BANDINI, Sallustio Antonio
Nacque a Siena il 19 apr. 1677, terzogenito di Patrizio e di Caterina Piccolomini.
I Bandini, in realtà, signori di Castiglioncello, originari di Massa Marittima, con molti beni alle falde del Monte Amíata, erano stati ammessi nell'ordine patrizio di Siena già nel 1300; ma nel '500 questa famiglia si sarebbe estinta, quando i figli di Mario Bandini rimasero senza eredi maschi, se l'arcivescovo Francesco Bandini-Piccolomini, fratello di Mario, non avesse adottato, lasciandogli in fedecommesso tutti i buoi beni, Fedro Bardi, figlio di Berenice, nata da Mario Bandini e andata in moglie ad un Alfonso Bardi. La decisione della adozione e della continuazione di quel nome Bandini, che il B. ancora portava, era così collegata al momento centrale della vita della classe dirigente senese e della loro Repubblica: la famiglia Bandini, nel '500, era infatti "ascritta all'ordine o monte del Popolo", Mario Bandini era stato "capo della fazione popolare" e capitano del popolo, e sia questi sia l'arcivescovo avevano partecipato in primo piano alle lotte politiche interne di Siena e alla strenua difesa della Repubblica senese contro Cosimo I e Carlo V. Francesco Bandini-Piccolomini, ormai rifugiatosi in Roma dopo aver visto morire fra le sue braccia il fratello Mario a Montalcino, aveva forse inteso affidare a Fedro il compito di perpetuare non solo il nome della famiglia, ma anche la loro tradizione di geloso attaccamento alla "libertà" repubblicana di Siena. Il B. conosceva bene questa tradizione della sua famiglia; difficile dire cosa ne pensasse, lui, che, negli ultimi anni, rivendicò il fedecommesso Bardi, come loro ultimo discendente. Certo, collegandosi in parte alla tradizione "repubblicana" dell'aristocrazia senese, formulò in più occasioni un programma di autonomia amministrativa, rivendicando, contro i funzionari granducali estranei ai problenii dello Stato senese e forzatamente incompetenti, la necessità di affidare le cariche nelle magistrature della città e del suo territorio ai rappresentanti delle grandi famiglie locali.
Discendente, dunque, di una importante famiglia, il B. era anche strettamente imparentato, attraverso la madre, con i Piccolomini, della migliore e più autorevole aristocrazia senese; se suo zio, Mario Piccolomini, poté avere qualche influsso sulla sua formazione intellettuale per una qualche notorietà che si era acquistato come cultore di studi eruditi, molto più decisivi dovettero essere i rapporti con l'altro zio, il cavalier Francesco Piccolomini, al quale fu particolarmente legato e che a Siena aveva anche raggiunto una posizione politica di primo piano.
Poco, purtroppo, sappiamo della prima educazione, della formazione e definitiva maturazione intellettuale del B., in un periodo che va dalla sempre maggiore diffusione delle idee dei "moderni" e della nuova mentalità scientifica, attraverso il prevalere degli studi di antiquaria ed erudizione da un lato e l'interesse giuridico su basi giusnaturalistiche dall'altro, fino alle polemiche religiose e al definitivo imporsi di un orientamento culturale di tipo illuministico. Per le leggi sul maggiorascato sarebbe stato escluso dalla successione alla maggior parte dei beni del padre; fu, dunque, difficile decidere del tipo di educazione da dargli e sulla carriera cui avviarlo. Dopo una prima educazione ricevuta dai padri gesuiti e rinunciando al progetto di inviarlo al Collegio degli Ardenti di Bologna o all'Accademia Reale di Torino, fu fatto frequentare l'Accademia senese degli Arrischiati (filiazione degli Intronati), dove si intendeva dare un'istruzione cavalleresca ai giovani della nobiltà. Iscritto successivamente all'università di Siena, vi conseguì, nel 1699, la laurea in filosofia e in diritto civile e canonico, entrando a far parte del "collegio legale" senese ed ottenendo (dal 1700 al 1702, forse fino al 1705) l'incarico di lettore di diritto canonico nella Sapienza.
Quanto alle componenti principali della sua cultura, si possono però fare solo delle ipotesi. Il suo stretto collaboratore ed amico, Guido Savini, nel tesserne l'elogio funebre nella Accademia dei Fisiocritici, volle parlare di un legame del giovane B. coll'ormai anziano Pirro Maria Gabrielli, primo fondatore di quella istituzione; questi, professore di medicina e botanica all'università, era stato a Siena autorevole rappresentante di un filone di cultura "moderna", preoccupato di combattere la tradizione scolastica ancora imperante e di invitare allo studio della natura e delle sue leggi attraverso l'esperienza, conforme all'insegnamento galileiano. Se èdifficile provare questo rapporto nell'età giovanile del B., è certo invece che, inaugurando la allora ricostituita Accademia dei Fisiocritici, meno di un anno prima della morte, il 21 luglio 1759, egli aveva voluto ricordare l'esempio di Pirro Maria Gabrielli esaltando "gli studi più profittevoli" e il fiorire delle "buone arti" e invitando a combattere i pregiudizi e le idee imposte col principio di autorità, come quel suo predecessore aveva insegnato. Il B. fu semmai certamente in ottimi rapporti col celebre erudito senese Umberto Benvoglienti, il quale ammirava lo stile oratorio dei suoi discorsi ed elogi pubblici; questi, secondo il Savini, gli avrebbe inculcato l'amore per gli studi storico-eruditi e l'opportunità, negli studi religiosi, di preferire alle costruzioni dogmatiche della tarda scolastica la ricerca delle verità morali e di fede del cristianesimo, risalendo la storia della Chiesa dalle origini e soffermandosi piuttosto sull'esame delle Sacre Scritture, degli scritti dei Padri e sulla storia dei concili. In effetti, nel mettere insieme i libri per la sua biblioteca, il B. farà cercare scritti contro il concilio di Trento e, ormai quasi cieco, volle che il suo segretario Ciaccheri ottenesse la dispensa dalla Congregazione dell'Indice, per potergli leggere libri di storia ecclesiastica, anche se proibiti. Conobbe anche Girolamo Gigli e mostrò di nutrire una qualche stima per questo studioso, il quale, nonostante o proprio per il suo temperamento, rappresentò in Siena un momento di atteggiamenti spregiudicati e di interessi e cultura moderni.
Il B. aveva già ventiquattro anni quando, nel 1701, forse all'improvviso, si decise ad abbracciare la vita ecclesiastica; sebbene una tradizione ce lo abbia dipinto come un giovane disgustato della vita cittadina e spesso desideroso di rifugiarsi, lontano dal mondo, a curare i suoi possedimenti in campagna, notizie sicure ce lo ricordano invece gioviale, vivace e allegro conversatore e, fin da giovane, frequentatore di compagnie e partecipe ai loro divertimenti. Probabilmente dovette, ad un certo punto, fare tristi considerazioni su quelle leggi sul maggiorascato, che gli avrebbero impedito di condurre una vita "normale" (forse al fianco di una fanciulla, per la quale si diceva avesse mostrato una qualche simpatia) e preferire per questo una condizione di vita che, mentre gli garantirà la possibilità di tener vivo il suo interesse per gli studi e per i movimenti culturali contemporanei, gli permetterà anche di raggiungere una invidiabile posizione sociale, dalla quale potrà far valere le sue doti, spiccatissime, pratiche ed organizzative. Divenne suddiacono nel 1702, diacono nel 1703 e sacerdote nel 1705. Canonico metropolitano nel 1708 (nella prebenda di S. Maria in Betiem, di cui era patrono legittimo un conte Piccolomini) e arciprete nel 1713 (per la cappella Chigi) in sostituzione di F. M. Zondanari, divenuto arcivescovo, fu da questo nominato arcidiacono nel 1723.
