Sallustio e la riflessione sulla crisi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La vita di Sallustio è torbida come i tempi nei quali si è trovato a vivere e alterna rapide ascese a repentine cadute; dopo la morte di Cesare, suo referente politico, decide di dedicarsi alla storiografia e consegna a due succinte monografie la sua disincantata visione della storia di Roma, una storia segnata da tempo da una decadenza che appare inarrestabile e che anzi Sallustio, a mano a mano che approfondisce la sua riflessione, proietta sempre più indietro nella vicenda della città. Solo poche figure eccezionali sembrano emergere dalla palude: in occasione della congiura di Catilina sono Cesare e Catone il Giovane, durante la guerra giugurtina è Gaio Mario, l’uomo nuovo, il provinciale senza titoli nel suo blasone, ma portatore di quella moralità integerrima e disinteressata cui l’aristocrazia tradizionale ha ormai abdicato.
Gaio Sallustio Crispo viene da Amiternum, in Sabina, dove è nato nell’86 a.C. La sua famiglia appartiene forse al notabilato locale, ma la condizione di homo novus, privo di ascendenze aristocratiche, non gli impedisce di intraprendere la carriera politica, che lo vede nel 52 a.C. tribuno della plebe. Due anni dopo il primo infortunio: i censori lo bandiscono dal senato per immoralità, una misura che intende forse colpire Cesare, del quale Sallustio è divenuto intanto sostenitore; certo sarà proprio Cesare a riammetterlo in senato nel 48 a.C., all’indomani della vittoria sui pompeiani. L’anno dopo ricopre la pretura, quindi diventa governatore dell’Africa Nova, la provincia appena istituita nei territori confiscati al re Giuba, sostenitore di Pompeo; la carica gli costa un’accusa di malgoverno; Sallustio ne esce assolto, forse ancora per intervento di Cesare, ma non è inverosimile che avesse accumulato una fortuna cospicua, come era prassi per i governatori romani; di certo al suo ritorno a Roma acquista il grande parco noto con il nome di Horti Sallustiani. Dopo le Idi di marzo si ritira dalla vita politica e si dedica all’attività storiografica; la morte sopravviene probabilmente nel 35 a.C.
Di Sallustio ci sono giunte integre le due monografie, il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurthinum. Nella tradizione storiografica romana domina la forma annalistica, che racconta anno per anno le vicende della città, spesso prendendo le mosse dalla sua mitica fondazione; ma la monografia, in cui viene ritagliato un arco cronologico più circoscritto, a volte anche una singola guerra, è tutt’altro che sconosciuta: questa era stata in particolare la scelta dei due massimi storici attivi nella prima metà del secolo, Sempronio Asellione e Lucio Sisenna. Ad un decennio circa di storia recente è infine dedicata l’ultima opera di Sallustio, giunta solo in frammenti, le Historiae.
Le monografie sallustiane presentano numerosi punti di contatto: entrambe sono aperte da un ampio proemio, nel quale l’autore giustifica la scelta di dedicarsi alla storiografia, rievoca la propria deludente esperienza politica, dalla quale prende nettamente le distanze, e traccia un quadro disincantato della società contemporanea; in entrambe il resoconto delle vicende narrate è interrotto da excursus più o meno estesi, che hanno la funzione di allargare il quadro prospettico e indicare le grandi tendenze della storia di Roma al cui interno si inseriscono e trovano senso i fatti oggetto del racconto. Soprattutto, costante rimane il bisogno di fondo cui l’intera opera storica risponde: la volontà di trovare una spiegazione alla crisi nella quale si dibatte da tempo Roma, e alla quale anche l’esperienza del regime cesariano non è stata in grado di opporre un rimedio efficace.
