Sala cinematografica
Comunque la si voglia considerare e qualsiasi forma e dimensione abbia avuto ‒ baraccone ambulante, nickelodeon, o palazzo da 6214 posti, come il Roxy di New York ‒ la s. c. è stata nel Novecento la cattedrale del desiderio per miliardi di persone, il luogo di celebrazione di un'infinita serie di riti di tipo mondano e laico, emotivo, erotico, conoscitivo, ideologico. Muovendo in senso antiorario la macchina del tempo e guardando alle prime esperienze nei baracconi ambulanti e nelle sale cittadine ricavate da locali con precedenti destinazioni d'uso, si può constatare come la memoria della sala si trasmetta con una forza non inferiore a quella dei film. Molti dei racconti sulla 'prima volta' hanno la caratteristica comune dell'accostamento a una sorta di fonte battesimale e della nascita a nuova vita. La sala vive nella memoria meno per le immagini che si animano sullo schermo che per la vita che pulsa al suo interno, per le emozioni e le tensioni che avvincono e lacerano spettatori di ogni età, sesso e classe sociale. Se si risale alle primissime proiezioni, in Francia, Italia e un po' ovunque nel mondo, il racconto dei testimoni restituisce lo stesso senso di perdita dei confini dell'io individuale e di naturale fusione in un io collettivo. E ovunque la luce che si accende nel buio trasmette il senso di apertura e conquista di un mondo nuovo più vero del vero, proponendosi anche come chiave di accesso privilegiata al futuro e alla modernità. Il poeta Andrea Zanzotto, pensando alla Città delle donne (1980) di Federico Fellini, immagina la nascita e diffusione delle sale addirittura come una cosmogonia: "La caverna donna-sogno si è esalata in una cometa che, sfasciandosi, è ripiovuta sul vasto mondo. Ne sono nate le mille sale... come piccoli igloo tremolanti e fibrillanti di sogni.... dove si celebra il rito della femminile seduttività del cinema" (Ipotesi intorno alla città delle donne, in F. Fellini, La città delle donne, 1980, p. 26).
In origine vi è il Salon indien del Grand Café, al Boulevard des Capucines a Parigi. Lì Auguste e Louis Lumière invitarono, il 28 dicembre 1895, a uno spettacolo dal titolo Le cinématographe Lumière. Il luogo ben conosciuto, a due passi dall'Opéra, godeva di una cattiva fama, frequentato com'era da giocatori di biliardo di professione. Scendendo la scala si accedeva a una saletta ben illuminata, da cui erano stati tolti i biliardi e al cui ingresso era stata posta una cabina di fortuna con un baldacchino di velluto e un foro al centro. Il pubblico della prima proiezione era composto da trentatré spettatori paganti. A un certo punto la sala piombò nel buio. Si ebbe quasi la sensazione di assistere a un'eclissi totale di sole. Per qualche frazione di secondo, mentre il raggio di luce usciva dal baldacchino e andava a colpire lo schermo rimbalzando e illuminando i volti degli spettatori, tutti sembrarono galvanizzati dalla luce. Poi le immagini cominciarono a prendere forma e alcune figure avanzarono verso lo spettatore. Erano gli operai della fabbrica Lumière di Lione che uscivano alla fine di una giornata di lavoro. Ogni figura si poteva ammirare nella giusta prospettiva e la fotografia non si lasciava sfuggire nulla. Anche nei quadri successivi si vedeva il cielo con le nuvole in movimento, come le foglie degli alberi: tutto era percorso da una vita propria. Nell'arco di una ventina di minuti il primo gruppo di spettatori aveva avuto la sensazione di perdita della nozione dello spazio e del tempo.
"Nel corso del 1896 il Cinématographe conquista rapidamente la Francia e l'Europa: la saletta parigina del Grand Café continuerà a funzionare fino al 1901, ma già dal 1896 è affiancata da una seconda. A Lione le prime proiezioni avvengono il 25 gennaio 1896 al Teatro Empire; in febbraio il Cinématographe arriva poi a Bordeaux e a Nizza e il 16 marzo a Marsiglia. Il 20 febbraio 1896 Trewey inaugura le dimostrazioni a Londra e il 29 febbraio il Cinématographe approda a Bruxelles. In Italia dal 12 marzo un cinematografo Lumière comincia le proiezioni di film a Roma (al n. 17 di via del Mortaro […]), dal 29 marzo avvengono proiezioni a Milano (in un circolo fotografico, a cura di Filippi e Calcina), dal 30 marzo al Salone Margherita di Napoli, dal 30 maggio alla sala Sivori di Genova, dal 9 luglio al teatro Minerva di Venezia, dal 27 agosto al Teatro Brunetti di Bologna" (Bernardini 2001, p. 12).
