Saikaku ichidai onna
(Giappone 1952, Vita di O-Haru, donna galante, bianco e nero, 148m); regia: Mizoguchi Kenji; produzione: Kōi Hideo per Shin-Tōhō; soggetto: dal romanzo Koshoku ichidai onna (Vita di una donna innamorata) di Saikaku Ihara; sceneggiatura: Yoda Yoshikata, Mizoguchi Kenji; fotografia: Hirano Yoshimi, Kono Yoshimi; scenografia: Mizutani Hiroshi; montaggio: Goto Toshio; musica: Saitō Ichirō.
Giappone, 17° secolo. Una prostituta piuttosto avanti con gli anni, O-Haru, ricorda la sua triste esistenza. Damigella presso la corte di un ricco signore, è cacciata via a seguito del suo illecito amore per un giovane samurai. Condannata all'esilio insieme alla famiglia, è venduta dal padre al potente Matsudaira, con il compito di dargli un figlio. Quando ciò accade, la donna è rispedita ai genitori, senza che le sia concesso di poter più rivedere la sua creatura. Il padre, allora, la manda in una casa di geisha, dove i suoi modi eleganti e aristocratici non sono tuttavia apprezzati, e O-Haru si ritrova ancora una volta alla mercé del genitore. A servizio, adesso, in una casa di mercanti, la donna è sedotta dal padrone e, in conseguenza di ciò, viene licenziata dalla moglie di questi. Data in sposa a un semplice ma onesto venditore di ventagli, si ritrova presto sola a causa della morte dell'uomo. O-Haru non ha che un desiderio: rivedere il figlio, ormai cresciuto. Accolta in un convento di monache, ne viene allontanata a causa di un ennesimo equivoco. Fugge quindi con un uomo innamorato di lei, ma questi viene arrestato per furto. Divenuta una prostituta, O-Haru ha, per un'unica volta, la possibilità di vedere da lontano la sua creatura. Nelle vesti di una monaca mendicante non le rimane alla fine che chiedere la carità casa per casa.
Saikaku ichidai onna apre, di fatto, l'ultima stagione del cinema di Mizoguchi Kenji, quella contrassegnata dal confronto con alcuni grandi classici della letteratura giapponese e, soprattutto, dal successo che la sua opera ottiene, finalmente, anche in Occidente. Del romanzo di Saikaku, Mizoguchi trattiene l'intreccio, ma ne modifica notevolmente le caratteristiche dell'eroina facendone, soprattutto, la vittima designata di una società rigidamente patriarcale. La storia di O-Haru diviene, nella mani del regista, quella di una donna cui viene impedito di amare (il giovane samurai, il figlio, il marito), e la cui bellezza ne fa un oggetto di mero scambio. Ridotta al ruolo di merce, O-Haru è sistematicamente costretta a fare spettacolo del suo corpo: sia quando questo è ancora pieno di fascino, come avviene per gli occhi del potente Matsudaira, sia quando, invece, è assurto a simbolo della decadenza e dei guasti prodotti dai piaceri della carne, come accade dinnanzi ai pellegrini che la pagano per averne testimonianza.
Più che in altri film successivi, Mizoguchi ripropone qui le soluzioni di stile che avevano caratterizzato le sue opere: immagini distanziate, angolazioni dall'alto, ampi movimenti di macchina, piani-sequenza e long takes. Spesso le sequenze del film costruite sul tema della separazione (dal giovane samurai amato, dal figlio e, nel finale, dalla stessa femminilità) sono chiuse da inquadrature in campo lungo, a evocare così visivamente la distanza fra quel che la donna vorrebbe avere e quel poco o niente, quel vuoto che invece le rimane. Le immagini dall'alto, a loro volta, tendono a enfatizzare la condizione di oppressione che O-Haru vive in ogni stadio della sua personale via crucis: una condizione che il regista affida spesso ai gesti, ai movimenti, alle pose del corpo dell'attrice, piuttosto che all'uso di piani ravvicinati del suo volto. La chiusa di molte scene di particolare intensità drammatica ‒ come quelle del tentato suicidio di O-Haru dopo aver ricevuto la notizia della morte del suo amato, dell'arresto dell'uomo con cui ha abbandonato il convento e si è data alla fuga, del vano tentativo di unirsi per un'ultima volta al figlio ‒ è contrassegnata da movimenti di macchina che conducono a un'espressiva dialettica di stasi e movimento, ripresa probabilmente dal teatro tradizionale nipponico. Tra i tanti long takes del film, infine, si potrebbe citare quello in cui la monaca sorprende O-Haru mentre si toglie con rabbia le vesti davanti a un mercante che ingiustamente la accusava di averle rubate: lo scontro fra le due donne, l'irreparabilità dell'equivoco e l'impossibilità di una riconciliazione sono iconicamente tradotti da Mizoguchi attraverso spostamenti dei personaggi e della macchina da presa che danno vita a una serie di quadri nei quali le due figure si contrappongono su tutti i piani possibili (alto/basso, destra/sinistra, avampiano/ sfondo, in piedi/a terra, di fronte/di profilo/di spalle), in un esempio di grande intensità di quel montaggio interno all'inquadratura che è uno dei marchi stilistici della modernità del regista. Il film ha vinto il Premio Internazionale alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia del 1952.
Interpreti e personaggi: Tanaka Kinuyo (O-Haru), Sugai Ichirō (Shinzaemon, il padre), Matsuura Tsukue (Tomo, la madre), Mifune Toshirō (Katsunosuke), Shimizu Masao (Kikuoji), Shindō Eitarō (Sasaya Kahei), Sawamura Matsudako (Ōsawa Kahei), Konoe Toshiaki (Matsudaira Harukata).
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Sceneggiatura: Saikaku ichidai onna, a cura di H. Färber, München 1986.