per esso compiere ogni loro volere. E così, nell'illimitato accrescersi della sua potenza, il sacrifizio giunse a essere identificato nel più alto signore e a venire considerato "l'anima di tutti gli esseri, l'anima di tutti gli dei" (Śatapathabrāhmaṇa, XIV, 3, 3, 1).
Ciò dato, ben si comprende come al sacrifizio, resosi col tempo cerimonia sempre più ampia e complessa, dovesse venir posta la massima possibile cura perché risultasse in ogni sua parte perfetto, se non si voleva correre il rischio che vana ne risultasse ogni efficacia. Di qui un intero Veda, il Yajurveda "il Veda delle formule sacrificali", particolarmente dedicato al sacrifizio e, più tardi, speciali voluminosi trattati, i Brāhmana, nei quali venne data dichiarazione di ogni possibile norma regolatrice di esso e di ogni rito che gli si accompagnava. Il fuoco ne fu, naturalmente, l'elemento essenziale. In origine, forse, mezzo magico per allontanare i demoni, esso divenne col tempo il messaggero delle offerte agli dei, la bocca, anzi degli dei stessi, per mezzo della quale essi avrebbero potuto fruire degli oggetti del sacrifizio. Esistettero sacrifizî con un sol fuoco, i più modesti e certo i più antichi: quelli che si riferivano alle cerimonie domestiche, il cui officiante era il paterfamilias stesso o un sacerdote che lo rappresentava (purohita, praepositus). Concernevano tali sacrifizî ogni avvenimento e atto relativo alla vita familiare (nascita, immediata difesa del bimbo da spiriti maligni, imposizione del nome, ammissione al discepolato, matrimonio, morte). Ogni particolarità riferentesi alle varie cerimonie - le quali, secondo la rispettiva finalità, venivano compiute due volte al giorno (mattina e sera) o alla luna nuova e piena di ogni mese, o ogni quattro mesi, all'inizio della primavera, della stagione delle piogge, dell'inverno - riposava su quanto era giunto all'uomo per tradizione (smṛti), le cui norme particolari erano contenute in testi, aritichi sì, ma posteriori ai Veda, chiamati Gṛhyasūtra "regole [per le cerimonie] domestiche". Tutto quanto, invece, pur considerato nei Veda, poteva concernere avvenimenti al di fuori della vita domestica, fu oggetto di maggiore solennità nel rituale, di cui ogni particolarità fu considerata frutto di rivelazione (śruti) e le cui norme furono col tempo raccolte in testi chiamati appunto Śrauta-sūtra "regole [per le cerimonie] relative alla rivelazione". Tali cerimonie richiedevano varî sacerdoti, ciascuno con funzioni ben determinate e in numero diverso secondo il genere e la qualità del sacrifizio. La cerimonia sacrificale si compiva, in tal caso, dinnanzi a tre fuochi con abbondanza e varietà di offerte e poteva prolungarsi per settimane, mesi e pure per un anno.
Luogo di celebrazione del sacrifizio domestico era, naturalmente, la casa del sacrificante, e altare il focolare domestico. Per i sacrifizî solenni, in mancanza di templi, che solo più tardi vennero costruiti veniva scelto un sito prossimo alla dimora del sacrificante. Disegnato, o forse lievemente sopraelevato uno spazio quadrangolare, si faceva di esso un altare (vedi), sul quale si stendeva uno strato di erba morbida (barhis) che avrebbe dovuto figurare da tappeto su cui si sarebbero assisi gli dei invitati al sacrifizio in loro onore. Soltanto nei sacrifizî che venivano compiuti per assicurare la solidità di una costruzione, veniva innalzato un altare di mattoni per il fuoco (agnicayana).
Sullo strato d'erba si collocavano gli utensili per il sacrifizio e le offerte. A cerimonia compiuta, il barhis e i residui delle offerte venivano gettati sul fuoco, affinché nulla agli uomini dovesse rimanere di quanto era stato destinato agli dei. Le offerte consistevano generalmente in ciò che si riteneva cibo gradito agli dei: prodotti di pastorizia (latte acido o no, burro), o di agricoltura (grano, orzo, riso, farina, focacce) e pure in vittime di animali (bovini, ovini, raramente e solo per uno speciale sacrifizio solenne, il cavallo; per un particolarissimo caso, l'asino).
