SAFFO (Σαπϕώ o Ψαπϕώ, Sappho)
Figlia di Scamandronimo e di Cleide. Nacque in Ereso, o a Mitilene, dove certo visse, nell'isola di Lesbo. Quando, con esattezza non si sa: il suo fiorire posero gli antichi intorno al 600; dunque, tra la seconda metà del sec. VII a. C. e la prima del VI. Piccola e bruna, di famiglia nobile, se il fratello Larico fu coppiere nel pritaneo di Mitilene; e di origine probabilmente troiana. A codesta sua nobiltà deve riconnettersi l'esilio in Sicilia, di cui non pare lecito dubitare; o perché gli aristocratici furono cacciati da Lesbo, o perché costretti ad allontanarsi; ma che S. abbia partecipato direttamente a moti politici si deve escludere: il suo temperamento lo nega, nessuno dei frammenti lo attesta. Altri due fratelli furono Carasso, il più anziano, che esercitò commercio di vini con l'Egitto, ed ebbe a Naucrati un'avventura con certa Dorica, una etera tracia assai lussuosa e dispendiosa (cfr. il fr. 25 Diehl); ed Eurigio. Che abbia avuto un marito, Cercila, di Andro, dice Suida; certo una figlia, Cleide, dello stesso nome della madre (cfr. 109,152 D). Gli amori con Faone, e il salto dalla rupe di Leucade, sono antiche leggende che ebbero assai larga letteratura fino dal sec. V e IV a. C. nella commedia ateniese. Di amori maschili non sono nei suoi versi tracce sicure; di amori e pervertimenti femminili, dopo tante malignità e insulsaggini antiche e moderne, ormai non mette più conto parlare. In Mitilene ella era a capo di un ϑίασος, non propriamente una scuola, ma una compagnia di giovinette, le quali venivano a lei anche da altre città, o dell'Asia o di isole vicine, perché le istruisse nel canto, nella danza, nella poesia, e nella grazia stessa e nel decoro del vivere civile. Di alcune conosciamo i nomi: Attide, Anattoria, Gongila, Dica, Girinno, Arignota. Conosciamo anche il nome di sue rivali, che avevano come lei, intorno a sé, una compagnia di giovinette: Gorgo e Andromeda. Talora avvenivano passaggi e abbandoni da un tiaso all'altro, e ritorni; e quindi rimpianti, bisticci, effusioni amorose. Tutta la vita di S. fu in questa sua "casa delle Muse", com'ella disse (109 D), in questa sua compagnia di fanciulle. Che nei rapporti fra loro ce ne fosse alcuno cui potrebbero i costumi nostri giudicare e condannare peccaminoso, dai frammenti non si deduce; anzi, se qualche cosa di più anche sapessimo, questo qualche cosa nemmeno sapremmo valutarlo, e il giudizio nostro sarebbe necessariamente incerto, difettoso e iniquo. D'altra parte, la venerazione che di S. ebbero i Mitilenei, i quali incisero su monete la sua figura; lo stesso accorrere a lei di tante fanciulle di famiglie nobili e ricche; soprattutto, l'accento di nobiltà e di castità di tutta la sua poesia male si accorderebbero con la fama di una vita dissoluta e corrotta. La quale deriva, o almeno si usa ragionevolmente derivare anche questa, da immaginazioni e fantasticherie, maliziose e ironiche, della commedia attica; e il diverso costume della donna di Atene poté facilmente dare motivi d'interpretare con scandalo e con biasimo giudicare la più libera vita della donna di Lesbo. Questo rimane, di certo, tra Saffo e le sue amiche e scolare: una tenerezza viva e aperta di affetti; e con espressioni di amore tanto più accese ed esaltate quanto meno sospette d'impurità. Niente altro. La poesia di Saffo fiorisce quasi tutta su questa trama.