Subito dopo la laurea il B. aveva avuto occasione di viaggiare (a Roma e a Mantova), chiamato ad applicare la sua competenza giuridica in difficili processi di eredità; aveva, dunque, già potuto dimostrare (risolvendo abilmente e con successo le questioni propostegli) un grande senso pratico e la tendenza ad usare le sue. conoscenze e le sue doti in funzione di una precisa sensibilità di organizzatore e amministratore di patrimoni. Divenuto uomo di Chiesa, si combinò felicemente nella sua vita il profondo senso di carità con lo spirito pratico ed organizzativo e con una sensibilità culturale tutta moderna. Dal 1702 era confratello della Compagnia dei Disciplinati (detta della Madonna sotto lo Spedale): non solo continuò sempre a dare a questa la sua attività, per l'opera di carità che gli permetteva di svolgere in favore di poveri e bisognosi (e poté così anche aiutare la famiglia del Gigli, trovatasi in difficoltà dopo la morte di Girolamo), ma consigliò anche il conte Biringucci a lasciare ad essa una consistente eredità, della cui sistemazione fu poi incaricato di occuparsi e che servì all'istituzione di borse di studio per il perfezionamento nelle lettere e nelle scienze. Anzi, ad un certo punto, propose anche una riforma degli esami, attraverso i quali queste borse di studio venivano attribuite, avanzando un progetto che, sostituendo a prove puramente grammaticali e mnemoniche altre, tese ad accertare la capacità di rendere in italiano corrente un testo latino classico e a controllare il possesso di più ampie conoscenze di logica, geometria e fisica, testimonia della sua sensibilità moderna e della sua esigenza di giudicare, prima di tutto, della cultura e dell'intelligenza dei giovani.
Arcidiacono, amico, consigliere e collaboratore dell'arcivescovo, il B. aveva raggiunto una posizione di primo piano nel mondo ecclesiastico senese; membro di un'autorevole famiglia e imparentato con la migliore aristocrazia locale, non poteva non sentire i problemi generali del ceto dirigente senese, al quale, per un lato e per l'altro, apparteneva. La venuta in Siena di Violante Beatrice di Baviera (1717) diede qualche speranza a quanti rimanevano fedeli alla tradizione "repubblicana" senese e desideravano, per lo meno, maggiore autonomia politico-amministrativa. Gran parte del mondo delle grandi famiglie senesi ne fu riconfortata; il padre e la madre del B. furono addetti alla corte di Violante Beatrice; lo stesso B. collaborò a questo esperimento nuovo di amministrazione dello Stato senese, forse sperando in un accoglimento delle sue esigenze, già manifestate nella Memoria sul Magistrato dell'Abbondanza, favorevoli a sostituire ai troppo impersonali funzionari granducali esponenti dell'aristocrazia locale. Del resto, anche più tardi, seguì attentamente gli avvenimenti politici internazionali e le vicende della guerra di successione austriaca in Italia: e se nulla ci autorizza a pensare che, in questa occasione, il suo interesse fosse mosso dal desiderio di veder diminuita l'influenza austriaca, conforme ad un progetto di riorganizzazione politica della penisola, nella quale la Toscana e lo Stato senese avrebbero riacquistato la loro autonomia attraverso un governo "repubblicano" affidato all'aristocrazia locale, accarezzato dal ministro degli esteri francese d'Argenson e da molti esponenti della nobiltà di Firenze e di Siena, per lo meno abbiamo qui una testimonianza del fatto che egli non era uomo chiuso ed isolato, estraneo ai grandi avvenimenti politici contemporanei. Si diceva che fosse stato in contatto con seguaci del cardinale Alberoni e avesse ricevuto persino una lettera di quest'ultimo, ormai vecchio ed in esilio.
La posizione sociale raggiunta spingeva dunque il B. a partecipare ai problemi della classe dirigente senese, ad accettarne, anche, gli obblighi e i compiti. Egli pronunziò, così, orazioni celebrative ed elogi funebri che vennero molto apprezzati e considerati esempi di stile; inserì, se non altro, in un'attività tradizionale, una sua sensibilità personale e il suo buon gusto (una Orazione per l'esaltazione dell'eminentissimo F. Marcantonio Zondanari al grave magistero della sagra ed eminentissima religione gerosolimitana fu fatta stampare a Siena, nel 1720; l'elogio funebre per la morte dello stesso F. M. Zondanari fu fatto pervenire dal Benvoglienti, attraverso A. F. Marmi, ad Apostolo Zeno, che se ne servì per compilare l'Elogio di questo gran maestro per il suo Giornale de' Letterati [t. XXXVII, 1726, pp. 286 ss.]). Partecipò, col nome di Agguattato, all'attività dell'Accademia degli Intronati, della quale per un certo tempo (certamente nel 1722) fu abile ed intelligente segretario.
In ogni occasíone, poi, il B. mostrò un chiaro amore per il sapere e un vivo interesse a seguire, con sensibilità e attenzione, il movimento intellettuale contemporaneo. Quando, come canonico, volle che fosse organizzato l'archivio del capitolo, salvando dalla dispersione e dalla distruzione vecchi codici e manoscritti dispersi qua e là per la città, certo tenne conto dell'insegnamento dell'amico Benvoglienti, che gli aveva ispirato rispetto per i monumenti antichi e interesse per le ricerche storico-erudite. Nella costituzione di una fornitissima biblioteca personale (in cui furono profuse le rendite della sua ricca prebenda arcidiaconale), nella cura posta nella ricerca e nell'acquisto dei libri, manifestò chiaramente il suo desiderio di una informazione culturale ampia e spregiudicata, che andava dalla storia ecclesiastica all'erudizione storica e all'antiquaria, ma anche ai testi più significativi della filosofia più moderna, dalle opere scientifiche di geometria, matematica e fisica (con i testi della tradizione galileiana fino a Newton) e dai principali volumi dei giusnaturalisti o sulle controversie intorno ai rapporti fra Stato e Chiesa, fino ai più recenti contributi alle scienze "umane" e civili, economiche soprattutto (con Locke, Galiani e gli scritti del Boisguilbert). Ma in particolare, nell'aprire questa biblioteca a discepoli ed amici, nel proposito, finalmente realizzato, di donarla all'università, affinché rimanesse sempre aperta al pubblico, manifestò la volontà di esercitare un più preciso influsso culturale nell'ambiente senese, in base ad una convinzione precisa intorno alla funzione sociale della cultura e della sua diffusione. Non a caso, sensibile ai modi più recenti di circolazione della cultura a livello europeo, aveva voluto fornire la sua biblioteca anche degli atti delle principali accademie e insieme dei periodici e giornali allora più diffusi, dei "mercuri", "novelle", "biblioteche", che da tante parti si stampavano, e persino dei dizionari ed enciclopedie, che si venivano compilando (come il famoso dizionario del Savary). Nel gennaio del 1759 il governo della reggenza, per interessamento precipuo di P. Neri, decise di accogliere la donazione della Biblioteca Bandini, arricchita recentemente anche dall'acquisto dei libri medici e filosofici di Pirro Maria Gabrielli e di altre importanti donazioni; essa fu sistemata in alcune sale della Accademia degli Intronati (costituendo il primo nucleo della attuale Biblioteca Comunale di Siena), accettando la proposta che essa rimanesse aperta al pubblico e fosse affidata, sua vita natural durante, all'abate Ciaccheri, segretario del B.: un giovane, figlio di operai, che il B. aveva incontrato in un suo podere in Maremma, preso con sé, educato alla vita ecclesiastica ed avviato agli studi, sì che divenne personaggio non secondario dell'ambiente di cultura senese.