Cerimonia che si celebrava una volta all'anno, di primavera, in un giorno di luna nuova o piena, particolarmente designata col nome di Agniṣṭoma, propr. "inno di lode ad Agni", era il sacrifizio di Soma, il succo inebbriante tratto dalla pianta montana Asclepias acida, che risale nelle sue origini al tempo dell'unità aria, come è facile dedurre dalle corrispondenze lessicali e sostanziali (terminologia e procedimento della pratica sacrificale) col sacrifizio iranico del Haoma (v. appresso). Preceduto da quattro giorni di funzioni preparatorie, esso si svolgeva nel quinto, in tre momenti diversi del giorno (mattino, mezzogiorno, sera) rispettivamente con tre pigiature della pianta, accompagnate tutte da riti diversi. Le pigiature venivano eseguite con pietre collocate su una pelle di bue: il succo che usciva dagli steli, raccolto e passato successivamente in varî recipienti, era versato su un filtro di lana di pecora e, così purificato, veniva libato dagli officianti e offerto agli dei, puro o misto col latte o farina o miele. Alla fine del sacrifizio un bagno del sacrificante, della moglie sua e degli officianti, liberava tutti dall'influsso maligno che sarebbe potuto venir loro dal contatto prima avuto con oggetti destinati alla divinità.
Ma il più solenne fra tutti i sacrifizî era l'Aśvamedha "il sacrifizio del cavallo", che soltanto un sovrano poteva celebrare. Dedicato in origine, forse, particolarmente a Indra, il dio guerriero per eccellenza, fu poi offerto a tutti gli dei, e più tardi ancora in modo speciale a Praiāpati. Esso era così il sacrifizio regio vero e proprio, quello con cui il sovrano invocava, anche dopo un ottenuto trionfo, accrescimento di forza, irresistibile ampliamento e splendore d'impero, progenie, vittoria in imminenti conflitti.
A questi e a qualsiasi altro genere di sacrifizî, di origine eminentemente vedica e di uso pure nel periodo brahmanico, si oppose il buddhismo, sia per la riconosciuta futilità di qualsiasi pratica rituale, sia per il principio sancito e severamente osservato del più severo rispetto verso ogni vita.
Sacrifizio iranico. - Sebbene nello Yasht (il l. IV dell'Avestā) si accenni a sacrifizî offerti alla dea Anāhita di mille stalloni, mille tori e diecimila pecore, pure si può con certezza affermare che il sacrifizio iranico per eccellenza consistette nell'offerta ad Ahura Mazdā, particolarmente, e a tutti gli dei del mondo celeste e terrestre e a Zarathustra e agli spiriti dei morti, del Haoma, o, meglio del Parahoma, il succo del Haoma, il liquore inebbriante, che trova il corrispondente nel Soma indiano, il cui uso conferma l'accennata ipotesi che un sacrifizio di tal genere fosse praticato sino dal tempo in cui gl'Indiani e gl'Irani costituivano nell'unità aria un popolo solo. E tale uso si è conservato pure oggi presso i Parsi. Il fuoco fu il principale elemento del culto e fu considerato quanto di più puro esistesse in natura. Alimentato con legno di sandalo, esso doveva essere, all'aperto o in casa o in santuarî, tenuto sempre vivo sull'altare e gelosamente custodito contro qualsiasi elemento che lo potesse contaminare. L'Athravan - così è nominato nell'Avesta "il sacerdote del fuoco" (cfr. il nome del sacerdote vedico Atharvan; Magi chiamarono invece i Greci i sacerdoti zoroastriani) - poneva ogni cura a mantenerne la purezza, impedendone il contatto persino col sole e col proprio alito e non toccandolo che con le molle. Il succo del Haoma, considerato ricco di ogni virtù e tale da rendere la vita a un moribondo, veniva estratto mercé pressura della pianta in un mortaio e, dopo invocazione della divinità in onore della quale il sacrifizio si celebrava e consacrazione di latte e frutta (varî sacerdoti prendevano parte alla cerimonia con ufficio rispettivo di cantore delle Gāthā, di spremitore del Haoma, di manipolatore del succo, di preparatore del fuoco, di soprintendente a tutti gli altri), esso veniva in parte bevuto dal sacerdote sacrificante e in parte gettato sull'altare. La riforma di Zarathustra, che portò all'abolizione di ogni sorta di sacrifizio, contrastò pure il sacrifizio di Haoma (nella parte più antica dell'Avestā, le Gāthā, assai poco infatti si accenna ad esso), per essere il liquido una sostanza inebbriante.