Di S., fino a pochi decennî fa, avevamo soltanto quello che ci era stato trasmesso da tradizione indiretta, citazioni di retori e di grammatici: 170 frammenti nell'edizione Bergk; moltissimi di una parola sola o di poche, di un solo verso o di pochi; intera una sola poesia, la preghiera ad Afrodite; quasi intera la saffica famosissima parzialmente tradotta da Catullo e dal Foscolo. Oggi, da scoperte papiracee, abbiamo assai più. Scoperta più singolare, del 1914, tutto il rotolo del primo libro, mutilo e guasto e in più punti illeggibile, ma quattro o cinque poesie, pur con incertezze e lacune, si sono potute recuperare; e alla fine del rotolo, cioè alla fine dell'ultima poesia, è un'indicazione sticometrica preziosissima, la quale ci informa che codesto primo libro era di 1320 versi, cioè di 330 strofe, all'ingrosso quindi, oscillando ogni poesia da 7 a 10 strofe, una quarantina di poesie. Se immaginiamo lo stesso degli altri libri, un 12.000 versi in tutto. I papiri derivano da copie, senza dubbio, di un'edizione alessandrina, dove i μέλη erano divisi in 9 libri: dei quali otto secondo ragione metrica (p. es., il primo di strofe saffiche; il secondo di pentametri eolico-dattilici, ecc.), e uno, o il nono o un altro, era tutto di epitalamî. Nel sec. VII d. C. la raccolta ci doveva essere ancora, se un gruppo di poesie del V libro è stato ritrovato appunto su pergamene del sec. VII; e la perdita dovette avvenire, anche per S., prima della trascrizione in minuscola, intorno al sec. IX. Oggi, dell'opera di S. ci restano, più o meno intere, nove o dieci poesie; in tutto, più o meno lacunosi e leggibili, un mezzo migliaio di versi: poco per il nostro desiderio; abbastanza, per avere di questa poesia un'immagine sicura.
La poesia di S. non è affatto poesia di dolore e di disperazione, come sempre si è ritenuto, e come antiche leggende e fallaci interpretazioni e figurazioni moderne, tra cui, celeberrima, L'ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, sembrano suggerire e sostenere; e né poesia di amore, almeno nel senso che a questa parola si è usi dare. A leggere questi frammenti, la prima impressione è di un abbandono gioioso alle cose belle con la fresca commozione di chi le scopre a sé medesimo ogni giorno e ogni ora la prima volta, e vuole possederle e goderle, e farle con l'immaginazione più belle. C'è in S. un'anima quasi mattutina e primaverile. Cose belle per S. sono spettacoli placidi di natura, mari tranquilli, cieli sereni, notti stellate, acque correnti, fiori e colori, volti soavi di fanciulle, candide vesti, profumi, oggetti di eleganza e di lusso. Non può essere caso che, tra i frammenti più brevi, ci sono alcune parole rare, citate da grammatici e lessicografi perché rare, le quali indicano appunto di questi oggetti: una tunica fine e trasparente (155 B), uno speciale legno scitico onde si tingevano in biondo lane e capelli (167 B), una teca per unguenti e altre raffinatezze femminili (156 B). Di un frustolo di papiro berlinese le scarse e monche parole che appena s'intravedono sono queste: pepli di porpora, vesti di croco, manti persiani, corone di fiori (95 D). E ancora: calzaretti di pelle variegata che venivano a Lesbo dalla Lidia (17 D); cuscini morbidi (42 D) e morbidi letti (96 D); soffici coltri di lana spessa e densa (82 D); e veli per il capo che hanno bagliori di luce (99 D); e mantelli intessuti e trapunti a fili e disegni di ogni colore (42 D); e piccole fiale snelle dai piedi d'oro (170 B). E oro dovunque. C'è anche in Pindaro questa profluvie di oro; ma il tono è diverso: prevalgono in Pindaro ricchezza e fasto, eleganza e grazia in S. Dice di sé ella medesima: "Io amo la mollezza e l'eleganza" (65 D). L'Epitalamio di Ettore e di Andromaca è scoperta recente, del 1914. Ed è frammento di lunghezza