SACRILEGIO
Storia delle religioni. - È la profanazione sia d'un atto del culto, sia d'un oggetto o d'una persona, i quali siano santi per natura o santificati da una consacrazione o dal loro uso religioso. Nelle gerarchie dei peccati, stabilite dalle diverse religioni, è senza dubbio il più grave: poiché, se tutti i peccati sono offese alla divinità, alla cui volontà contravvengono, il sacrilegio offende la divinità più direttamente, la colpisce in ciò che le appartiene in proprio e che in una certa misura partecipa del suo stesso essere; è per eccellenza il peccato contro la religione.
La nozione del sacrilegio si attenua via via che quella del sacro si estende. Se non vi è più posto per essa in una morale indipendente, o in un deismo filosofico, essa tende anche a sparire nelle religioni a carattere spiritualistico assai accentuato. Infatti, a parlare propriamente, non v'è sacrilegio se non in rapporto a qualche cosa di materiale e concreto. Bisogna tuttavia mettere da parte, come forma particolare e, nell'evoluzione dei sistemi religiosi, più tenace di sacrilegio, la bestemmia, profanazione mediante la parola e che può essere espressa anche riguardo a nozioni astratte, a dogmi e a credenze, anzi riguardo alla divinità stessa, mediante lo scherno, l'ingiuria o la negazione.
Nella sua forma rudimentale, il sacrilegio consiste nella violazione di un'interdizione sacra, o tabu. Il sacrilegio tipico è, in questo stadio, quello che offende il totem del gruppo, protetto dalla più imperativa delle interdizioni. E sacrilegio ucciderlo, cibarsene all'infuori dei banchetti rituali di cui è talvolta l'oggetto, e, in modo generale, ogni atto che possa colpirlo o menomarlo. Così, p. es., presso i Negri Masai è sacrilegio far cuocere il latte, perché con ciò s'inaridiscono le mucche del gregge sacro: la legge del gruppo prevede per questo peccato la pena di morte.
Si ha sacrilegio, in molte religioni, quando un individuo estraneo alla comunità assiste a una cerimonia del culto o penetra in un luogo sacro. Nei paesi musulmani di stretta osservanza è vietato agl'infedeli l'accesso alle moschee anche quando non si celebra il culto. La medesima interdizione e, correlativamente, il medesimo peccato, si presentano con la massima chiarezza in tutti i culti iniziatici. Presso i primitivi, vi è sacrilegio allorché una donna sia testimone, anche fortuitamente, di una cerimonia riservata agli uomini, e nel caso inverso; e così pure, nei misteri dell'antichita classica, quando un profano assisteva alle operazioni del culto.
Un'altra forma di sacrilegio consiste, per la maggior parte delle religioni, nello scostarsi dalle forme e dalle formule prescritte per il rito, o nell'utilizzare per il culto elementi impuri (culto del fuoco nel mazdeismo). La più leggiera modificazione del rituale prescritto ha per effetto, non solo di togliere all'atto del culto ogni valore, ma di provocare lo sdegno della divinità offesa. Lo stesso accade allorché essa è invocata con un nome che non le conviene: donde le precauzioni oratorie dei Romani nelle loro preghiere. Allo stesso modo è sacrilegio per la religione romana il fatto di procedere a un atto giuridico o religioso in un giorno nefasto; ed è sacrilegio gravissimo lo spingere una vestale a violare il voto di castità. La maggior parte delle religioni considerano sacrilegio non soltanto i furti o i delitti compiuti nel tempio, ma anche la violazione del diritto d'asilo e quella delle tombe: le iscrizioni funerarie greco-romane contengono spesso minacce terribili contro gli eventuali profanatori. E poiché, secondo le concezioni antiche, un delitto commesso contro gli dei colpisce l'intera città, questa prevede contro il sacrilegio sanzioni terribili. È nota la ripercussione politica ch'ebbe ad Atene il doppio sacrilegio della mutilazione delle erme e della profanazione dei misteri eleusini. Allo stesso modo, in Roma, una colpa contro la persona dell'imperatore, o una mancanza nel culto imperiale, riunisce in un solo sacrilegio il crimen laesae maiestatis e il crimen laesae religionis.
In ragione del suo carattere in certo modo obiettivo, in quanto contamina non solo chi lo commette, ma anche l'oggetto sul quale è commesso, il peccato di sacrilegio dev'essere riparato non solo con una penitenza o con un castigo individuale, ma mediante una purificazione e una riconsacrazione rituale dell'oggetto o del luogo profanato.
Bibl.: E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi 1912; articoli: Crimes and punishment, Sacrilege, Tabu, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Etichs, IV, XI, XII, Edimburgo 1911-21; H. Spelmann, The history of sacrilege, Londra 1896; A. Kohler, Über Gottesraub und Gottesfluch nach heidnischen Anschauungen, in Zeitschr. für katholische Theol., V (1881).
Diritto romano. - Nel latino classico, sacrilegium e sacrilegus, si riferiscono esclusivamente al furto di cose sacre, e precisamente di cose che siano state oggetto di pubblica consacrazione e dal ladro siano trovate in luogo sacro. Quale fosse nel tempo più antico la repressione del misfatto, non risulta abbastanza chiaro: mentre qualche testo accenna alla subsunzione del sacrilegio sotto il concetto del parricidio, con la conseguenza della competenza dei questori, altrove si accenna a un procedimento discrezionale davanti al pontefice massimo: nel primo ordine d'idee, la sanzione sarebbe di morte, salva, quando la decisione finale fu rimessa alle assemblee popolari, la facoltà d'indulgere all'esilio volontario; nel secondo ordine d'idee viene fatto di pensare alla sacertà, cioè all'abbandono del delinquente al braccio di chi voglia tradurre in atto sopra di lui la vendetta degli dei.