Da sviluppi di particolari del sacrifizio si ebbe lo svolgimento più ampio di pratiche minori sacrificali, con offerte di speciali ostie (dārūn) agli Amesha Spenta "i Santi immortali" e di recitazione di particolari preghiere con offerte di frutta, di fiori, di latte fresco, acqua, ecc., in onore dell'anima di un morto e per ottenere la protezione e l'aiuto di un angelo custode.
Gli accennati sacrifizî di animali (cammelli, tori, gazzelle, cavalli, asini, uccelli), che erano in uso prima della riforma di Zarathustra, vennero certamente ripresi dopo la morte del profeta, sia pure senza l'antico vigore, giacché i Persiani, certi per il verbo rivelato da Zarathustra, che la vita degli animali risultava appartenere ad Ahura Mazdā (la personificazione del principio del bene), mentre la morte era possesso di Ahriman, non ritenevano più lecito offendere la vita, sia pure a finalità religiosa; ma si tentò di ovviare a tale difficoltà col considerare che l'anima dell'animale che veniva sacrificato tornava a Dio, mentre il corpo immolato si doveva considerare dedicato alle varie divinità, come quello che, smembrato dall'offertore del sacrifizio o dal sacerdote e bollito (non mai bruciato), veniva ingerito da essi, dopo che era stato esposto su uno strato d'erba a simboleggiare l'offerta alla divinità.
Bibl.: A. Hillebrandt, Die Rituallitteratur. Vedische Opfer und Zauber, Strasburgo 1807 (Grundr. d. Indo-Arisch. Philol. u. Altertums Kunde, III, 2); P. E. Dumont, L'Açvamedha. Descriptiom du sacrifice solennel du cheval dans le culte védique d'après le texte du Yajurveda Blanc, Parigi 1927.
Popoli semiti. - Presso i Semiti il sacrifizio ha il carattere costante di offerta di una cosa fatta al dio come signore sovreminente della cosa stessa e allo scopo di ottenerne favori. Vi sono sacrifizî a date fisse (giornalieri, mensili, stagionali, ecc.), oppure a tempi indeterminati in occasione di particolari avvenimenti (nascita, malattia, morte, fondazione d'un edificio, ecc.). Si offrono incenso, cibi, bevande; s'immolano bestie, talvolta anche persone umane. L'offerta o immolazione è fatta talvolta, specialmente nei tempi più antichi e nelle forme culturali più semplici, dalla stessa persona che la vuole; più spesso, però, questa persona commette l'esecuzione materiale dell'offerta a un intermediario fra lei e la divinità, cioè a un sacerdote, espressamente destinato al rito e scelto secondo particolari norme. Il sacrifizio è compiuto sull'altare, o almeno su un posto già rivestito in qualche modo di carattere religioso. Si riteneva che il dio o gli dei prendessero parte al sacrifizio, ricevendo la cosa offerta e servendosi di essa; quindi, nel caso dell'immolazione, il sangue della vittima sgozzata veniva sparso sopra e attorno all'altare e le migliori parti del corpo venivano poste sopra di esso: il sangue, sede dello spirito vitale, era la porzione tipica ed esclusiva dovuta alla divinità, mentre le carni non poste sull'altare venivano consumate dalla persona offerente o dal sacerdote sacrificante, oppure venivano bruciate. Specialmente in Babilonia i banchetti sacrificali assumevano proporzioni grandiose, partecipandovi per principio antropomorfico gli dei insieme con gli offerenti e i sacerdoti. Il fumo dell'olocausto, o delle parti della vittima bruciate, saliva gradito al volto delle statue divine erette nel tempio e le placava: salivano ad esse anche le nuvole d'incensi bruciati in recipienti speciali, insieme con legni profumati e talvolta anche speciali farine. Le libazioni, cioè i versamenti di bevande attorno all'altare, erano di latte, olio, vino: la libazione d'acqua fatta da David a Jahvè (II Samuele [Re], XXIII, 16) fu più un atto di devozione soggettiva che un vero rito.