Ancora convinto della funzione pubblica e collaborativa delle moderne istituzioni culturali, il B. si impegnò a promuovere la ripresa delle ricerche scientifiche e a creare un ambiente di discussione e circolazione delle idee, volendo la ricostituzione della Accademia dei Fisiocritici, da venti anni almeno inattiva. Riaperta nel 1759, egli, ormai ottuagenario, ne accettò la carica di Principe e vi pronunciò due Discorsi,nei quali tentava di usare un linguaggio ancora al possibile aggiornato, in un ambiente in cui i più giovani allievi e collaboratori ormai risentivano chiaramente delle più generali (o generiche) impostazioni illuministiche.
L'esperíenza, tuttavía, che più di ogni altra contribuì a far maturare la consapevolezza, che come partecipe alle attività e alle responsabilità del ceto dirigente senese il B. già aveva acquistato, dei problemi economico-produttivi e di politica economica dell'ambiente nel quale si muoveva, fu quella di amministratore di patrimoni terrieri in Maremma; egli ebbe modo di dedicarsi continuamente a questa attività, nella quale esplicava il suo senso pratico ed organizzativo, non solo interessandosi di qualche podere che possedeva personalmente (e una tradizione vuole che, fin da giovinetto, egli abbia vissuto in queste sue terre, ricevendone le prime impressioni e ricavandone i primi insegnamenti), ma anche assumendosi la responsabilità, a cui era chiamato in conseguenza della posizione sociale, familiare ed ecclesiastica raggiunta, di patrimoni assai consistenti. Nel 1717, come canonico della Chiesa metropolitana, fu incaricato dell'amministrazione della importante eredità che il decano Ottavio Piccolomini Aragona aveva lasciato al capitolo; aveva, come si è visto, sistemato anche l'eredità Biringucci per conto della Compagnia dei Disciplinati; nel 1723 assunse l'amministrazione di tutti i beni della famiglia Bandini, tenendola per almeno venti anni (contrasti poi insorti col nipote Fedro lo indussero a rivendicare il fedecommesso Bardi e a ritirarsi, per trascorrervi l'ultimo periodo della sua vita, in casa Bardi); fin dal 1723 egli dovette provvedere all'amministrazione dei beni della sua ricca prebenda arcidiaconale. Sviluppò, così, sia il suo interesse per l'introduzione di importanti novità di ordine tecnico nella pratica della coltivazione (per primo usò, nel Senese, la disinfezione dei semi del grano per mezzo della calce), sia il suo interesse per i più generali problemi di ordine economico, che assillavano anche la maggior parte della classe dirigente senese, e per la ricerca di soluzioni adeguate nel campo della politica economica.
Morì in Siena, a ottantatré anni, l'8 giugno 1760.
Territorio assai esteso (degradante, oltre le ultime colline al sud di Siena, fino al mare), ma scarsamente popolato, la Maremma aveva conosciuto un pauroso processo di decadenza economica e, insieme, di degradazione fisica: torrenti e fiumi invadevano spesso le terre circostanti, formando zone di acque stagnanti e putride, mentre presso il mare assai vaste erano le paludi. Diviso in non numerose grandi proprietà, appartenenti a famiglie dell'aristocrazia senese, a enti ecclesiastici, opere pie, comunità ed enti pubblici, veniva amministrato, conforme ad un'antica consuetudine, col sistema delle fide e dei terratici: la fida era il canone che pagavano grandi allevatori (ma per lo più piccoli pastori, scesi dal Casentino e dal Pistoiese) per poter condurre su quei pascoli naturali, prima che il caldo e le malattie imperversassero, il loro bestiame; terratico,il piccolissimo canone, proporzionale alla quantità di seme sparso sul terreno, pagato dai faccendierì,che vi coltivavano grano per mezzo di mano d'opera raccolta da "caporali" nelle più lontane zone collinose e montagnose della Toscana, conducendola qui per i lavori autunnali di semina e quelli estivi di raccolta. Pastori e lavoratori agricoli, in quelle terre disabitate e abbandonate e infestate dalle malattie prodotte dalle acque paludose, frequentemente si ammalavano e molti ne morivano, anche dopo esser tornati ai loro casolari in montagna. I faccendieri potevano essere indotti alla coltivazione dalla opportunità di ricavare un buon prezzo dai loro grani, vendendoli all'interno o alla vela (a mercanti stranieri, che giungessero sulle spiagge di Maremma per caricarli); i proprietari (cioè la gran parte della classe dominante senese) ricavavano le loro rendite dalle fide e dai terratici e quindi vivevano della concorrenza sulle loro terre di allevatori, pastori e soprattutto faccendieri.