Nei primi mesi di vita il cinematografo fu uno spettacolo apolide, che chiedeva ospitalità ai più diversi spazi pubblici e privati in maniera umile, presentandosi in punta dei piedi e mettendosi ordinatamente in coda rispetto ad altre forme di spettacolo che lo precedevano per esperienza e anzianità. Nel giro di poco tempo i possessori degli apparecchi Lumière si resero conto che la rete di luoghi che potevano temporaneamente ospitare il nuovo tipo di spettacolo era troppo limitata per offrire vere prospettive di crescita. I più coraggiosi decisero così di inserirsi in quell'enorme flusso di spettacoli ambulanti che da secoli si muovevano per l'Europa conquistando con le loro meraviglie i pubblici popolari in occasione di feste e fiere.
L'avvento del cinematografo fece sparire, in breve tempo, una quantità di spettacoli ottici ‒ lanterne magiche, panorami, diorami ‒ che avevano alimentato l'immaginazione europea e favorito la circolazione di una lingua visiva e di un vero e proprio mercato comune delle immagini negli ultimi due secoli. Per almeno un quindicennio (dal 1896 al 1910), il cinema sfruttò i meccanismi di circolazione, le tecniche pubblicitarie, i luoghi, le ricorrenze, gli itinerari, di tutte le forme di spettacolo anteriore, puntando a una perfetta assimilazione con essi, senza però tralasciare di mettere in luce la propria specificità. I baracconi di ambulanti che giravano per l'Europa ‒ e di cui, grazie a una serie di ricerche di microstoria (culminate in due lavori di Bernardini, 1999 e 2001), si cominciano a conoscere con discreta precisione nomi, caratteristiche, economia, percorsi ‒ ripercorrevano le stesse piazze dei venditori di stampe, dei lanternisti e degli impresari di spettacoli ottici dell'Ottocento e contribuirono a formare di nuovo un tessuto di emozioni condivise, di aspettative e desideri comuni, di riti collettivi che diventarono sempre più necessari nella vita di milioni di persone. Fu proprio questa gigantesca tela, che nel giro di pochi anni coprì tutti i continenti, a moltiplicare in maniera malthusiana il numero di fedeli e a formare la trama e l'ordito su cui, dalla fine del nuovo decennio, si fissarono le miriadi di punti luminosi delle nuove sale cinematografiche. La storia dei proprietari dei baracconi ambulanti presenta caratteristiche simili per la Spagna o la Francia, i Paesi Bassi o la vasta area dell'Impero austro-ungarico. Comuni a tutti furono le restrizioni e i vincoli posti dalle autorità, i modi e le tecniche di richiamo, le reazioni emotive dei pubblici o delle istituzioni pubbliche, delle autorità scolastiche e religiose. Eppure, se ci si sofferma a indagare anche solo una microstoria individuale, non può non colpire il coraggio quasi eroico con cui questi piccoli impresari ‒ che si chiamassero Almerico Roatto o Costantino Daneo, Napoléon Rancy o José Fessi Fernandez (che portò nel Nord della Spagna il suo Lentielectroplasticromomicoliserpentograph) ‒ sfidarono la morale corrente e le leggi per portare un nuovo verbo laico a masse enormi di catecumeni.