Già numerose allusioni della Bibbia, e modernamente i ritrovamenti degli scavi archeologici, hanno dimostrato che presso i Cananei e i Fenici si praticavano sacrifizî umani. Essi erano compiuti specialmente in occasione di pubbliche calamità, quasi per offrire alla divinità sdegnata uno o pochi individui in riscatto della collettività, o in occasione dell'inizio di un nuovo edificio (sacrifizio di fondazione), quasi per conciliare la protezione del dio sull'edificio o per allontanarne genî maligni: nel primo caso il sacrifizio era fatto in presenza della moltitudine (cfr. II [IV] Re, III, 27), nel secondo caso la vittima (di solito in tenera età) era sotterrata sotto le fondamenta. Si è anche supposto che i Cananei praticassero il sacrifizio dei primogeniti umani (che gli Ebrei offrivano a Jahvè, ma subito riscattandoli col sacrifizio sostituito di animali), ma tale usanza non è dimostrata.
Ebraismo. - Presso gli Ebrei i sacrifizî cruenti (zĕbāḥīm) si dividevano in tre specie: l'olocausto (‛olāh), il sacrifizio espiatorio (ḥaṭṭāth, ovvero 'āshām) e il sacrifizio pacifico (shelem). L'olocausto, che importava l'abbruciamento dell'intera vittima, era il più solenne e poteva essere offerto anche a nome di non Ebrei; l'espiatorio era per scontare un peccato ovvero un'omissione involontaria; il pacifico aveva scopi o impetratorî o di ringraziamento o semplicemente devozionali. Vittime di sacrifizî cruenti potevano essere sia quadrupedi (bovini, ovini, capre) sia volatili (tortore, colombe), che si richiedevano sempre di forme perfette. Vittime umane furono severamente proibite dalla Legge, ma lungo i secoli furono usate più d'una volta dagli Ebrei sotto l'influenza dei finitimi Cananei.
Si offrivano in sacrifizio incruento (minḥāh) farina, semola, focacce, pani, e in sacrifizio di libazione (nesekh) vino. Le oblazioni solide erano quasi sempre cosparse di olio e sale.
Un carattere speciale avevano il sacrifizio dell'agnello pasquale e quello del capro espiatorio.
Grecia. - I sacrifizî in Grecia, come dappertutto, si dividono in due grandi categorie: offerte incruente o doni (δῶρα) e immolazioni (ϑυρίαι, ἱερεῖα). I doni erano di vario genere: dalle primizie del raccolto, con l'offerta delle quali si riconosceva la potestà degli dei sulle cose usate dall'uomo e se ne otteneva il riscatto, ai doni di sostanze solide o liquide deposti sulle are pubbliche o private nelle circostanze più varie della vita. Le immolazioni poi nelle loro diverse specie, dalle gratulatorie alle espiatorie e alle funerarie entravano anch'esse nelle occasioni più solenni della vita pubblica o privata perché il sacrifizio è il modo più efficace d' interessare la divinità ai casi degli uomini, talvolta di forzarli magicamente a produrre questo o quel fenomeno (sacrifizî agrarî, p. es. nelle Bufonie); o anche di stabilire con loro una comunicazione attraverso la vittima che perciò veniva consacrata e consumata durante la cerimonia (sacrifizî di comunione nei Misteri).
Le cose sacrificate. - L'offerta più comune era quella di focacce (πόπανα, πέμματα, ἄρτοι, πελανοί, μᾶζαι) che potevano avere varie forme, umane o animali e anche di oggetti: orcioli, luna, lira, a seconda delle divinità cui venivano offerte. Alle divinità infere si offrivano libagioni di latte e miele (μελίκρατον) dette anche νηϕάλια e ὑδρόσπονδα in quanto non contenevano vino, e un tipo speciale di πελανός semiliquido fatto di farina intrisa con olio e miele.
V'erano anche offerte di legumi e frutta, fave, grappoli, rami di olivo e favi di miele, presentate entro κέρνη o piatti di argilla con spartizioni interne a forma d'incavo per porvi offerte varie: frumento, orzo, ceci, lenti, piselli, papaveri, lana, miele, ecc.; libagioni (σπονδαί) di vino misto ad acqua, usate specialmente in occasioni di trattati e alleanze conchiuse da giuramento, onde σπονδαί finì col significare la tregua; le libagioni funerarie avevano il nome di χοαί. Anche i profumi (ϑύεα, ϑυμιάματα) in origine usati a scopo di disinfezione spiritica finirono con diventare un'offerta.