considerevole, più di trenta versi che le letture del Lobel hanno restaurati in massima parte. Si pensi all'argomento, di tradizione epica già stabilita; e a quei due nomi, e alla pietà di amore e di dolore che con codesti due nomi è congiunta. Niente di tutto questo in S.; ma solo il lusso e la festa, l'eleganza e la grazia di nozze principesche. Viene un messo ad annunziare l'arrivo del corteggio nuziale. Su navi e navi, da Tebe Ipoplacia, Ettore e i compagni menano e scortano la molle Andromaca dagli occhi lucenti; e molte recano armille di oro, e vesti di porpora a fiorami stupendi, e ornamenti e gioielli splendidi di vario colore, e vasi d'argento innumerevoli, e oggetti di avorio preziosi. Balza in piedi all'annuncio il vecchio re Priamo; muovono incontro al corteggio, su carri adorni, il popolo di Ilio, e donne e vergini di belle caviglie; per le vie di Ilio risuonano flauti di dolce voce e cetre, e strepono crotali, e canti soavi di vergini salgono fino al cielo; e dovunque si veggono crateri e fiale; e dovunque ardono e odorano profumi di mirra, di casia, di olibano, ecc. (55 D). Poesia tipica. Con questo cuore, con questi occhi, con questa sensibilità alacre, si capisce perché solamente spettacoli di natura serena diano a S. motivi e temi di canto. A cieli foschi, a tempeste di mare, a rigori di clima, ad alberi che si spogliano di loro fronde - che sono motivi così comuni di altri poeti e massime di Alceo suo conterraneo e coetaneo - ella ha gli occhi e l'animo come chiusi: solo nella contemplazione e ammirazione di cose gaie e belle è il suo centro sentimentale, in una beatitudine facile e obliosa è il suo tono dominante. Né lei tocca pensiero di morte: perché la morte è male, disse una volta (137 B); e un'altra volta, parlando alla figlia, "Nella casa delle Muse", disse, "non è lecito il pianto" (109 D). Perfino il mondo di là, sopravvenendole un giorno desiderio di morte e malinconia, le si colora di bellezza, e le stesse rive di Acheronte ella immagina vestite di fiori di loto freschi di rugiada (97 D). Grazie, giardini di ninfe, imenei, amori, primavere, alcioni, ecco la poesia di S. Così disse un antico, il retore Demetrio, che di S. leggeva tutto; il medesimo possiamo dire noi, dai frammenti antichi e dai nuovi. Un giardino e una fonte, in un'ora meridiana: "E intorno, l'acqua, cadendo fresca dall'alto, mormora tra rami di melo, e giù dalle agitate fronde scende sopore" (5 D). Un'ora notturna, di silenzio e di solitudine: "Tramontata è la luna; tramontate le Pleiadi; è mezzanotte; l'ora passa; e io sono qui, sola" (94 D). E placidi cieli stellati, e incanto di cieli lunari, e luci e chiarori, sul mare e sulla campagna, di sole appena caduto e di luna nascente. "Le stelle, intorno alla bella luna, ecco nascondono il loro lucido aspetto, quando piena, al suo colmo, argentea, splende su tutta la terra" (3 D). Sono versi famosissimi: che non hanno eguale forse, in tutta la poesia, se non la terzina dantesca altrettanto famosa "Come nei plenilunii sereni". Certo una comparazione, di fanciulla più bella tra fanciulle belle. Un'altra comparazione, poco diversa da questa, e della stessa dolcezza, è in un canto recuperato da pochi anni: "E ora, tra le donne di Lidia, di beltà brilla, come quando, caduto il sole splende la luna dalle dita di rosa, tutte le stelle vincendo; e la sua luce posa sul salso mare e sopra le campagne fiorite; e la fresca rugiada discende, e si aprono le rose e i teneri timi e il meliloto in fiore" (98 D). La serenità lunare è goduta, quasi respirata come un aroma. Tutta la natura per s. è solamente spettacolo di beltà e di letizia; della terra ella non vede che le cose inutili e belle; non conosce e non cura le fatiche degli uomini, né i frutti di codeste fatiche; né aratura né seminagione, né grano né vite, né