I baracconi di questi impresari alla vista erano molto simili ovunque: per gli organi Marenghi, Gavioli o Limonaire e per il numero di cariatidi lignee che riproponevano al desiderio popolare i corpi di prosperose fanciulle, per lo più nude dalla cintola in su, che richiamavano le stesse forme e le stesse bellezze che sempre più invadevano le città attraverso i manifesti. Ma anche per i richiami degli imbonitori, le scritte multicolori, l'illuminazione alimentata da motori a vapore e a gas. Alcuni di questi baracconi, il Kinesiorama, con 1500 posti a sedere, o il cinema Kétorza con i suoi mille posti, richiedevano per il trasferimento oltre dieci vagoni ferroviari. Di molti di questi baracconi ‒ grazie alle più recenti ricerche d'archivio ‒ si conoscono i volti degli impresari e dei dipendenti, o quelli dei gruppi di potenziali spettatori ammassati davanti al baraccone. Le fotografie conservate consentono di stabilire i primi censimenti per tipologie sociali e un rapporto ravvicinato con migliaia di anonimi catecumeni pronti a ricevere il battesimo cinematografico, a varcare senza paura la soglia del Chipperfield Cinematographic Show, del Cosmograph Faraud, del Chromograph-Electric-Theatre o del Cinematografo Marconi.
Dopo il 1910 al declino del cinema ambulante corrispose la proliferazione di sale stabili nel cuore delle grandi città e nei centri più piccoli dove, in mancanza di teatri, il cinema assunse presto la leadership del divertimento popolare.
Mentre l'epopea del cinema ambulante in Europa volgeva alla fine, negli Stati Uniti si diffuse con la velocità di un'epidemia il fenomeno dei nickelodeon, le piccole sale urbane per pubblici popolari che presero il nome dal costo unitario del biglietto. In queste sale il cinema compì la definitiva metamorfosi da strumento di curiosità scientifica e divertimento, simile a molte altre meraviglie ottiche e scientifiche esibite nelle fiere e nei parchi dei divertimenti, a mezzo di comunicazione di massa capace di far nascere una vera e propria industria dello spettacolo del tutto nuova.
Nel giro di un quinquennio ‒ tra il 1905 e il 1910 ‒ l'incremento delle nascite dei nickelodeon fu così rapido da essere paragonato a quelle dei conigli australiani. Si cominciarono a calcolare i guadagni dei gestori e si scoprì che si trattava di una nuova, vera e propria corsa all'oro del Klondike.In genere una sala tipo era ricavata dalla ristrutturazione di un negozio, un ristorante, o una sala da ballo, aveva dimensioni modeste (m 20-25×10) e il numero di posti non superava i duecento. Il programma durava meno di mezz'ora. In media, in una giornata le sedute erano una ventina, per un totale di tre-quattromila biglietti. Nel 1907 almeno due milioni di americani, di cui un terzo ragazzi, assistevano ogni giorno a questo genere di spettacoli. Le sale si moltiplicarono e occuparono i quartieri popolari delle città, concentrandosi in spazi ravvicinati. I cataloghi della Edison e della Vitagraph, che contendevano il mercato alla Pathé Frères e alla Gaumont, offrivano centinaia di titoli suddivisi per generi e pubblici e ogni giorno conquistavano nuovi spettatori. Un'inchiesta del 1908 rivelò che il pubblico era composto per il 78% da lavoratori e che le classi medie costituivano una netta minoranza. Quando uno spettatore giungeva davanti alla sala in automobile il fatto veniva puntualmente registrato dal magazine cinematografico dell'epoca, il "Moving picture world".
La sala divenne presto un luogo di socializzazione e di incontro: qualche gestore organizzò conferenze educative e gli educatori stessi cominciarono a prendere in considerazione le possibilità d'uso del cinema per l'educazione di bambini ed emigrati. Se per i ragazzi il nickelodeon diventò il luogo edenico da cui si viene cacciati alla fine dell'adolescenza, per le donne lo schermo fu lo spazio verso cui trasferire sogni, desideri, aspirazioni a svolgere un ruolo da protagonista sulla scena sociale. Fin dai primissimi programmi le donne assunsero un ruolo di primo piano sia nel buio della sala sia sullo schermo: c'erano donne che lottavano da pari a pari con i gangster, che guidavano l'automobile e assumevano ruoli di responsabilità in lavori finora riservati agli uomini. Le eroine del cinema popolare statunitense del primo Novecento correvano ‒ sugli schermi dei nickelodeon ‒ a un ritmo eguale, se non superiore a quello degli uomini.