La Repubblica di Siena, città di interessi prevalentemente artigiani e manifatturieri, aveva regolato, come tutti i Comuni, l'afflusso del grano e la sua distribuzione a buon prezzo a favore dei ceti e dei lavoratori cittadini, conciliandoli con le esigenze delle rendite e dei profitti di proprietari e produttori; concedeva ai faccendieri libertà di esportazione dei grani, obbligandoli a riservare solo una parte del loro prodotto per i bisogni cittadini. Dopo la sottomissione dello Stato senese al granducato mediceo, la situazione si era fatta invece più difficile, poiché il sistema vincolistico e la politica annonaria facente capo al Magistrato dell'Abbondanza erano organizzati assai più rigidamente ed in funzione esclusiva degli interessi della città dominante (e, subordinatamente, dei ceti cittadini degli altri maggiori centri della regione). Impedendo ogni commercio libero dei prodotti della terra, vietandone la esportazione, intervenendo con acquisti e vendite per tener bassi i prezzi dei grani, il Magistrato dell'Abbondanza deprimeva e scoraggiava le iniziative dei faccendieri e quindi danneggiava i grandi proprietari, in un periodo nel quale, oltre tutto, le attività artigiane e cittadine andavano sempre più declinando e gli interessi della classe dominante si erano andati sempre più spostando verso il possesso terriero e le rendite da esso ricavabili. Data la situazione dello Stato senese, nel quale la maggior parte della ricchezza si produceva in Maremma, il granducato fu indotto ad applicare qui una politica, di particolari privilegi, in deroga ai principi vincolistici ed annonari, concedendo ai faccendieri "libertà delle tratte", cioè la possibilità di vendere, direttamente (senza intermediari e dunque restando proibito ogni commercio interno), alla vela una quota del loro prodotto (in genere la metà); così fu stabilito a più riprese nel 1574, nel 1588 e nel 1599. Ma il Magistrato dell'Abbondanza, ormai saldamente organizzato anche a Siena e collegato a quello di Firenze, guidato dalla sua mentalità paternalistica, trovava sempre modo di intervenire, per tema di carestie o di troppo alti prezzi, alterando sensibilmente le condizioni del mercato, fino a imporre spesso la chiusura delle tratte. Peggio fu con il motuproprio del 1684 di Cosimo III, il quale, pur concedendo totale libertà delle tratte, ammetteva contemporaneamente che il Magistrato dell'Abbondanza potesse intervenire in qualunque momento, in base alla propria valutazione intorno alle necessità del vettovagliamento di Siena e di Firenze; mentre l'altro motuproprio del 1694, concesso per assicurare in perpetuo la tratta dei due terzi dei prodotti (un terzo soltanto veniva riservato al Magistrato dell'Abbondanza), entrava presto in contraddizione con la "legge generale" del 1697,che, riorganizzando e rafforzando il Magistrato dell'Abbondanza, lo metteva in condizione di intervenire ancora più pesantemente, anche in contrasto col privilegio appena concesso. Molti, in Siena, ritenevano che la decadenza economica e lo spopolamento della Maremma, la sua conseguente degradazione fisica, fossero da imputare ad una politica economica, incerta e contraddittoria, che annullava in pratica ogni privilegio concesso, creando scarse o troppo incerte possibilità di profitti per i faccendieri (i quali venivano indotti sempre più ad abbandonare le coltivazioni) e insieme insicurezza nei mercanti esteri (dal cui regolare afflusso alle spiagge maremmane dipendevano principalmente i profitti dei produttori), i quali si andavano ormai orientando a frequentare altri porti. I membri della classe dirigente di Siena concordavano nel pensare che il risollevamento della Maremma e dell'economia senese dipendesse dalla sicurezza, offerta ai faccendieri, di ricavare un buon prezzo dai loro grani: alcuni, accettando ormai la realtà dell'impianto vincolistico e annonario tipico dell'ancien régime, chiedevano che esso (almeno 10 scudi il moggio) fosse garantito dal principe, attraverso acquisti per le fortezze o per il vettovagliamento delle città; molti, invece, riprendevano l'idea del privilegio della libertà delle tratte, da garantire ai produttori maremmani in perpetuo e in maniera da impedire ogni interferenza del Magistrato dell'Abbondanza. Il Consiglio di Balìa di Siena si era espresso in questo secondo senso ancora nel 1721, 1724 e 1731. Quando fu costituito il nuovo governo della reggenza lorenese, nel 1737,il Consiglio di Balìa apparve diviso sui provvedimenti da richiedere, ma molti autorevoli personaggi, e primo di tutti Francesco Piccolomini, che già nel 1719 aveva preso posizione sui problemi della Maremma e delle tratte, si pronunziarono per questa seconda proposta di politica economica.
Il B. condivideva le idee di quella parte del ceto dirigente, di cui era massimo esponente suo zio Francesco Piccolomini; del resto aveva seguito e conosceva gli interventi di questo in favore di una diversa politica economica. Si provò anche a stendere per iscritto la sua opinione in una Memoria sul Magistrato dell'Abbondanza,composta intorno al 1715, 716,denunciava l'assurdo comportamento di un istituto, il quale, nel chiudere all'improvviso le tratte (come allora aveva fatto) e nell'intervenire colle sue vendite sul mercato per tener bassi i prezzi, scoraggiava i faccendieri e provocava la diminuzione delle rendite degli stessi gentiluomini; criticava di conseguenza i criteri, che ispiravano quei funzionari, forzatamente incompetenti e insensibili ai reali problemi econornici del Senese in quanto inviati da Firenze, proponendo di affidare la responsabilità di così delicati "uffici" a esponenti dell'aristocrazia locale. Senza chiedere l'abolizione del Magistrato dell'Abbondanza, ne proponeva un funzionamento diverso: avrebbe dovuto preoccuparsi principalmente di garantire le condizioni minime di vita dei poveri senza danneggiare i faccendieri, e quindi acquistare il grano (a 10 scudi il moggio) per sostenerne il prezzo sul mercato, nei periodi di abbondante produzione, rivendendolo solo nei casi di evidente ed eccezionale carestia. Per il resto sosteneva la necessità di una legge di perpetua libertà delle tratte, col solo obbligo di trattenere provvisoriamente, a disposizione del Magistrato dell'Abbondanza, una porzione di prodotto fino a che non si fosse giudicato, sulla base delle denunzie, se quello sarebbe stato un anno di carestia oppure no. E nel 1718,scrivendo Sul corso delle monete,criticava una disposizione emanata per proibire le "monete scarse", in quanto allontanava i mercanti stranieri, soprattutto genovesi, dalle spiagge maremmane. Insisteva sul danno che il provvedimento faceva ricadere sui faccendieri, ostacolando il proseguimento delle coltivazioni in Maremma; dimostrava che solo l'esportazione del grano avrebbe potuto far affluire nello Stato quel denaro, di cui tanto ci si preoccupava e che poteva fornire i mezzi per pagare i tributi al principe; e finalmente sosteneva che solo i profitti dei faccendieri, e quindi le loro spese e quelle dei lavoratori da essi compensati, avrebbero potuto far circolare denaro nello Stato, stimolare al lavoro tutte le altre categorie sociali e dunque creare le condizioni, in cui ognuno potesse largamente procurarsi da vivere. Il B. riprendeva così la tesi della necessità del tradizionale privilegio a favore della Maremma, sulla base della constatazione che quei produttori agricoli assolvevano ad una funzione di arricchimento dello Stato senese e di stimolo di tutte le altre sue attività economiche; ma argomentava poi tale tesi criticando una politica economica ispirata al principio della identificazione della ricchezza degli Stati con la semplice disponibilità di metalli preziosi e preoccupata unicamente di difendere il valore intrinseco della moneta; riconosceva il carattere strumentale del denaro rispetto ai processi di scambio e la dipendenza di questi da una attività produttiva fondamentale, che, se opportunamente favorita e per la connessione evidente esistente tra tutti i tipi di attività lavorativa, avrebbe da sola garantito il normale proseguimento di ogni altro processo economico e conseguentemente le condizioni in cui tutte le altre categorie sociali potessero trovare da vivere. Ancora mercantilista, per la importanza attribuita all'afflusso del denaro nello Stato in seguito alle esportazioni, fondava tuttavia tale mercantilismo sul promuovimento dell'attività produttiva non tanto dei produttori artigiani, quanto piuttosto dei produttori agricoli, da sostenere con una politica di particolari privilegi (mercantilismo aggiornato nel senso del protezionismo agrario). Conciliava i privilegi da accordare alla classe produttiva fondamentale con gli interessi di tutte le altre categorie, soprattutto cittadine, non solo attraverso la considerazione della naturale ripercussione dei profitti della prima su tutte le altre attività (promuovendo lavoro per tutti), ma anche riconoscendo l'utilità della conservazione del Magistrato dell'Abbondanza, purché funzionasse conforme alla proposta avanzata nello scritto precedente (ma comunque conservando all'interno, a parte il privilegio dell'esportazione libera per i faccendieri, tutta la tradizionale struttura vincolistica), in funzione della garanzia di un livello minimo di esistenza per tutti (il problema dei poveri) e dunque in accordo con la mentalità paternalistica propria dell'ancien régime.
