salario
Nel linguaggio economico s. è la rimunerazione del lavoro in genere, il prezzo del lavoro, subordinato o indipendente, manuale o di concetto. Il termine s. comprende quindi oltre al s. dell’operaio, la paga del bracciante, lo stipendio dell’impiegato, l’onorario del professionista, il compenso per prestazioni artistiche e servizi personali di qualsiasi tipo, e anche la parte del prodotto che va attribuita all’imprenditore (industriale, commerciante, agricoltore ecc.) per il lavoro da lui svolto nell’impresa (il cosiddetto s. di direzione) da non confondersi con il profitto in senso proprio (➔ ). Il s. può essere in natura (vitto, alloggio ecc.) o in denaro e il s. monetario può considerarsi come somma di denaro (s. nominale) o come quantità di beni e servizi acquistabili con detta somma (s. reale, ricavabile dal confronto tra il s. nominale e il livello del costo della vita). Il s., come tutti i compensi spettanti ai singoli fattori di produzione, è un prezzo che però non segue pedissequamente le leggi generali del mercato, dato che il lavoro non è assimilabile a una merce qualsiasi. Il lavoro è infatti inseparabile dalla persona del lavoratore e quindi non suscettibile di essere ceduto come il capitale o la terra; non può essere ritirato per lungo tempo dal mercato e la sua offerta ha un andamento del tutto particolare, mentre la domanda di lavoro obbedisce alle consuete leggi della domanda e dell’offerta. In regime di libera concorrenza, in cui la determinazione del s. è affidata al mercato e i singoli lavoratori contrattano individualmente col datore di lavoro al di fuori di qualsiasi intesa tra di loro il s. è costretto fatalmente a scendere a livelli di pura sussistenza, qualora la mano d’opera sia numerosa e le possibilità di occupazione limitate. Fu questa la condizione che si verificò all’epoca della Rivoluzione industriale, quando l’impiego delle macchine ridusse la domanda di lavoro mentre l’afflusso di mano d’opera dalle campagne ne aumentava l’offerta, e i lavoratori, sciolte le corporazioni, si trovavano senza difesa alcuna. Fu appunto in base all’esperienza di quel periodo che gli economisti classici formularono le loro pessimistiche teorie del s. e che K. Marx elaborò la sua teoria sul plusvalore. Il s. naturale, per A. Smith e D. Ricardo (o il s. necessario, secondo S. Mill), è infatti il minimo sufficiente ad assicurare la sussistenza della classe operaia, cui finiscono sempre per adeguarsi i s. correnti o di mercato, e la stessa legge bronzea o ferrea dei s. di F. Lassalle è fondata su tale concezione (per essa un miglioramento temporaneo dei s., se porta a una più rapida riproduzione della classe lavoratrice e a una dilatazione dell’offerta di lavoro, costituisce al tempo stesso, per la concorrenza che induce entro la stessa classe lavoratrice, il motivo di una nuova riduzione al minimo del s.). La realtà economica dell’Occidente industrializzato ha poi smentito un così deciso pessimismo e, in conseguenza sia dei progressi tecnici e della riduzione dei costi di produzione sia del sorgere e rafforzarsi delle organizzazioni sindacali e della legislazione sociale, i s. sono progressivamente aumentati, indipendentemente da cause monetarie, e il tenore di vita della classe lavoratrice è enormemente migliorato. Ovviamente con una miriade di eccezioni a livello locale e settoriale, si può dire che nell’insieme delle economie di mercato occidentali, almeno sino all’inizio degli anni Ottanta del Novecento la quota del prodotto complessivo assorbita dai salari è cresciuta più di quella della rendita e dei profitti. Negli ultimi venti-venticinque anni la globalizzazione dei mercati e l’irruzione sulla scena mondiale dei Paesi di nuova industrializzazione (New industrialized countries) come Taiwan, Singapore, Corea del Sud, Hong Kong, Cina e, da ultimo, India, basata su una disponibilità ancora praticamente illimitata di manodopera a basso costo e sull’assenza di qualsiasi vera misura di sicurezza del lavoro e di tutela ambientale, hanno causato una fase di sconvolgimenti delle gerarchie capitalistiche mondiali che ha investito inevitabilmente anche il mercato del lavoro e livelli salariali dell’Occidente. Se non si può parlare ancora di un arretramento generalizzato della quota salariale nella ripartizione del prodotto complessivo, si può sicuramente parlare di un arresto della sua crescita nella ricerca di un nuovo equilibrio di cui, con la crisi internazionale in atto, non si intravvedono nitidamente i contorni.