L'aspetto esterno della sala offriva molti motivi di richiamo, dai manifesti alle luci alle grida degli imbonitori, ma non va dimenticata la componente emotiva e il senso di legame magico prodotto dal buio, da quell'energia che si produceva immancabilmente e si poteva misurare quasi in termini fisici. Le sale erano luoghi pericolosi dove i ladri potevano sottrarre con destrezza i portafogli, ma nessuno se ne preoccupava perché in quei piccoli spazi si produceva un accumulo di tensione emotiva non riscontrabile in alcun'altra manifestazione pubblica. Il fatto che gli operatori, muovendo manualmente la manovella del proiettore, potessero sintonizzare il ritmo del film con quello del pubblico, anticiparlo o accelerarlo, indica che ogni spettacolo veniva costruito su misura di quel particolare gruppo di spettatori che guidava idealmente la mano dell'operatore.
Il successo di queste sale suscitò nei gestori il desiderio di conquistare i pubblici della classe media e attirò, in senso contrario, l'attenzione dei rappresentanti istituzionali di questa classe: polizia, gruppi di riformatori, rappresentanti del clero, settori della stampa più conformisti avviarono subito vere e proprie crociate contro uno spettacolo che appariva come la quintessenza dell'immoralità e del pericolo per le anime più giovani e indifese. Al tempo stesso a difesa del cinema si cominciarono a levare voci che ne sostenevano le potenzialità educative, artistiche e culturali. Nuovi imprenditori, più ambiziosi e lungimiranti, si affacciarono all'orizzonte e puntarono a costruire sale nel cuore delle città in grado di competere da pari a pari con i più tradizionali luoghi dello spettacolo. Lo sviluppo di nuovi tipi di sale grandi come cattedrali aprì una nuova era e segnò la fine dei nickelodeon.
Nel 1913 negli Stati Uniti si potevano contare più di 13.000 sale, mentre una media di cinque miliardi di biglietti venduti ogni anno portava un enorme afflusso di capitali all'industria del cinema conferendole già un ruolo di primo piano nell'economia nazionale. Poco per volta, negli Stati Uniti come in Europa, la sala divenne il luogo in cui si svolge, in modi del tutto simili, la vita immaginativa di milioni di persone. Le testimonianze reperibili nelle fonti letterarie, poetiche, giornalistiche, tendono tutte a dimostrare che la sala ha esercitato sulle fantasie collettive, sull'immaginario maschile e femminile, un enorme lavoro di ingegneria affettiva, emotiva e conoscitiva. Il cinema offriva il biglietto di viaggio più economico per conoscere il mondo e per esplorare senza mediatori le profondità del proprio mondo affettivo.
Il processo di progressiva acquisizione di un ruolo centrale nelle metropoli che nascevano dalle ceneri delle vecchie città ottocentesche portò le sale a dilatare il loro spazio. Negli Stati Uniti il cinema avvertiva assai meno che in Europa la concorrenza e la contiguità di altre forme di spettacolo e la fascinazione che produceva sembrava crescere assieme a lui.
Grazie a un imprenditore di Chicago lungimirante e intelligente, George Kleine, il paesaggio delle sale venne poi terremotato dall'arrivo dei kolossal italiani in costume: Quo vadis? di Enrico Guazzoni, Gli ultimi giorni di Pompei di Eleuterio Rodolfi, Spartaco di Giovanni Enrico Vidali, tutti del 1913 e Cajus Julius Caesar (1914) ancora di Guazzoni. Il passato si offriva come un'immensa miniera di sapere e lo schermo si dilatava, dimostrando di poter accogliere e predisporre ‒ quasi collegandosi ai principi della prospettiva rinascimentale ‒ gli eventi del passato in uno spazio capace di accoglierli nel modo più degno e alto. Alla dilatazione dello spazio dello schermo corrisposero quello della sala e quello dei poteri della visione dello spettatore, chiamato a moltiplicare l'attenzione dei suoi sensi. Si può affermare che gli effetti prodotti dai film storici italiani sull'architettura cinematografica statunitense alla vigilia della Prima guerra mondiale non furono inferiori a quelli dell'influenza delle teorie di Palladio sull'architettura pubblica e privata dell'Ottocento. La prima sala con più di mille posti ‒ il Columbia ‒ fu aperta a Detroit nel 1911. A partire dal 1913 l'architetto Thomas Lamb progettò in breve tempo cinque sale a New York destinate a mutare radicalmente la concezione dello spazio della visione: nel 1913 fu inaugurato il Regent, nel 1914 lo Strand, nel 1916 il Rialto, nel 1917 il Rivoli e nel 1919 il Capitol. Tutte queste sale, la cui capienza andava dai duemila ai cinquemila posti, furono dirette da Samuel L. Rothapfel, più conosciuto come Roxy, che concepì nel 1927 una sala cui dette il suo nome e che fu giustamente definita la prima cattedrale cinematografica del mondo.