Intorno al 1737 il B. componeva il suo Discorso sopra la Maremma di Siena, uno scritto molto più complesso ed assai più variamente argomentato. La tesi di fondo era ancora quella, che spiegava la decadenza della Maremma (descritta a vivi e commoventi colori) attraverso lo scoraggiamento dell'attività dei produttori agricoli, dalla quale, invece, si riteneva potesse dipendere il buon andamento di tutti gli altri processi economici dello Stato senese; di conseguenza, ancora una volta, si proponeva la tradizionale politica di privilegi in favore dei faccendieri, attraverso "una legge perpetua" di libertà delle tratte, che non potesse essere compromessa da alcun intervento del Magistrato dell'Abbondanza; aggiungendo tuttavia, questa volta, anche la proposta di libertà del commercio interno, come sostegno ulteriore all'iniziativa dei produttori, i quali difficilmente avrebbero potuto occuparsi utilmente e nei tempi opportuni dello smercio dei loro grani. Tuttavia in questo scritto, prima di tutto, venivano combattuti gli avversari di questa diversa politica economica e la mentalità loro (artigiani e popolo minuto della città, piccoli commercianti a loro collegati, devoti e persone dabbene, nobili e ricchi), i quali difendevano attraverso argomentazioni paternalistiche un ormai vetusto (e chiaramente in crisi) equilibrio sociale. Ne derivava una critica precisa di alcuni aspetti fondamentali dell'ancien régime, ai quali si contrapponevano le esigenze oggettive regolanti tutti i processi economici e le necessità di un territorio, la cui ricchezza (e il lavoro di ogni categoria sociale) dipendeva ormai evidentemente dai profitti dei faccendieri e dalla possibilità che essi si sentissero incoraggiati nelle loro iniziative di produttori. Per questo il B. discuteva il concetto di carestia, che così largamente giuocava nelle argomentazioni paternalistiche dei difensori del tradizionale equilibrio sociale e della tradizionale politica economica fatta di regolamenti, dimostrando, da un lato, che la vera carestia (mancanza di prodotti) dipende dallo scoraggiamento dell'attività produttiva (mentre la libera esportazione stimola i coltivatori e indirettamente favorisce l'aumento della produzione) e, dall'altro, che non è carestia l'alto prezzo dei prodotti agricoli, il quale anzi, nel garantire i profitti dei faccendieri e le rendite dei proprietari, si traduce in uno stimolo sicuro a tutta l'attività economica, a beneficio di ogni altra categoria sociale. Dimostrava anche che gli in terventi tradizionali del Magistrato dell'Abbondanza erano o inutili o dannosi; anche qui, tuttavia, non ne chiedeva l'abolizione, ma piuttosto proponeva una radicale riduzione della sua attività (in modo da non interferire sui naturali processi di formazione del mercato e quindi, indirettamente, sulle iniziative dei produttori) a garanzia, soltanto, dalle vere carestie e conforme, ancora, alla mentalità paternalistica dominante. Nell'avanzare la sua proposta di privilegi ai produttori agricoli, si riferiva all'esempio contemporaneo dell'Olanda (che ammetteva la libertà del commercio dei grani, pur essendo un paese di scarsa produzione agricola e di prevalente attività commercialecittadina e manifatturiera) e dell'Inghilterra (che aveva istituito un premio sull'esportazione del grano). Le stesse esigenze e proposte degli anni 1715-18venivano poste in primo piano, in un testo, tuttavia, in cui più evidente era la consapevolezza del contrasto esistente fra di esse (e le necessìtà oggettive della produzione e del corretto andamento di ogni altro processo economico) e l'organizzazione sociale tradizionale dell'ancien régime,con la mentalità paternalistica che pretendeva giustificarla. Questa volta, però, veniva ancor meglio sottolineato l'orientamento protezionistico del B., il quale, pur concedendo l'opportunità di importare grano per salvarsi dalle vere carestie, dichiarava di essere in generale contrario "alla compra de' grani forestieri"; e si chiariva ulteriormente il tipo di giustifificazioni, che egli voleva darne, conformi ad una concezione mercantilistica, che considerava "vizio dei secolo l'amar le cose più navigate", cioè criticava non solo l'importazione dei prodotti agricoli, ma ogni tipo di importazioni, anche quelle dei prodotti manifatturati, in quanto fanno uscire denaro dallo Stato. Il B. proponeva di favorire le esportazioni, con l'argomento che queste sarebbero l'unico mezzo di far affluire denaro nello Stato (e quindi di aumentarne la ricchezza), "quando vi manchino le miniere"; ma insisteva sulla maggiore utilità dei favori accordati alla esportazione dei prodotti agricoli, rispetto a quanto si poteva ottenere con la politica economica tradizionale o con quella colbertista, che tendevano a proteggere la più antica produzione artigiana o a stimolare l'esportazione di manufatti. Ormai lontano dalle tesi del metallismo, identificante la ricchezza dello Stato con la disponibilità di metalli preziosi, e rifiutando il più recente mercantilismo, teso a utilizzare l'intervento dello Stato nell'economia in funzione del promuovimento delle attività industriali, egli sosteneva un mercantilismo aggiornato, in funzione di una politica di protezionismo agrario. Sebbene non ammettesse ancora la possibilità di accogliere una tesi libero-scambìsta, argomentava la sua proposta di libera esportazione dei grani rifiutando la concezione autarchica dell'economia agricola di ogni paese e dunque ponendo le basi per giungere all'accoglimento delle tesi libero-scambiste. Nello stesso tempo discuteva dei fenomeni economici riferendosi continuamente alla natura e alle leggi naturali,che regolano automaticamente e regolarmente i processi di produzione e di scambio. Utilizzava così quei concetti di natura e di leggi naturali,che erano sorti sul terreno della mentalità scientifica moderna ed erano stati trasmessi anche agli studi giuridici attraverso il giusnaturalismo; e se la considerazione dei fenomeni economici come procedenti autonomamente e conforme a leggi proprie era una condizione per il sorgere di una mentalità "scientifica" negli studi di economia, d'altra parte i concetti di natura e leggi naturali giuocheranno una funzione di primo piano nelle successive teorizzazioni fisiocratiche e liberistiche.