Quanto ai sacrifizî cruenti, gli animali più ordinariamente sacrificati erano buoi, pecore, capre, porci; ma potevano essere anche di altra specie determinata dalla natura del dio o dalle circostanze del sacrifizio: così a Esculapio si sacrificava il gallo, a Ecate il cane, a Posidone (e al sole a Rodi) il cavallo. Talune divinità poi escludevano dal loro sacrifizio certe specie animali, p. es. Afrodite il porco, e in questo caso la legge del santuario fissava per scritto la proibizione. Si aveva in genere cura, benché in Grecia la cosa non sia rigorosa, come dimostrano le superstiti iscrizioni di leggi di santuarî, di uniformare il sesso dell'animale a quello della divinità.
Le vittime dovevano essere prive di difetti fisici (ἄρτια καὶ τέλεια) e una volta scelte venivano curate e ingrassate in vista del sacrifizio. Gli animali venivano talora offerti in gruppi di tre (τριττοία) specie in occasione di trattati, o di dodici (δωδεκάς), p. es. ad Apollo sia a Delo sia a Delfi; o di cento (ἑκατόμβη) sebbene questo nome iperbolico di rado corrisponda sia al numero sia alla specie (buoi) degli animali sacrificati.
V'erano, infine, anche sacrifizî umani, sia occasionali in circostanze di guerre, carestie, epidemie, p. es. quelli d'Ifigenia e Polissena o quello di tre Persiani ordinato da Temistocle (Plut., Them., 13) prima della battaglia di Salamina; sia ordinarî come quelli a Zeus Lykaios in Arcadia, a Krono in Rodi, ad Apollo in Atene per le Targelie. Ad attutire in tempi storici la crudeltà di questo uso si sceglieva come vittima un criminale (come nelle Targelie) oppure la vittima veniva soltanto ferita (come per l'Artemide Taurica) o flagellata (come per l'Artemide Orthia, a Sparta).
Le persone. - Nell'operare il sacrifizio il sacerdote vestiva un abito bianco, talora ornato di porpora e portava in capo una corona di mirto, di lauro, di olivo a seconda della divinità, corona che mentre lo metteva sotto l'usbergo del dio e lo difendeva dai mali influssi, esprimeva anche quella favorevole disposizione di spirito che deve avere chiunque si accosta agli dei. Perciò Senofonte, che si era tolto la corona all'annunzio della morte del figlio datogli mentre faceva un sacrifizio, se la ripose in capo quando seppe che era morto da eroe (Diog. Laert., II, 54)
La corona era, anzi, una caratteristica così essenziale del sacerdozio greco che prendere o deporre la corona significava assumere o deporre la carica sacerdotale e in Roma sacrificare graeco ritu voleva dire sacrificare coronati anziché con il lembo della toga tirato sul capo. Il sacerdote greco era perciò detto anche στεϕανηϕόρος, "portatore di corona".
Ministri inferiori del sacrifizio erano i κήρυκες o araldi che intimavano il silenzio sacro ed eseguivano altre mansioni all'ara; i μάγειροι che s'incaricavano di tutto ciò che riguardava lo squartamento e la cottura della vittima. Chi offriva il sacrifizio doveva essere in stato di purità, sia interiore sia esterna; quest'ultima oltre a evitare contatti sessuali imponeva in qualche santuario, l'astinenza da certi cibi: lenticchie, carni di capra, o l'intervallo di un dato numero di giorni da quello di una polluzione funeraria.
In genere in Grecia, dove il particolarismo geografico e politico creò una grande quantità di templi e di rituali con le relative leggi scritte, il sacerdote è l'unico competente a celebrare il sacrifizio. Ma il sacrifizio poteva essere offerto dallo stato, dal capo di una spedizione militare, da un privato che in tal caso ne sostenevano le spese.
Gli utensili. - Oggetti caratteristici di ogni sacrifizio erano un vaso contenente l'acqua lustrale (κέρνιψ) e una cesta (κανοῦν), che poteva essere anche di argento, che conteneva il tritello d'orzo (ὀλαί, οὐλαί) e una spada (μάχαιρα) o coltello sacrificale, e che anche se veniva portata fuori della cesta doveva sempre essere messa con questa a contatto, prima di calarla sul collo dell'animale. Altri vasi con acqua per aspersioni (περιρραντήρια) posavano presso l'altare. Questo era alto (βωμός) se si sacrificava agli dei celesti ovvero era un basso tumulo di terra (ἐσχάρα) se si sacrificava a divinità ctoniche, a eroi o defunti.