I Palaces si ispiravano ai teatri settecenteschi costruiti a Versailles, ma la contaminazione e la fusione di stili era totale: forme bizantine, moresche, gotiche, orientaleggianti si mescolavano a concezioni barocche e a geometrie rinascimentali. In queste sale sembrava depositarsi la memoria di tutta l'architettura mondiale: la facciata del Rivoli riprendeva nel timpano il motivo del fregio del Partenone, mentre gli interni del Capitol e del Roxy gareggiavano in sontuosità con i palazzi reali di Francia e Inghilterra.
In Europa fu necessario attendere fino al 1923 per avere il Pavilion, costruito da Frank Verity in Inghilterra, e fino agli anni Trenta per vedere catene di sale capaci di competere per sfarzo e numero di posti con quelle d'oltreoceano. In Francia Marcel Oudin prima ed Émile Vergnes dopo la Seconda guerra mondiale progettarono sale comparabili, su scala più ridotta, a quelle statunitensi. In Germania i modelli erano neoclassici: i grandi Paläste della catena dell'UFA (il più famoso fu costruito a Berlino da Fritz Williams nel 1924) riducevano le funzioni decorative esterne e interne. Anche in Italia, nonostante la crisi, si cominciarono a creare negli anni Venti sale capaci di ospitare migliaia di persone: a Venezia il Rossini richiamava, in una variante razionalista, il Teatro La Fenice; a Torino il Ghersi, a Firenze il Gambrino, a Genova l'Olimpia, a Napoli l'Excelsior contribuirono a enfatizzare l'esperienza della visione e a richiamare milioni di spettatori. L'Europa e paradossalmente l'Italia fascista crearono dalla metà degli anni Venti gli spazi più idonei per accogliere i prodotti americani, e per i produttori di Hollywood il mercato italiano sarà a lungo il migliore del mondo. Per tutti questi palazzi si può a buon diritto parlare di templi. Lo spettatore europeo andava in processione al Regent di Brighton, al Piccadilly di Berlino o allo Splendid di Parigi, così come seguiva i richiami luminosi delle decine di piccole sale Splendor della provincia italiana. I piccoli cinematografi italiani divenivano così anche una sorta di benefica oasi protettiva e di fuga in territori molto lontani e diversi rispetto a quelli creati e prospettati dal fascismo.
Lux, Astra, Cristallo: le insegne luminose costituiscono un richiamo di grande fascino e vanno a formare insiemi strettamente intrecciati alla storia locale e nazionale, ai modelli culturali e ideali del Paese.
La 'teatronomastica cinematografica' ‒ come la chiama il linguista Sergio Raffaelli (1996) ‒ tradusse e conservò la memoria letteraria e culturale e segnò tappe emblematiche della storia ideale e materiale dell'Italia giolittiana, mussoliniana e democratica. Questa onomastica appare sensibilissima alle variazioni dei contesti sociali, culturali e politici, e si può considerare dunque come uno dei numerosi indicatori dei mutamenti nei sistemi ideologici e ideali di riferimento del Paese.
All'inizio del Novecento i nomi avevano valenze sovranazionali: insegne in cui si mescolavano forme italiane e latine ‒ Eden, Astra, Lux, Radium, ma anche Edison e Volta, assieme a Progresso ‒ risplendevano già nel primo decennio come piccoli lumi accesi sull'altare della modernizzazione. Le prime denominazioni delle sale erano simili in tutto il mondo: le luci dell'Eden producevano lo stesso effetto evocativo per i cittadini di Marengo nell'Illinois come per quelli di Valeggio sul Mincio, o di Cagnes-sur-Mer sulla Costa Azzurra. Ma negli anni Trenta il nome Eden avrebbe potuto richiamare quello dell'odiato ministro inglese Anthony Eden; nel 1935 a Udine il cinema Eden divenne cinema Savoia, per poi essere ribattezzato nell'ottobre 1943 con il nome di Garibaldi e nel dopoguerra con quello neutro e solo topologico di Centrale (Quargnolo 1989).