Nel Discorso sopra la Maremma di Siena il B. discuteva, dunque, una ormai tradizionale proposta di politica economica con una eccezionale ricchezza di argomentazioni e con una grande varietà di sviluppi, giungendo più volte ad analizzare i fenomeni e i processi economici più generali. Il più ampio respiro di questo scritto, rispetto alle memorie stese precedentemente, deriva senza alcun dubbio dall'aver egli ripreso le tesi del Boisguilbert (il cui Testament politique du maréchal de Vauban è stato trovato nella sua biblioteca) e dall'aver ripetuto più di una delle sue analisi ed esemplificazioni: dalla considerazione dell'agricoltura come radice della ricchezza dello Stato e origine di tutto il resto dell'attività economica, alla difesa degli alti prezzi dei prodotti agricoli, alla polemica contro la mentalità paternalistica favorevole alla protezione degli interessi degli artigiani e del popolo minuto cittadino, alla considerazione del naturale ripercuotersi dei profitti dei produttori agricoli su tutta la vita economica del paese, come stimolo di ogni altra iniziativa di lavoro e garanzia di guadagni per tutti. Il Boisguilbert, polemizzando contro la politica colbertista seguita nel suo paese, aveva avanzato una proposta di protezionismo agrario, giustificata da un punto di vista di mercantilismo aggiornato, analogo a quello ora sostenuto dallo studioso senese, ed aveva egualmente, all'interno di queste posizioni, sviluppato considerazioni contrarie alla concezione autarchica della economia agricola dei singoli Stati e sulla base della utilizzazione delle idee di natura e di leggi naturali in riferimento ai processi economici, che avranno una funzione di rinnovamento delle teorie economiche e saranno utilizzate in senso libero-scambista e liberista. La corrispondenza fra il Discorso e i testi del Boisguilbert si ritrova del resto anche nella tendenza ad arricchire la dimostrazione attraverso importanti considerazioni sulla natura della ricchezza e la funzione del denaro, che resteranno basilari nella discussione delle teorie monetarie: dalla tesi che non la mancanza di denaro deve indurre a tener bassi i prezzi, ma al contrario gli alti prezzi procurano abbondanza di denaro, alla osservazione sulla importanza della circolazione della moneta, fino alla intuizione della funzione preponderante della sua velocità di circolazione (sottolineata anche dal B. coll'esempio della fiaccola). Il B. ripeteva anche la sua critica della identificazione della ricchezza con i metalli preziosi, la definizione della ricchezza come possibilità di procurarsi tutto ciò che si può desiderare, e la osservazione sulla funzione puramente strumentale della moneta ("mallevadore" e "vile ministro"), tanto da poter essere sostituita anche dalla moneta fiduciaria o da accordi e contratti verbalì o scritti. Ritornava così la concezione, tipica del Boisguilbert, della importanza fondamentale dei consumo, della sua funzione relativamente allo stabilirsi dei prezzi e soprattutto relativamente al costituirsi della ricchezza di un paese.
D'altra parte, questa volta il B. completava la sua proposta di una nuova politica economica, con una critica precisa della politica tributaria e delle forme della amministrazione pubblica in generale, sostenendo alcune tesi, molto "moderne", non solo contro i troppi tributi inutili o addirittura dannosi al proseguimento dell'attività economica dei produttori, ma anche contro ogni regolamento, proibizione o legge, che intralciasse il libero dispiegarsi dell'attività dei sudditi, opprimesse gli abitanti, inquietasse i lavoratori, creando condizioni non favorevoli al dispiegarsi delle iniziative economiche. Dimostrava l'inutilità o la dannosità della gabella dell'estimo, della tassa del sale, delle proibizioni delle armi, del tabacco, delle carte da giuoco, dei chiodi e del ferro. Teneva anche conto del fatto che tante proibizioni richiedevano una amministrazione pletorica e costosa (tale da gravare, dunque, doppiamente, per il danno o gli intralci che ne derivavano e per la spesa che i contribuenti dovevano sostenere per mantenerla, sugli amministrati) e provocavano processi continui, dispendiosi, lunghi, dannosi al più facile e pronto movimento dei produttori e dei lavoratori. Concludeva criticando ogni forma di imposizione indiretta. Anche qui si ritrovano le tesi del Boisguilbert, il quale del resto aveva ripreso molte osservazioni sulla politica tributaria della Dixme royale del Vauban; soprattutto era stata propria degli scrittori francesi, e in particolare del Vauban, la tendenza a collegare il proprio discorso intorno alle necessità della produzione agricola ad una più approfondita critica del sistema finanziario, giungendo così a dare un contributo di prima importanza allo svolgimento delle teorie finanziarie e a fissare criteri estremamente moderni di politica tributaria. Sulla stessa linea si poneva anche il B., giudicando dell'amministrazione tributaria, denunciando l'inutilità della moltiplicazione delle voci di entrata quando le possibilità contributive restano le stesse, criticando i criteri che inducono a istituirle indipendentemente dalla considerazione della loro "economicità" (costo dell'esazione), rifiutando la tendenza così diffusa a valutare in astratto le necessità delle "casse" statali o delle singole "aziende" e comunità locali, senza tener conto delle capacità contributive del paese sulla base della consistenza delle sue attività economiche. Passando, più in generale, a discutere della esistente amministrazione civile e giudiziaria, il B. non solo bollava i funzionari (imposti da Firenze e incompetenti), preoccupati soltanto dei loro "uffici" e incapaci di intendere che l'amministrazione deve regolarsi piuttosto in funzione degli amministrati, ma anche il criterio "politico" di mantenere un gran numero di tribunali, "uffici", magistrati, stabiliti per un territorio ancora ricco e produttivo ed ormai inutili e dannosamente costosi, oltreché impaccianti, in un paese le cui capacità produttive e contributive erano ormai molto diverse e minori. Nella sua dura critica di "quella condizion di persone che si pasce, dirò così, di carni morte", ritorna la violenta polemica del Vauban contro ministri e "impiegati", "sanguisughe" delle popolazioni (ripresa anche dal Boisguilbert). In questo modo il B., allineandosi ancora agli scrittori francesi che l'avevano preceduto, contribuiva anche lui a formulare una critica decisiva di aspetti fondamentali dell'ancien régime: i criteri,secondo i quali venivano istituite le magistrature o distribuite le cariche (a nobili e privilegiati, per assicurare rendite sicure a membri del ceto dominante), o la mentalità, a cui si ispiravano sia i "politici" sia gli "ufficiali" subalterni nelle loro amministrazioni. Anche ad opera sua, dunque, vengono diffuse in Italia le prime idee per la riforma dell'amministrazione pubblica.
Sulla base di tali considerazioni di politica tributaria, anche il B. era indotto a proporre un nuovo tipo di tassazione; come già per il Vauban, esso era reso tanto più necessario dalla situazione creatasi sui mercati internazionali, da quando affluivano a tutte le piazze d'Europa, non solo dall'Africa, dal Levante o dal Baltico, ma persino dalla Virginia o dalle altre terre del Nuovo Mondo, grandi quantitativi di grano a prezzi molto bassi. Veniva in primo piano, dunque, anche il problema dei prezzi di costo delle coltivazioni; essi non potevano diminuirsi se non alleviando i produttori di una parte delle contribuzioni, che gravavano su di essi. Per questo, oltre a proporre l'abolizione della solita gabella di esportazione, egli chiedeva l'istituzione di una decima,cioèdi un tributo unico, di facile esazione, dunque poco costoso, in sostituzione di tutti i numerosi, inutili o dannosi tributi esistenti in Maremma; esso avrebbe dovuto non ricadere né sui lavoratori, né su artigiani e commercianti, né sui produttori (allevatori, pastori e faccendieri), ma solo sui proprietari, e in misura doppia su quelli assenteisti. Il principe avrebbe ricavato la stessa cifra e i sudditi avrebbero pagato di meno dovendo mantenere un'amministrazione meno complessa e pletorica. Sarebbero state colpite le rendite (terratici e fide),non il capitale (la terra). In questo caso le idee del Vauban e del Boisguilbert risultavano fortemente modificate ed anche largamente semplificate (in direzione della proposta di imposta unica sostenuta da precedenti scrittori inglesi, come Vanderlint e Locke); ma da essi era ripresa la proposta rivoluzionaria di far gravare il nuovo tributo su tutti indistintamente i sudditi, abolendo quel pilastro dell'ancien régime,che era il sistema della esenzione e del privilegio fiscale a favore di enti, ecclesiastici e nobili. In contrasto con una tesi precedentemente accolta dal Boisguilbert, proponeva che la decima fosse organizzata come imposta di ripartizione,distribuita cioè dal governo comunità per comunità, in modo che agli organi amministrativi locali restasse il compito di dividere la quota complessiva fra tutti i contribuenti. Quest'ultima soluzione era una conseguenza dell'altra proposta di riorganizzare le amministrazioni locali, in base a criteri di autogoverno e autonomia, chiamando gli stessi abitanti ad amministrare le loro aziende pubbliche e affidandosi ai sicuri, felici risultati della applicazione del loro senso di responsabilità, stimolato dal loro stesso immediato e mediato interesse. In questa direzione, così, si concludevano anche le sue idee di riforma amministrativa, completata dalla proposta di istituire un "protettore" della Maremma: una carica da affidare ad un esponente della aristocrazia senese, non solo per controllare e sorvegliare, con semplicità e facilità di movimenti, le comunità autonome, ma anche per risolvere prontamente in loco molte questioni amministrative e procedimenti giudiziari più semplici, in sostituzione di molte magistrature e tribunali, che si potevano abolire.