I riti. - Il sacrifizio agli dei celesti aveva luogo al mattino. Sull'ara avanti al tempio o nel mezzo del sacro recinto (τέμενος), ornata di bende e di fiori, sta il sacerdote coronato e biancovestito. Avanti a lui la vittima viene recata a braccia se piccola o guidata (ma non trascinata a forza, poiché sarebbe di cattivo augurio) con la corda se grande. Anch'essa è coronata, ornata di bende e ha le corna dorate. Prima dell'uccisione viene portata al voluto grado di santità rituale, che la rende degno veicolo di partecipazione tra la divinità e gli uomini, spargendole sulla testa (e poi anche nel fuoco e sui presenti) il tritello d'orzo (οὐλοχύται, προχύται) non solo quale elemento di purificazione, ma quale elemento unificatore, nella sfera del sacro, fra tutti i partecipanti alla cerimonia. Altro rito purificatorio preliminare consisteva nell'immergere un tizzone (δαλός, δαλίον) del legno sacro che bruciava sull'ara, nell'acqua della κέρνιψ che ne rimaneva santificata e nello spruzzare poi con quest'acqua la vittima e l'assemblea (κατασπένδειν).
La mossa del capo che l'animale faceva a questa aspersione veniva interpretata come un consenso (di buon augurio) al sacrifizio.
Santificata così la vittima, le veniva tagliato sul capo un ciuffo di peli e gittato sul fuoco a simbolo dell'imminente iugulazione (κατάρχεσϑαι); indi un araldo (κήρυξ, ἱεροκήρυξ) domandava: τίς τῇδε; "chi è presente?" e gli veniva risposto πολλοὶ κἀγαϑοί "molti e buoni", domanda e risposta che erano come un invito agl'indegni a ritirarsi dal rito (Suid., Lex., s. v.). Seguiva, sempre da parte dell'araldo, un invito al silenzio rituale (εὐϕημεῖτε, εὐϕημία ἔστω) e ottenuto questo si faceva la preghiera (κατευχή) che innalzava l'animo dei presenti agli dei e ricordava lo scopo del sacrifizio: era questo il momento spiritualmente più solenne della cerimonia.
Terminata la preghiera, al suono rituale del flauto che attutiva i rumori estranei, la vittima se era grossa veniva tramortita con colpo di mazza sul capo o sulla spina dorsale e le si rovesciava la testa all'indietro perché guardasse verso l'alto (ἀνερύειν, ὀπίσω ἕλκειν), indi si iugulava con un colpo di punta (σϕάττειν, τραχηλίζειν); se era piccola veniva tenuta ferma tra le braccia o stretta fra le gambe. Aperta la gola, con il sangue che usciva a fiotti si aspergeva l'altare. La bestia veniva poi scuoiata, sventrata per estrarne i visceri (σπλάγχνα) che venivano prima esaminati a scopo divinatorio, poi in parte offerti e bruciati sull'ara, in parte abbrustoliti per mezzo di forconi e distribuiti in pasto rituale tra i presenti.
Le carni poi (κρέα), dette ὑπέρτερα "superiori" per opposizione ai visceri, venivano in parte offerte agli dei (in Omero le cosce μηροί, che poi finirono con ridursi all'osso del femore chiuso tra due strati di grasso) con aggiunta di focacce e cospersione di vino e talora di olio: ϑεομορία o "parte degli dei"; questa offerta veniva fatta tra canti e danze (ὕμνοι παρασπόνδειοι). Tutto il resto rimaneva proprietà di chi aveva fatto le spese del sacrifizio; questi, se era un privato, se le portava a casa convitando gli amici a lieto banchetto; nel caso di sacrifizî pubblici (δημοτελεῖς ϑυσίαι, δημόσια) le carni venivano distribuite ai presenti (κρεανομίαι). Naturalmente, trattandosi di sacrifizî espiatorî la vittima non veniva mangiata, ma consumata interamente dal fuoco sull'ara (ὁλόκαυτος), donde "olocausto" nel senso di sacrifizio espiatorio.