In Italia, quando negli anni Venti le sale stabili cominciarono a moltiplicarsi anche in provincia, nono-stante la crisi produttiva, l'onomastica si riferiva a campi e orientamenti legati alla geografia e alla storia patria. Nacquero così il Trieste e il Magenta a Brescia, il Roma a Bologna e il Brescia di Torino; e poi, in ordine sparso, molti Dante, Manzoni, Mazzini, Garibaldi, Don Bosco, Marconi, Verdi, Rossini. Di fatto brilla un Sole o un Fulgor nel ricordo di milioni di italiani: questi nomi/numi tutelari ‒ gestiti da laici o da religiosi ‒ hanno alimentato l'immaginazione e giocato un ruolo determinante nella formazione culturale e sentimentale di scrittori, poeti, giornalisti, critici, cineasti, oltre che di persone comuni. Un Garibaldi illuminò l'infanzia di Vasco Pratolini a Firenze, un Italia trascinò la fantasia di Mario Rigoni Stern ad Asiago negli anni Venti, certe sale di Parma dettero al poeta Attilio Bertolucci la sensazione illusoria di potersi proteggere dai rumori e dai pericoli della guerra imminente. Nel dopoguerra c'è stata meno luce, meno radianza nei nomi accesi sulle facciate delle sale: non c'era più, attorno alle insegne, quella che gli antropologi chiamano 'la presenza del numinoso'. Poi ‒ dagli anni Ottanta ‒ è iniziata la metamorfosi degli spazi in locali con destinazioni d'uso tra le più diverse: nell'edificio che ospitava il cinema Garibaldi a Padova è nato un supermercato, a Venezia il Santa Margherita è diventato invece l'aula magna dell'Università di Ca' Foscari. Ovunque le vaste cubature delle centinaia di Moderno, Italia, Corso, Astra sono state utilizzate in modo notevolmente più redditizio come centri commerciali, discoteche, banche, garage. La conversione ha toccato anche gli spazi delle sale dei piccoli paesi, di cui è ormai del tutto svanito il ricordo. La morte dei cinema urbani non ha significato in alcun modo la fine della sala cinematografica. Negli ultimi anni del Novecento è iniziato infatti un nuovo capitolo nella storia delle sale, quello dei giganteschi complessi multisala che nascono al di fuori delle città con il nome di 'villaggi' oppure di 'multiplex'. Verso questi complessi si dirigono ancora folle di spettatori alla ricerca di ulteriori meraviglie tecnologiche, di nuove, spettacolari forme di magia visiva in cui provare le stesse emozioni delle generazioni che li hanno preceduti.
"Ci sono stati anni in cui il cinema è stato per me il mondo". Italo Calvino, in un saggio del 1974 dal titolo Autobiografia di uno spettatore (p. IX), ha parlato proprio di 'mondo' a proposito della s. c. e del potere dello schermo di trasportare lo spettatore ‒ sia pure per breve tempo ‒ in un mondo parallelo perfetto e autosufficiente. Di ricordi che messi insieme possono ricomporre ‒ come in un gigantesco puzzle ‒ i momenti topici, le emozioni, le memorie che assimilano le esperienze di milioni di spettatori se ne trovano disperse nelle fonti più diverse a migliaia, ma questo scritto di Calvino ha il potere di condensarle tutte e di fare della propria storia un'esemplare storia collettiva.