bestie da lavoro né greggi da fecondità e da ricchezza: uccelli leggieri che volano e cantano, usignoli, rondini, passeri, cicale, la colombella che si spaura e stringe le ali e si acquatta (13 D); ed erbe e fiori, aneti e viole, cerfogli e trifogli, crochi e giacinti, e apio e timo e basilico e salvia, e rose soprattutto. "È tutta incoronata di fiori la terra, di fiori di ogni colore" (156 D). E ha un senso lieto e luminoso del colore, del colore, per così dire, più sonoro, rosso, bianco, giallo: "Ceci di oro crescevano sopra le spiagge del mare" (118 D). Anche del mondo mitico ella sceglie e ama solamente miti e motivi di grazia e di bellezza: Elena ed Ermione (35 D), e le pure Cariti, e le Muse dalle belle chiome, e Afrodite e Poto e Peito, le divinità dell'amore e delle nozze, ed Eros, che discende dal cielo avvolto in una clamide di porpora (56 D), ed Eos dai sandali d'oro (15 D), e Vespero, la più risplendente di tutte le stelle (133 D). Soprattutto, tocchi di finezza leggiera dipingono volti e figure e atti di fanciulle; ricorda di Anattoria assente l'amabile passo e lo splendore radioso del volto (27 D), e di Ero il correre agile (62 D); descrive una fanciulla che corre a lei come figlia alla madre battendo le ali (51 D), e un'altra, illuminata di aria, che va per un prato cogliendo fiori (111 D). Cogliere fiori ed erbe, intrecciare corone, cingerne il capo e il collo, pare che niente altro facciano queste fanciulle di S. (96 D); solo a fanciulle coronate di fiori, ella dice, volgono occhio benevolo le Cariti beate (80 D); e di ciò solo punge desiderio e rammarico il dì che sono partite e lontane (96 D). In questa atmosfera limpida non è modo a passioni che conturbino e offuschino; né a ire e gelosie che superino la misura di un'ironia, più che amara, giocosa. Anche il lagno, per S., e il ripicco contro una rivale, meglio si aguzzano e si esprimono in una beffa di grossolanità e d'ineleganza. Ad Attide, di Andromeda: "Come può molcerti il cuore quella donna rozza e goffa che nemmeno sa rialzare la veste su le caviglie?" (61 D). E di un'altra, Mica, che le ha portato via Pentilea, dice che è di brutti modi, di cattivo gusto (70 D). Sempre la medesima, S., anche nell'ironia, che del resto in lei è scarsa. Ella è senza malizia e senza ira (108 D); e della sua larga bontà, della sua facilità a perdonare e a compatire, documento singolarissimo è l'ode per il fratello Carasso (25 D). Dunque, né ironia amara e nemmeno comicità in questa poesia che sembra non voglia, né possa uscire da una sua linea di correttezza urbana e garbata. E se una volta si abbandona a un motivo burlesco nella descrizione di un portinaio (124 D), si badi che codesta descrizione è in un epitalamio; e negli epitalamî, che S. dovette comporre e musicare più volte per incarico, certi spunti comici e spesso anche salaci erano cercati e abituali. Proprio per questo, quel che ci rimane degli epitalamî è indice osservabilissimo del tono poetico di S. Oscenità, in S., non ci sono. Immagini di ġrazia anche qui, e dovunque: comparazioni di erbe, di ramoscelli, di frutta, di fiori. Di uno sposo: "A che, dolce sposo, ti posso paragonare? A ramoscello snello ti posso paragonare" (127 D). Di una sposa: "Di grazia il tuo aspetto, di miele i tuoi occhi, spande amore il tuo volto soave" (128 D). E il sentimento della verginità è raffigurato in immagini e parole che nessun poeta ebbe mai più velate e più caste: "Verginità, verginità, perché mi lasci, dove vai? - Non più verrò da te, non più verrò" (131 D); "Come la mela soave rosseggia in alto sul ramo; alta sul ramo più alto; se ne scordarono i coglitori; no, non se ne scordarono, ma non la poterono giungere" (116 D); "Come sui monti un fior di giacinto; lo pestano coi piedi i pastori; e a terra il fiore purpureo giace" (117 D).