La percezione della storia recente di Roma come storia di una lunga crisi precede di molto Sallustio e nasce con il nascere stesso della storiografia: per Catone il Vecchio la decadenza è già iniziata ai suoi tempi; gli storici dei decenni successivi si sforzano di individuare il punto di svolta, il momento a partire dal quale il pendolo della storia ha cambiato direzione; col tempo si impone la data del 146 a.C., l’anno della distruzione di Cartagine, che per oltre un secolo aveva conteso a Roma l’egemonia sul Mediterraneo, mettendone in forse la stessa sopravvivenza. Quel nemico, e la paura che esso ispirava, avevano avuto l’effetto di tenere compatta la società, impedendo l’affermarsi di interessi individuali su un interesse collettivo così gravemente minacciato; ma allorché il metus hostilis, la paura dell’avversario, era venuta meno, si erano scatenate le ambizioni individuali, lo spirito di fazione, la riduzione della classe di governo a cricca preoccupata solo di ingrassare a spese delle province e di perpetuarsi impedendo qualsiasi mutamento dello status quo.
Sallustio condivide questo paradigma interpretativo: negli excursus del De coniuratione Catilinae come nella digressione posta al centro del Bellum Iugurthinum la Roma arcaica è modello di virtù civica e dedizione al bene comune; anche i paesi conquistati sono gestiti in origine con equilibrio e senso della giustizia, senza sopraffazione e nel rispetto dei sottomessi. Ma la sconfitta di Cartagine segna l’avvio della fase discendente: l’arricchimento generalizzato assicurato dalle conquiste è per Sallustio il primo veleno inoculato in un corpo in precedenza sano; l’avidità trascina quindi con sé gli altri vizi, in particolare l’amore per il lusso, in una spirale che si avvita su se stessa e della quale fanno le spese anche i sudditi, costretti ora a subire un potere “crudele e intollerabile”. Nella monografia su Catilina peraltro Sallustio propone una scansione più articolata: in un primo tempo a emergere è soprattutto l’ambizione, un vizio che conserva però ancora un rapporto con la virtù; la degenerazione definitiva si compie nell’età di Silla, in particolare con la prolungata esposizione delle truppe romane al contatto con la corrotta cultura orientale in occasione delle campagne contro il re del Ponto Mitridate. Nelle più tarde Historiae il pessimismo sembra invece estendersi anche alle epoche più remote della storia di Roma, anch’esse tutt’altro che immuni dai vizi che dominano nell’età dello storico. Alla luce di queste premesse, le monografie acquistano la natura di micro-segmenti di storia scelti non tanto per la rilevanza oggettiva dei fatti raccontati, il cui peso era stato tutto sommato limitato, quanto perché rappresentano altrettanti momenti in cui la crisi che attanaglia Roma si è manifestata in tutta la sua drammaticità.
Nel 63 a.C., l’anno in cui era console una delle intelligenze più brillanti della Roma tardo-repubblicana, Cicerone, Lucio Sergio Catilina, un nobile decaduto, arricchitosi con le proscrizioni sillane ma poi precipitato nuovamente in miseria, si pone a capo di un movimento eversivo che raccoglie seguaci sia tra gli aristocratici indebitati che tra la plebe urbana. Il putsch progettato da Catilina – che negli anni precedenti ha tentato invano di raggiungere il consolato – prevede la liquidazione di Cicerone, una vasta strage di senatori e l’occupazione manu militari del potere; più vago quello che avrebbe dovuto far seguito all’eventuale successo della congiura: i catilinari criticano ferocemente le disuguaglianze sociali della Roma contemporanea, la scandalosa ricchezza dei pochissimi, la chiusura dei ranghi politici al merito, la concentrazione del potere nelle mani di una cerchia ristretta; di fatto però sembrano mirare semplicemente ad aver parte alla spartizione di quelle ricchezze e di quel potere. Alla fine, il progetto naufraga: molti dei complici di Catilina vengono arrestati e giustiziati; il leader del movimento si rifugia in Etruria, dove è raggiunto e liquidato dalle truppe regolari all’inizio del 62 a.C. Cicerone è portato alle stelle come salvatore della patria, l’aristocrazia ottimate tira un sospiro di sollievo, anche se sui retroscena di quel delicatissimo episodio si continuerà a discutere per anni.