Per milioni di giovani, soprattutto negli anni tra le due guerre, il cinema nella memoria si identifica con la vita, è un'esperienza totalizzante, una vita parallela e per molti anni, l'unica vera vita. "Studiando a Caltanissetta ‒ ha scritto anche Leonardo Sciascia (1989, p. 123) ‒ avevo modo di vedere più film: uno al giorno. A volte anche due. Per me e per molti altri della mia generazione il cinema era allora tutto. Tutto". Come lui Gesualdo Bufalino, Attilio Bertolucci, Nerio Tebano, Tullio Kezich, Luigi Pintor, Emilio Tadini hanno accordato i ricordi sui medesimi temi. Nel romanzo autobiografico Bagheria (1993) Dacia Maraini ha ricordato il ritorno del cinema dopo la guerra in Sicilia come un vero e proprio significativo simbolo della ricostruzione: "In quanto al cinema ricordo ancora la prima volta che a Bagheria riapparve il proiettore dopo l'incendio al cinema Moderno. La macchina fu piazzata davanti alla chiesa. E centinaia di persone assistettero al grande prodigio di una serie di ectoplasmi bianchicci che si muovevano sulla parete della chiesa tra un vociferare di sorpresa. Poi le cose presero una forma più precisa; al posto della chiesa fu costruita un'arena, furono sparpagliate delle seggiole dal fondo di agave intrecciata, fu sollevato un lenzuolo a mo' di schermo e su quello schermo cominciarono a correre, ben riconoscibili, i cavalli dei cow-boy americani che inseguivano gli indiani con le piume in testa..." (p. 20).
Tre grandi registi di diverse generazioni e di tre Paesi diversi hanno raccontato il loro rapporto con il cinema e la sala individuando in una scena, o in una sala, o in un film, il luogo in cui si sarebbe deciso il loro destino. Così rievoca la sua prima volta Ingmar Bergman: "Stavamo seduti nella prima fila della galleria. Per me fu l'inizio. Fui assalito da una febbre da cui non guarii mai più. Le ombre silenziose volgono verso di me i loro volti pallidi e parlano con voci inaudibili ai miei più segreti sentimenti. Sono passati sessant'anni, non è cambiato nulla, è la stessa febbre" (Laterna magica, 1987; trad. it. 1987, p. 18).
Martin Scorsese, ricordando il film Duel in the Sun (1946; Duello al sole) diretto da King Vidor, visto all'età di quattro anni, ne risente a cinquant'anni di distanza tutta la profonda potenza emotiva e ne riconosce l'importanza decisiva per la vita: "La musica violenta e selvaggia di Dimitri Tiomkin, la ricchezza del colore, il senso dello spazio: tutto questo mi sconvolse. Ero terrorizzato e mi ricordo di essermi coperto gli occhi... Quella fu per me un'immensa esperienza sensuale. Questo accadeva quasi cinquant'anni fa, eppure il potere allucinatorio di quelle immagini è rimasto intatto per me in tutto questo tempo. Insomma quelle poche ore di una sala di cinema mi hanno segnato per sempre" (in R. Polese, Il film della mia vita, 1995, p. 102). Il regista Roman Polanski usa una frase scritta sui muri della sua città in lingua polacca negli anni di guerra come una madeleine proustiana e in tal modo rende omaggio alla sala vista come oasi di salvezza e farmaco: "Tylko swinie siedza w kinie! Solo i porci vanno al cinema!". Se bisognava credere a questo slogan della resistenza dipinto sui muri dei cinema di Cracovia, io dovevo essere un maledetto porco. Perché conobbi molto presto ciascuna delle sedie in legno luccicante di tutte le sale della città. Il cinema divenne la mia passione dominante, la mia sola evasione al di là della disperazione e dell'angoscia che s'impadronivano spesso di me" (Roman, 1984, p. 8). Nei ricordi di una miriade di testimoni certe rappresentazioni dei luoghi risultano identiche nei vari continenti, come del tutto coincidenti le percezioni del contatto individuale privilegiato con l'oggetto del desiderio, in una sorta di sintonizzazione emotiva con gli spettatori con cui si condivide il rito. Dopo l'iniziazione vi è poi una sorta di maturità in cui il cinema può surrogare molte passioni e sostituirle con altre: è la fase della cinefilia. Georges Perec, nel suo romanzo Les choses (1974, p. 30), così ha ricordato la febbre della cinefilia parigina del dopoguerra: "Erano cinéphiles. […] Si incontravano senza essersi dati appuntamento alla Cinémathèque, al Passy, al Napoléon, o in quei piccoli cinema di quartiere, […] quelle sale senza grazia, mal attrezzate, che sembravano essere frequentate solo da una clientela di disoccupati, di algerini, di vecchi non cresciuti, e di cinéphiles, sale che programmavano in infami versioni doppiate i capolavori sconosciuti di cui si ricordavano dall'età di quindici anni, o quei film ritenuti geniali di cui avevano la lista in testa, e che da anni tentavano disperatamente di vedere". La ricostruzione di una giornata tipo di un cinéphile parigino, mediamente bulimico, ancora agli inizi degli anni Sessanta è stata splendidamente effettuata da Antoine de Baecque nel suo Les cahiers du cinéma: histoire d'une revue (1991; trad. it. 1993, p. 232): "Il cinéphile di questo periodo divora. Ore 10: un peplum sui boulevards, se possibile un Vittorio Cottafavi o un Riccardo Freda; ore 12: appuntamento al Midi-Minuit accanto alla porta di Saint Martin per il film fantastico del giorno, per esempio Michael Powell o Roger Corman; ore 14: la seduta esclusiva, sui Champs Elysées o al Quartiere latino; poi seguono le tre sedute quotidiane della Cinémathèque di Rue d'Ulm, in cui tutti si ritrovano".