Non si possono dimenticare, poi, alcune altre proposte del B.: prima di tutto, e in relazione alla sua decisa critica della grande proprietà, in particolare assenteista, e alla preferenza manifestata per la piccola coltivazione (conforme ad un punto di vista largamente diffuso nella pubblicistica economica contemporanea, fino al Montesquieu), quella di una legge agraria,per obbligare i grandi proprietari a concedere le loro terre in piccoli appezzamenti, in enfiteusi o fitti perpetui; e, in secondo luogo, quella di una legge generale a protezione sia della salute, sia delle condizioni di lavoro dei braccianti chiamati stagionalmente in Maremma (che stabilisse le condizioni del vitto e delle abitazioni e regolasse gli orari di lavoro). Non liberista, né liberoscambista (neppure, dunque, anticipatore delle riforme economiche attuate nel periodo leopoldino), piuttosto protezionista agrario in base a considerazioni proprie di una forma di mercantilismo aggiornato, il B. per di più continuava ad ammettere l'intervento del Magistrato dell'Abbondanza in casi di estrema necessità e proponeva sia una legge agraria sia una legge generale a protezione della salute dei lavoratori e delle loro condizioni di lavoro. Insomma, non solo non era del tutto ispirato dal principio della intoccabilità del diritto di proprietà e della "libertà della proprietà", né era ancora convinto che i liberi rapporti fra datori di lavoro e lavoratori (regolati dalle leggi di mercato della domanda e della offerta) avrebbero automaticamente risolto ogni problema relativo alle condizioni di esistenza delle classi laboriose, ma anche continuava a far qualche concessione alla mentalità paternalistica preoccupata di garantire il livello minimo di vita del popolo minuto, giungendo a ritenere utile l'intervento dello Stato nella vita economica, quando fosse dettato da inderogabili necessità sociali o rivolto a creare opportune condizioni di partenza per il dispiegarsi della attività economica e dell'iniziativa dei produttori. Eppure tutto il suo Discorso era ispirato da una fondamentale esigenza di libertà, dal desiderio di assicurare a tutti possibilità facili e sicure di movimento, da una fiducia incrollabile nella natura e nella spontaneità dei fenomeni economici e delle leggi naturali che li regolano. Era sicuro che l'accoglimento delle sue proposte, non solo di politica economica, ma anche di riforma tributaria e di riforma amministrativa, avrebbero fatto della Maremma un paese eccezionale nell'Europa dell'ancien régime,riconoscibile per l'"aria di libertà", che vi si sarebbe respirata, per la mancanza di tutti quei regolamenti, leggi, proibizioni, che erano così numerosi in tutti gli altri Stati.
Sulla base della sua esperienza di amministratore e organizzatore di patrimoni, guidato dal senso di responsabilità che gli veniva dall'alta posizione sociale conseguita e dalla sua appartenenza al ceto dirigente senese, il B. non aveva solo avanzato una interessante proposta di politica economica, conforme ad esigenze da tempo sentite e riallacciandosi ad una precisa tradizione: dai testi dei più vivi scrittori di economia contemporanei aveva ricavato lo stimolo ad un ampliamento della discussione, contribuendo alla introduzione in Italia di tesi notevolmente moderne intorno al problema della ricchezza, ai fenomeni monetari, alla politica tributaria e amministrativa e avanzando, uno dei primi, idee precise di riforma tributaria e di riforma amministrativa. Soprattutto aveva dato i primi e più forti colpi a tutto l'impianto politico-amministrativo dell'ancien régime e alla mentalità che lo reggeva; aveva insegnato a giufficare "obbiettivamente" e "scientificamente" dei fenomeni economici e delle forze che li regolano; aveva sottolineato l'opportunità di decidere non solo della politica economica, ma anche delle strutture amministrative sovrastanti la vita economica di un paese e da essa dipendenti, sulla base delle esigenze oggettive della produzione e dello scambio dei prodotti; aveva indicato, insomma, la necessità di stabilire in ogni ordine di rapporti "nuove leggi", formulate sulla base di un criterio unitario e adeguate alla "costituzione" del paese. Una mentalità analoga, più di ogni altra, contribuirà più tardi a fondare una politica di riforme.