Il sacrifizio a divinità ctoniche, a eroi o a defunti si faceva la sera: la vittima, castrata o femmina e di colore nero, non veniva né coronata né cospersa di tritello d'orzo; non vi erano libagioni; la testa dell'animale era volta verso terra (καταστρέϕειν), e la sua gola squarciata di taglio (ἐντέμνειν) anziché colpita di punta. Il sangue veniva fatto scorrere entro una fossa preparata che s'immaginava in comunicazione con il mondo sotterraneo.
Le sue carni non venivano gustate, ma riservate per intero agli dei ctonici o ai morti e bruciate su un basso tumulo di terra (ἐσχάρα) che dopo la cerimonia veniva spianato. Neppure nel sacrifizio espiatorio le carni venivano gustate (ϑυσίαι ἄγευστοι); e nel sacrifizio fatto in occasione di alleanza e di giuramento il sangue o i visceri venivano toccati dai presenti a suggello magico-sacro della promessa.
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Roma. - Anche in Roma i sacrifizî (sacrificium, sacrum, res divina) si dividono in due grandi categorie: le offerte incruente (libamina) e i sacrifizî cruenti (hosciae, victimae). Essi sono offerti agli dei superi o inferi e per varie circostanze (ringraziamento, purificazione, espiazione) e si dividono in stata, solemnia quando ricorrono a periodi fissati nel calendario e fortuita quando sono reclamati da qualche sventura o caso dello stato.
Le cose sacrificate. - Le offerte incruente comprendevano materie svariate, farro, miele, vino, latte, primizie del raccolto sia di cereali sia d'uva, focacce di tritello di farro impastate con olio e miele (ferta) e disposte una sull'altra (strues), ricordo di tempi antichissimi e che si ritrova perciò in uso presso corporazioni sacerdotali arcaiche come quella degli arvali, olle ripiene di minestra di farro (pultes). Tutte queste offerte avevano luogo anche nel culto domestico.
Le offerte cruente erano dette promiscuamente hostiae o victimae, con tendenza però a riservare il nome di hostiae agli animali piccoli, porci, capre, pecore (pecudes), dando quello di victimae agli animali più grandi, tori, vacche (armenta). Oltre a questi che erano gli animali ordinarî, v'era in qualche occasione il sacrifizio del cavallo (october equus a Marte), di cani (Robigalia), di pesci (Volcanalia). Oltre che alla specie si guardava anche all'età, dividendo le vittime in lactentes quando avevano un determinato numero di giorni: cinque o dieci i porcellini, sette gli agnelli e trenta i vitelli; maiores o bidentes quando erano adulte e avevano messo la doppia fila di denti. Si distinguevano anche per il sesso e il colore e v'era tutta una disciplina, nelle mani del collegio pontificale, per regolare questa materia.
Esistevano inoltre condizioni speciali per la purità rituale delle vittime, che non dovevano avere difetti fisici (purae): era quindi necessario un esame ufficiale che le dichiarasse scelte (electae), separate (eximiae, egregiae) dal gregge e idonee all'immolazione.
Vittime umane non sono state estranee al sacrifizio romano. Plinio (Nat. Hist., XXV, 12) afferma che il senato (nel 97 a. C.) proibì i sacrifizî umani; Livio e Plutarco attestano rispettivamente che dopo la sconfitta di Canne (XXII, 57) e prima della guerra contro gl'Insubri (Marc., 3) furono sacrificati un Gallo e una Galla, un Greco e una Greca, seppellendoli vivi nel Foro Boario. Il castigo della vestale incestuosa si può considerare come sacrifizio espiatorio e anche nei riti della devotio e della primavera sacra si deve vedere un avanzo di sacrifizio umano. Né va dimenticato il rito di successione nel sacerdozio di Diana Nemorense. Adombramento di sacrifizio umano si trova nella cerimonia degli Argei (14 maggio) in cui 27 fantocci di paglia venivano gettati nel Tevere dal Ponte Sublicio, certo in sostituzione di vittime umane; nelle Compitali si tagliavano capi d'aglio in sostituzione di teste di bambini (Macr., Sat., I, 7) e si appendevano ai sacelli tanti fantocci di lana quanti erano gli uomini liberi della casa.
Le persone. - Nel culto privato il ministro del sacrifizio è il padre di famiglia; nel culto pubblico il sacrificante è un magistrato: console, pretore, generale.