Dans la salle obscure (1997) di Jacques Laurens in ordine di tempo è l'ultima testimonianza, e forse la più vibrante di un fuoco e una passione che sembravano estinti. Condensa, nel racconto di un'infanzia e un'adolescenza vissute in Marocco nei primi anni Sessanta, il senso di scoperta del mondo, di iniziazione e dilatazione sconfinata del vissuto. Fin dalle prime pagine l'autore, che va al cinema tutti i giorni, si chiede: "Colui che vede un film al giorno può sostenere di avere una doppia vita?". Così introduce alla sua esperienza, collegandola circolarmente, a oltre trent'anni di distanza, a quella della generazione degli anni Trenta: "Dall'inizio la sala fu per me una camera ideale; un rifugio, un luogo tranquillo, lontano dagli scontri e dalle piccole guerre. Là mi lasciavo andare, tenendo però gli occhi ben aperti. E il mondo, ogni volta, si avvicinava di più" (p. 23).
Esemplare 'romanzo di formazione', il libro racconta un passaggio necessario, dalla sala alla vita e alla scoperta dei sentimenti: il taglio del cordone ombelicale avverrà senza traumi e un mondo naturalmente si dissolverà nell'altro regalando all'autore, nato nel secondo dopoguerra, anche un'educazione sentimentale che lo accompagnerà per sempre.
La specie dell'Homo cinematographicus nata, svezzata e cresciuta nelle sale lungo il Novecento subisce nel nuovo secolo un'ulteriore metamorfosi. Sta lasciando il posto al cyber- e all'internauta. Anche se i sistemi più moderni di proiezione, le sale e gli schermi sono ancora simili a quelli teorizzati secoli fa da Leonardo da Vinci o da Athanasius Kircher, tra poco si potrà pensare a uno spettacolo proiettato sulle nuvole, sulla volta celeste, o direttamente nella mente dello spettatore come avevano ipotizzato Cesare Zavattini e René Barjavel, e più di recente Arthur Clarke. Nel tempo presente ci sono le nuove frontiere aperte dalla telefonia, le possibilità infinite di navigazione in Internet, i nuovi sistemi di proiezione, come l'Imax, che dilatano al massimo la visione, c'è la visione e la comunicazione satellitare, mentre gli studi più recenti hanno consentito di imprigionare la luce aprendo nuove infinite prospettive alla possibilità di trasmettere le immagini in tempo reale in ogni parte del mondo. Il villaggio globale di cui parlava M. McLuhan, in cui brillavano a migliaia le luci dei piccoli Eden e dei Bijou appartiene al passato: resta solo da augurarsi che i nuovi cavalieri della luce sappiano, nei fosfeni luminosi di migliaia di astri artificiali di una civiltà sepolta, vedere e conservare ancora a lungo le polveri di una storia collettiva impastata di sogni e speranze nel trionfo dell'amore eterno e nella pace universale.
I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini, Quattro film, Torino 1974, pp. II-XXIV.
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