Sulla composizione e sulla fortuna del Discorso si è venuta stabilendo una lunga tradizione di notizie, incontrollabili e spesso contraddittorie. Quasi certamente esso fu scritto nel 1737. Si sa che in quella data il principe di Craon, assumendo la reggenza per Francesco Stefano di Lorena, si rivolse alla Balìa di, Siena, per invitarla a formulare proposte atte a risollevare le condizioni della Maremma; poiché la Balìa era divisa su questo argomento, i membri di essa risposero separatamente. Fra gli autorevoli esponenti locali, come si è ricordato, si pronunziò per la libertà delle tratte anche lo zio del B., Francesco Piccolomini. È probabile che il B. abbia approfittato di questa occasione per stendere anche le sue ìdee, giustificarle su una base teorica e con argomentazioni assai più complesse, e svilupparle fino a prevedere un piano molto più organico di riforme, dalla politica tributaria, all'amministrazione civile, giudiziaria e comunitativa. Fu detto che, presentato da Pompeo Neri, il B. a Firenze avesse potuto parlare del suo progetto anche a Francesco Stefano e consegnargli il Discorso. Se tale incontro ci fu, esso dovette essere posteriore alla emanazione del motuproprio del 4 ott. 1738, che, accogliendo le tesi dei fautori senesi della libertà delle tratte, concedeva di nuovo tale privilegio per dodici anni, mantenendo la riserva di un terzo del prodotto a favore dell'Abbondanza e la gabella di esportazione. Il piano del B., come si è visto, era molto più vasto e organico. In ogni caso, il testo del Discorso giunse affettivamente a Firenze e rimase a lungo fra le carte delle amministrazioni centrali, se il Ciaccheri ne faceva ricerca nel 1767e Pompeo Neri poteva ritrovarlo e inviarglielo nel 1771. Copie di esso circolavano anche a Siena, ancora in vita il B.: nel 1752il Ciaccheri richiedeva quella prestata a G. G. Carli e Stefano Bertolini, auditore generale di Siena, l'aveva letto ed apprezzato; il Savini, pronunziando nel '60,all'Accademia dei Fisiocritici, l'Elogiofunebre del B., poteva darne un ampio riassunto e nello stesso anno le Novelle letterarie del Lami assicuravano che diverse copie se ne potevano trovare a Firenze e a Siena, in particolare "presso gli eredi dell'autore e nella libreria pubblica di Sapienza". Ci fu, forse, allora un progetto di pubblicarlo negli atti dell'Accademia dei Fisiocritici, con note di G. G. Carli. La fortuna di questo testo fu assicurata dai ministri riformatori di Pietro Leopoldo, forse principalmente per merito di Pompeo Neri, non tanto allievo del B. (data la complessità della sua formazione, della sua cultura e del suo programma riformatore, non del tutto coincidente con le idee di lui neppure sul terreno dei provvedimenti di politica economica), quanto suo conoscente e pieno di stima per la sua personalità e la sua opera: fatto stampare nel 1775,per interessamento del governo, coll'intento di dimostrare che già quaranta anni prima c'era stato in Toscana "chi pensava con le buone massime intorno alla econornia politica", uscì, per la penna forse di Pompeo Neri, anche un Estratto del Discorso economico dell'arcidiacono Salustio Antonio Bandini. Il ministro Tavanti si preoccupò della sua diffusione e ne fece pervenire una copia anche al ministro Turgot, per mezzo dell'abate Niccoli. Esso fu immediatamente esaltato, come anticipatore del liberismo economic0, addirittura delle idee fisiocratiche: si vedano le Novelle letterarie di Firenze, il Giornale dei letterati di Pisa (ma Ferdinando Paoletti, autore di questo estratto, notava i "limiti" dello scritto bandiniano dal punto di vista liberista e fisiocratico) e il Giornale dei letterati d'Italia di Modena (continuato dal Tiraboschi); ma, ancora nel 1775(9 ottobre), sulle Novelle letterarie di Firenze, forse per mano del Lastri, era posto il problema dei rapporti di idee B.-Boisguilbert. La fortuna dello scritto nell'ambiente dei ministri riformatori di Pietro Leopoldo è ancora confermata dal fatto che F. M. Gianni, nello stendere una relazione sulla Maremma nel 1776,sentì il dovere di riferirsi anche a questa opera, considerata fondamentale, mentre un "savant suédois" ne aveva sentito parlare, con elogi vivissimi, alla corte di Toscana ancora nel 1778. Fu quest'ultimo che, passando poi da Milano e raccontando l'episodio, trasmise quell'entusiasmo anche nell'ambiente milanese, stimolando indirettamente Giuseppe Gorani a comporre il suo famoso Elogio del B., uscito nel 1784,coll'intento di rivendicare le sue idee liberiste e pre-fisiocratiche. Forse occasionata da una traduzione francese dell'Elogio del Gorani, si sviluppò in Francia, negli anni 1786-87,una polemica, nella quale gli avversari dei fisiocratici tentavano di dimostrare la mancanza di originalità delle loro idee, già contenute in uno scritto di tanto anteriore.
Il Discorso del B. fu prima raccolto dal Custodi fra gli economisti italiani e ristampato a Firenze nel 1847,in una edizione dedicata a Riccardo Cobden per presentargli un anticipatore del liberismo economico. Cosimo Ridolfi volle onorato il B. nella sua casa (e successivamente dall'Accademia dei Georgofili); subito dopo l'unità, prendendo l'occasione dalla ricorrenza del centenario della morte, Siena volle assicurare onorevolissime celebrazioni e testimonianze solenni a questo precursore della "libertà". In questa ultima occasione fu ristampato anche il testo bandiniano, sulla base del manoscritto ritenuto originale, ridandogli finalmente il titolo bandiniano di Discorso sopra la Maremma di Siena. Di lì a poco cominciava la discussione, più "obbiettiva" e "scientifica", delle idee del B.: già Francesco Ferrara aveva mostrato di quanto esse fossero lontane dal liberismo e dalla fisiocrazia; dopo il Cusumano, che aveva giustamente sviluppato le osservazioni del Ferrara, il Gobbi e il Cossa ripresero il confronto con gli scritti dei Boisguilbert e le tesi del Vauban, mentre il Ricca-Salerno, di nuovo collocando il Discorso del B. (insieme al Testamento di Lione Pascoli) sullo stesso terreno dei testi del Vauban e del Boisguílbert, sottolineava anche, sebbene non abbastanza, la sua partecipazione alla discussione delle dottrine finanziarie.
Opere: Orazione del signor S. B., gentiluomo sanese, arciprete della metropolitana, recitata dal medesimo nell'Accademia degli Intronati, fatta il dì 25 aprile 1720, per l'esaltazione dell'eminentissimo F. Marcantonio Zondanari al grave magistero della sagra ed eminentissima religione Gerosolimitana,Siena 1720; Discorso economico scritto dall'arcídiacono S. A. B., patrizio sanese, nell'anno 1737 e pubblicato nell'anno corrente 1775, doppo la di lui morte seguita nel 1760,Firenze 1775(per Gaetano Cambiagi, stampator granducale). Cfr. dopo la ristampa nella collezione degli "Scrittori classici italiani di economia politica" di Pietro Custodi - P. M., I, pp. 109 ss.: Discorso economico, scritto dall'arcidiacono S. A. B., patrizio sanese, nell'anno 1737 - e l'altra, a Siena nel 1847,dedicata a Riccardo Cobden, la nuova edizione, rivista sul manoscritto, a cura di L. Bianchi e G. Palmieri-Nuti, uscita col titolo, Discorso sopra la Maremma di Siena, scritto dall'arcidiacono S. A. B., Patrizio senese,Siena, Tip. Sordo-Muti di L. Lazzeri, 1877,con note biografiche dei curatori.
Fonti e Bibl.: Siena, Bibl. Com., Pergam. F. LXV, nn. 643, 646, 649; B. IV, 21; D. VII, 16; E. VII, 7;G. Gigli, Diario sanese, in cui si veggono alla giornata tutte le cose importanti sì allo spirituale come al temporale della città,Siena 1722, p. 177; Giornale de' letterati d'Italia,XXXVI I (1725),Venezia 1726, p.320; Novelle letter.,Firenze, 6 apr. 1759, n. 14; 4 maggio 1759, n. 18; 8 ag. 1760, n. 32; Nuove mem. per servire all'istoria letter.,I, Venezia 1759,fasc. VI (giugno), p. 487; II, ibid. 1759,fasc. V (nov.), pp. 337-342;G. Savini, Elogio istorico per l'arcidiacono S. A. B.,in Atti d. Accad. d. scienze di Siena detta de' Fisiocritici,III (1767), pp. 301 ss.; Estratto del discorso economico dell'arcidiacono S. A. B.,s. l. né d.; Novelle letterarie,Firenze, 29 sett. 1775, n. 39; 6 ott. 1775, n. 40; Estratto del Discorso economico sulla Maremma di Siena,in Giornale de' letterati di Pisa,XIX (1775),pp. 138 ss.(riportato in F. 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