Per Sallustio la congiura di Catilina manifesta drammaticamente la crisi della tarda repubblica; al tempo stesso, essa costituisce un modello negativo di possibile fuoriuscita dalla crisi stessa: benché le denunce dei catilinari coincidano con quanto lo stesso storico lamenta ripetutamente negli excursus delle due monografie, inaccettabile è la scelta di scorciatoie autoritarie, l’adozione della violenza come strumento di risoluzione dei problemi. Ma la monografia ha probabilmente anche un fine meno confessabile. In modi che non conosceremo mai sino in fondo, i piani di Catilina avevano lambito, e forse coinvolto, lo stesso Cesare; un primo progetto di congiura, messo a punto già nel 65 a.C., prevedeva addirittura che l’ex sillano Crasso assumesse la dittatura e che Cesare diventasse il suo vice. Con grande abilità, Sallustio scagiona il dittatore scomparso dall’accusa di complicità con Catilina: Cesare giganteggia anzi nel discorso tenuto in senato circa la punizione da infliggere ai catilinari, distinguendosi per una proposta che, se rifiuta la sommaria condanna a morte proposta da altri, non è meno ferma nei confronti dei partecipanti al piano eversivo.
La guerra contro Giugurta, divenuto inopinatamente re della Numidia, un regno nord-africano vassallo di Roma sin dall’epoca delle guerre puniche, e artefice, da quella posizione, di una politica gravemente lesiva degli interessi romani, si trascina a lungo a partire dal 111 a.C.: il sovrano numida fa un uso disinvolto della corruzione –“a Roma tutto è in vendita”, è una massima che ama pronunciare – nei confronti dei generali inviati di volta in volta a contrastarlo; alla fine il ceto emergente dei cavalieri, il più danneggiato dalla politica giugurtina, preme per l’affidamento della guerra a Gaio Mario, homo novus, privo di ascendenze aristocratiche ma dotato di grande esperienza militare, che riesce nel giro di due anni a porre fine alle ostilità (grazie anche all’abilità del suo luogotenente, e futuro avversario, Lucio Silla). Ancora una volta, Sallustio sceglie dunque un episodio particolarmente significativo: qui anzi la condanna di una intera classe sociale – l’aristocrazia senatoria –, che ha ormai esaurito la sua funzione storica ma resta tenacemente abbarbicata al potere, si fa ancora più esplicita rispetto alla monografia su Catilina.
Come la parte finale del De coniuratione Catilinae era dominata dagli interventi paralleli di Cesare e Catone il Giovane, così nello scorcio del Bellum Iugurthinum si impone il lungo discorso di Mario al momento della sua elezione al consolato: l’uomo nuovo rivendica al ceto di cui si sente rappresentante il compito storico di subentrare ad un’élite ormai imbelle; lo fa però, e questo è estremamente indicativo, non in nome di principi nuovi di cui Mario si faccia portatore, ma proprio in nome dei principi da sempre appartenenti al patrimonio dei valori romani – la frugalità, la dedizione alla cosa pubblica, la virtù guerriera, il disinteresse per l’arricchimento individuale –, ma ai quali la nobilitas tradizionale ha ormai abdicato. Come sempre accade a Roma, tutte le rivoluzioni sono o si presentano come altrettanti ritorni al passato.
L’ultima fatica storiografica di Sallustio riprende il modello della “storia continuata”, raccontando le vicende di Roma a partire dalla morte di Silla, nel 78 a.C., sino al 67 a.C.; le Historiae chiariscono dunque le vicende che hanno condotto alla congiura di Catilina, riallacciandosi così idealmente alla prima monografia. Dell’opera ci sono giunti circa 500 frammenti; abbiamo invece integralmente alcuni discorsi e due lettere, estratte evidentemente dal corpo vivo del testo e tramandate come pezzi a se stanti. Tra questi, particolarmente affascinante l’epistola che Sallustio immagina indirizzata dal re Mitridate, avversario storico di Roma, ad Arsace, sovrano dei Parti, in cui è tracciato un quadro impietoso dell’imperialismo romano: i Romani sono guidati solo dalla sete di potere e di ricchezza; trattano come nemico chiunque non sia loro servo; non rispettano né leggi umane né norme divine; bramano allo stesso modo di sottomettere i miseri come i ricchi. Il motivo della conquista romana vista con gli occhi del nemico torna anche in Livio, poi in Tacito, nel celebre discorso di Calgaco; e va riconosciuto alla storiografia romana il merito, se non di aver condiviso quella visione così disincantata, quanto meno di averle dato voce.