La legge Giulia, di Cesare o di-Augusto, che istituì la quaestio perpetua per il peculato, raccolse sotto la stessa sanzione anche il sacrilegio nel senso veduto: la pena è quella dell'esilio, nella forma dell'interdizione dall'acqua e dal fuoco. Commentando la legge, i giuristi precisarono gli elementi oggettivi del reato, soprattutto escludendo ciò che non è dedicato al culto pubblico o non si trova nei luoghi a ciò destinati, ma comprendendovi invece le cose che, quantunque non consacrate, si trovino nei templi per ornamento stabile o per il servizio del culto. Peraltro le fonti attestano, qui come altrove, la concorrenza fra la procedura ordinaria della quaestio e quella straordinaria, ma sempre più assorbente, del principe e dei suoi funzionarî; onde la solita applicazione di pene variabili, graduate secondo le circostanze del caso e la condizione sociale dell'accusato.
Delitti veri e proprî contro la religione non furono mai contemplati dalle leggi romane, né mai simili misfatti furono sottoposti a una vera procedura criminale: ciò non toglie che i pontefici punissero di multa e i censori d'ignominia gli atti ingiuriosi contro i culti dello stato, e che anche i magistrati, come i consoli e i questori, facessero valere in questa materia il loro potere di coercizione. Nell'epoca imperiale, poi, la progressiva identificazione della religione dello stato con il culto dovuto al genio del principe fece sì che gli atteggiamenti contrarî al culto pubblico (in particolare la confessione del cristianesimo) fossero puniti come delitti di lesa maestà. Soltanto nell'impero cristiano i delitti di religione (offese ai templi, ingiurie ai sacerdoti, scritti irreligiosi, ecc.) sono legislativamente definiti e puniti, spesso con pene gravissime; ed è appunto in quest'epoca che tali delitti si trovano qua e là identificati, o per lo meno avvicinati al sacrilegio (cfr., p. es., genus sacrilegii, in Cod. Ist., I, 3, ae episc., 10 pr.).
Bibl.: A. Matthaeus, De criminibus, 4ª ed., Wesel 1679, p. 579 seg.; J. S. F. Böhmer, De variis sacrilegii speciebus ex mente iuris civilis, Halle 1724; Vredenburch, De sacrilegiis, Utrecht 1832; Th. Mommsen, Der Religionsfrevel im römischen Recht (1890), in Jurist. Schriften, III, Berlino 1907, p. 389 seg.; id., Römisches Strafrecht, Lipsia 1903, p. 567 segg.; C. Ferrini, Diritto penale romano, in Enciclopedia del diritto penale diretta da E. Pessina, I, Milano 1905, pagine 343 seg., 413 seg.; I. Pfaff, Sacrilegium, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IA, col. 1678 seg.
Diritto canonico. - Sacrilegio è, nella definizione comune, la violazione di una cosa sacra. Il concetto di cosa sacra, come oggetto del sacrilegio, è latissimo e comprende non solo le cose sacre propriamente dette, ma anche le persone e i luoghi e tutto quanto in genere ha attinenza col culto divino.
Si hanno così tre specie di sacrilegio, che vengono chiamate rispettivamente, in relazione all'obiettivo su cui esso si esercita: reale, personale, locale.
Il sacrilegio reale consiste nella violazione o nella profanazione dei sacramenti, dei vasi sacri, delle reliquie e immagini, delle parole della Sacra Scrittura, degli ornamenti sacri e delle cose in genere che hanno ricevuto una benedizione costitutiva. Costituisce sacrilegio reale anche il furto o la distruzione dei beni facenti parte del patrimonio della Chiesa.
Il sacrilegio personale si ha nella violazione dei privilegi dei chierici (Cod. Iur. Can., can. 119-123); quindi nell'usare violenza materiale inferendo manus violentas contro la loro persona, o nel tradurli dinnanzi ai tribunali civili contro le prescrizioni dei canoni vigenti, nonché nella violazione lussuriosa (luxuriosa violatio) di persona consacrata a Dio con un ordine maggiore (v. can. 949) o con voto di castità. Questa ipotesi di sacrilegio si verifica sia rispetto alla persona propria, sia a quella altrui.
Il sacrilegio locale è costituito dalla profanazione di una chiesa, cappella o cimitero mediante atti repugnanti alla santità del luogo sacro, e in specie mediante quelli che secondo il diritto canonico lo rendono violato, come l'omicidio, ecc. (v. can. 1172). Si novera come sacrilegio locale anche la violazione dello ius asili che compete alle chiese e agli oratorî pubblici (v. can. 1179, 1191).
Il sacrilegio è punibile, secondo il diritto canonico, dall'ordinario pro gravitate culpae (can. 2325), salve le pene stabilite per determinati casi. Così sono specificamente punite le offese all'Eucaristia (can. 2320), le violazioni del privilegium canonis (can. 2343), ecc.
Bibl.: Si vedano in genere le trattazioni di teologia morale, e, fra le posteriori al codice, E. Génicot, Institutiones theologiae moralis, 8ª ed., a cura di I. Salsmans, I, Bruxelles 1919, p. 226 segg.; Cl. Marc. e Fr. X. Gestermann, Institut. mor. alphonsianae, 18ª ed. a cura di I. B. Raus, I, Parigi 1927, p. 369 segg.; L. Wouters, Manuale theologiae moralis, I, Bruges 1932, p. 423 segg.