Il sacrificante sta velato capite, cioè con un lembo della toga tirato sul capo, se officia secondo il rito romano; con il capo scoperto e coronato se officia secondo il rito greco. Nell'azione fa passare il lembo della toga, non da sotto il braccio destro sulla spalla sinistra, ma davanti al corpo come una cintura (cinctus Gabinus), forse per avere maggiore libertà di movimento. Assistono il sacrificante: i camilli, giovinetti usciti da matrimonio legittimo, per i servizî minori; i vittimarî, che debbono uccidere la vittima e si dividono in popae, che hanno cura del materiale sacrificale e conducono la vittima all'ara, e cultrarii che accoltellano ritualmente la vittima (i vittimarî hanno il busto nudo e vanno succincti, cioè portano intorno ai fianchi un limus o grembiale); i tibicines che suonano la tibia durante il rito per attutire i rumori profani; i praecones o calatores che intimano il silenzio rituale e vigilano perché non sia interrotto; gli aruspici che esaminano le viscere della vittima a scopo divinatorio.
Gli utensili. - Utensili del sacrifizio sono i vasi per i liquidi delle libazioni (praefericulum, simpulum o simpuvium, guttus) dai quali il liquido viene versato nella patera che lo spande sul fuoco (prefericolo e patera si vedono spessissimo raffigurati ai lati delle are); l'acerra, o cassettina contenente l'incenso; gli arnesi dell'immolazione, cioè il martello rotondo (malleus), le asce (dolabra, securis), i coltelli (culter e secespita) che i cultrarî portano alla cintura chiusi nel fodero; il labrum o vaso per l'acqua lustrale che viene spruzzata con un ramoscello o con apposito strumento; l'anclabris o mensa per deporvi gli utensili e l'olla extaris o marmitta per cuocere i visceri.
I riti. - Quando sacrificante, ministri e popolo si trovano intorno all'ara sacrificale, il banditore comincia con intimare il silenzio con le formule fissate nel rituale: Favete linguis!, parcito linguam! e avverte i profani e gl'impuri di allontanarsi dal luogo.
Posto così l'ambiente in condizione di santità rituale, la vittima inghirlandata e adorna di una gualdrappa (dorsuale) viene "immolata" ossia cosparsa di mola salsa (tritello di farro misto con sale), ciò che la separa dall'uso profano e la consacra rendendola idonea al sacrifizio. Seguono libagioni di vino, latte, miele e l'accensione del fuoco, badando nei limiti del possibile che le legna, ben secche, siano dell'albero sacro al dio cui si sacrifica. Incenso e piante resinose profumano la fiamma. Immediatamente prima dell'immolazione il sacrificante pronunzia ad alta voce, ripetendo parola per parola (verba praeire) la formula di preghiera suggerita dall'esperto del rituale, pontefice o sacerdote, formula che invoca a nome la divinità, enumera le vittime offerte e dichiara ciò che l'offerente si attende in cambio dagli dei. Fatta la preghiera, nel silenzio dell'assemblea mantenuto dal suono della tibia, segue l'uccisione della vittima che frattanto è stata condotta a corda lenta (trascinata a forza sarebbe di malo augurio) dinnanzi all'ara. Il vittimario domanda il permesso di uccidere: Agone? e alla risposta affermativa: Hoc age! uccide (mactat) la vittima con l'ascia se toro, con il culter se animale ovino o suino.
Caduta la vittima se ne raccoglie il sangue che si sparge sull'ara, la si squarta sull'anclabris per estrarne i visceri, cuore, polmoni, fegato, omento, ed esaminarli, specie il fegato (exta consulere). Se l'esame è favorevole il sacrifizio si può dire litatum, cioè efficace per ottenere il suo scopo. Se non è favorevole bisogna sostituire un'altra vittima, detta perciò succidanea.
Le viscere tagliate a pezzi (prosecta) unite ad altre parti della vittima (magmenta) e sparse di vino e olio, vengono offerte sull'ara come porzione degli dei. Il resto rimane con ciò stesso desecrato e viene consumato da coloro che hanno indetto il sacrifizio, magistrati o privati, e dai sacerdoti (epulae sacrificales).
Questo minutissimo rituale esigeva una grande attenzione onde evitare i piacula che lo avrebbero viziato. Anzi i Romani per scontare in antecedenza ogni fallo usavano, prima dei grandi sacrifizî, immolare un'ostia che chiamavano praecidanea "uccisa prima", a fine di espiare le colpe rituali che avrebbero potuto commettere durante lo svolgersi del rito.
Bibl.: v. roma: Roma antica: Religione.