Delle poesie di S. meglio conservate e compiute le più sono lamenti per fanciulle che l'hanno lasciata: così il canto ad Attide, per la comune amica Arignota (?) andata sposa in Lidia (98 D); così altro canto, la poesia-ricordo, lo mnema stesso di S. per la stessa fanciulla o per altra, anche lei andata sposa (96 D). Per noi l'amore sentimentale è tutt'uno, di solito con l'altro; presso gli antichi non sempre; anzi, più spesso, tra persone di sesso uguale, uomini e donne. Comunque, malinconia serena, bontà, cordialità e consolazione al ricordo di dolcezze godute e di giuochi innocenti fra corone di fiori, ozî, natura placida, squisitezze eleganti. Più di questo non c'è. Passione, dolore, ansia, disperazione, sono fuori al tutto da questo tono. L'ode seconda del primo libro (2 D), la più famosa delle poesie di S., non è espressione di dolore, e nemmeno, di gelosia: bensì contemplazione e ammirazione della persona amata, in un impeto che pare struggimento d'amore, ed è anche; ma è anche, soprattutto, compiacenza di codesto struggimento, e gioia e fervore ed esaltazione di codesto struggimento medesimo. Né devono stupire e traviare espressioni vigorose e crude; l'ἐπτόαισεν, per es., "mi dà sbigottimento e tremore", è anche in altro frammento a proposito della candida veste di Gongila (36 D). Poesia di dolore diventa nella traduzione di Catullo. La preghiera ad Afrodite (i D) è l'unica poesia che ci sia rimasta intera sicuramente. Una fanciulla ha abbandonato S.: non perché andata a nozze, ma per capriccio o puntiglio, o per le lusinghe di un'altra donna; e S. prega che ritorni a lei, e invoca l'aiuto di Afrodite. La poesia è tutta intessuta di una trama di sentimenti miti e di figurazioni delicate; è illuminata, si potrebbe dire colorata, dal sorriso di Afrodite. Lo stesso volo dei passeri snelli toglie gravità e solennità all'apparizione della dea, le dà familiarità e confidenza, e gentilezza di affetto, e leggerezza e grazia. Poesia perfetta; e dei modi e dell'arte di S. perfetta espressione. Fervore di sangue che si dilata in respiri profondi; contemplazione, desiderio e possesso di cose belle, da una notte stellata a una veste candida; gioia e pienezza di vita che si discioglie in canto: questa è la poesia di S.
Cosa miracolosa, disse Strabone. Poesia purissima, se altra mai. Parole immacolate. I nessi logici sono ridotti al minimo; assottigliati fino a scomparire; cose trasferite nelle parole; e parole essenziali, imbevute di colore, aerate di canto.
Ediz.: Th. Bergk, Poetae lyrici Graeci, III, Lipsia 1882; A. Diehl, Anthologia lyrica, I, ivi 1923; J. M. Edmonds, Lyra Graeca, I, Londra 1922; E. Lobel, Sappho, Oxford 1925; C. R. Haines, Sappho, 1926; B. Lavagnini, Nuova antol. dei framm. della lir. gr., Torino 1932. Traduzioni italiane, col testo greco: L. A. Michelangeli, Frammenti della Melica greca, I, Bologna 1889; M. L. Giartosio De Courten, Saffo, ecc., Milano 1921; senza testo: G. Fraccaroli, I lirici greci, Torino 1913; E. Romagnoli, I poeti lirici, II, Bologna 1932.
Bibl.: W. Aly, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I A, col. 2357 segg.; Schmid-Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I, 1929; U. Wilamowitz-Möllendorff, Sappho und Simonides, Berlino 1913; M. Meunier, Sappho, ecc., Parigi 1932. - Sulla lingua e lo stile di S., sui rapporti con l'eolico volgare e con la tradizione culta epico-omerica-esiodea, e sulle differenze da Alceo, oltre Wilamowitz, op. cit., e Aly, op. cit., cfr. E. Lobel, Alceo, Oxford 1927; Sappho cit., nelle prefazioni. - Sulla fortuna di Saffo, oltre le pagine dello Schmid-Stählin, op. cit., e del Perrotta (v. oltre), J. M. Robinson, Sappho and her influence, New York 1924; Rüdiger, Sappho, Ihr Ruf und Ruhm bei der Nachwelt; e si rammenti anche il Solon, nei Poemi conviviali di Giovanni Pascoli. - Sul mito di Faone e il salto dalla rupe di Leucade: D. Comparetti, Su l'autenticità dell'epistola ovidiana di S. a Faone, 1876; id., S. e Faone dinnanzi alla critica storica, in Nuova Antol., febbraio 1876; J. Hubaux, Le plongeon rituel, in Musée Belge, XXVII (1923); J. Carcopino, La basilique pythagoricienne de la porte Majeure, Parigi 1927. - Sul tiaso e la questione morale, oltre scritti già citati, G. F. Welcker, Kleine Schriften, II, p. 80 segg. - Sulla storia del testo, oltre Aly, op. cit., U. Wilamowitz, Die Textgeschichte der griech. Lyriker, Berlino 1900. - Sulla poesia di S.: M. Valgimigli, S., in riv. Padova, agosto 1933; G. Perrotta, S. e Pindaro, Bari 1935.