Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con la sua forte personalità e la sua profonda vivacità intellettuale, Samuel Johnson rappresenta una fra le più vigorose e complesse figure di letterato della storia inglese. Nell’Inghilterra della seconda metà del Settecento, Johnson riesce ad affrancare definitivamente la condizione del letterato dalla dipendenza mecenatistica e ne stabilisce definitivamente il prestigio attraverso una vasta attività: si dedica infatti a componimenti poetici e saggistici, redige periodici, compila il suo dizionario della lingua inglese, ma la sua fama resta legata senza dubbio alla sua abilità oratoria e al suo genio critico.
Poeta, critico, saggista, editore e giornalista, Samuel Johnson è famoso, nella sua epoca, soprattutto per la personalità e la maestria del suo sapiente conversare, qualità descritte da James Boswell nella sua grande biografia dell’autore. Egli è uno dei primi “liberi professionisti” della letteratura in Inghilterra: abbandona infatti Grub Street, la strada londinese rappresentativa del mondo degli scrittori senza fortuna, svincolando la sua produzione dal volere degli editori; rifiuta l’offerta di patronato di Lord Chesterfield per il suo Dizionario, motivando questa scelta sia con la rivendicazione della propria indipendenza sia con la tardività dell’offerta stessa, giunta quando l’aiuto è ormai superfluo e l’opera gode già di una certa popolarità.
L’intera opera di Johnson mostra come l’autore, che ha conosciuto la povertà fin dall’infanzia, sappia vedere gli aspetti più miseri della vita londinese settecentesca e non si faccia illusioni sulle sofferenze e le crudeltà dell’esistenza umana. Johnson mantiene tuttavia una posizione di conservatorismo politico e religioso fondato su una concezione profondamente pessimista della condizione umana.
Al di là delle idee appare comunque la generosità che lo porta a ospitare e mantenere, quando gli sarà possibile, un discreto numero di persone indigenti: dalla signora Williams, la padrona di casa cieca, all’amico Robert Levet, medico dei poveri.
A causa della sua cattiva salute, dovuta a molteplici malattie, Johnson non compie studi sistematici e non frequenta scuole, ma si forma sulla biblioteca paterna. La sua educazione risulta perciò poco scolastica, composita e vasta, tanto da stupire i suoi professori all’università di Oxford con citazioni dotte.
Johnson risiede a Oxford solo due anni, durante i quali si distingue per le sue capacità che si manifestano soprattutto nell’ottima traduzione in versi latini del Messiah di Pope.
Costretto ad abbandonare gli studi per l’estremo disagio economico della famiglia e per la morte del padre avvenuta nel 1731, Johnson si dedica a svariati lavori letterari fino al matrimonio con la vedova Elizabeth Porter, di venti anni più vecchia. Dopo il matrimonio, tenta di fondare una scuola: benché il progetto fallisca, Johnson riesce a conservare alcuni allievi, fra cui David Garrick, la cui carriera teatrale sarà legata a quella del suo precettore. Nel 1737 si trasferisce a Londra con la famiglia e con l’allievo in cerca di fortuna letteraria.
Johnson inizia la sua carriera letteraria scrivendo saggi critici di vario genere per “The Gentleman’s Magazine”, edita da Edward Cave, l’unica rivista a possedere allora un’ampia circolazione. Il suo primo scritto di una certa importanza è invece un poemetto, Londra, che viene pubblicato anonimo nel 1738. Nel componimento giovanile, di vena satirica, Johnson si ispira alla terza satira di Giovenale e dimostra un’estrema padronanza del distico eroico che conferisce ai suoi versi una forza e un’energia nuove rispetto ai componimenti poetici dell’epoca. In questo dimostra un’abilità paragonabile solo a quella di Pope, che pubblica in quei giorni le sue Epistole, ispirate alle Satire di Orazio. Nel 1749 pubblica, questa volta con il proprio nome, La vanità dei desideri umani, un poemetto ispirato alla decima satira di Giovenale, in cui Johnson utilizza artifici satirici e interrogazione retorica con rinnovato vigore, riuscendo a dare alla poesia moraleggiante del secondo Settecento un nuovo indirizzo.
Con una scelta di esempi della vanità dei desideri umani, nelle diverse epoche storiche e aree geografiche, l’autore mira a sottolineare l’universalità del suo discorso sull’uomo e l’illusorietà delle pulsioni umane. L’atmosfera morale che pervade il poemetto porta a riflettere sulle sventure cui grandi personaggi storici sono andati incontro perseguendo i propri desideri, e sottolinea come situazioni diverse sfocino in una medesima argomentazione generale che è quella della vanità umana in qualsiasi stadio di civiltà.
Nei suoi componimenti poetici Johnson intende quindi enunciare verità universali, satireggiando sulle debolezze umane da profondo conoscitore dell’animo umano. Le sue due maggiori opere poetiche tuttavia non sono tipiche della poesia satirica, poiché esulano dal pettegolezzo, politico o personale, che caratterizza tanti componimenti del secondo Settecento. Johnson scrive anche altre opere poetiche a carattere parodistico, anche se nessun’altra può commisurarsi alla sottigliezza di Londra e di La vanità dei desideri umani; merita un accenno invece la breve lirica Sulla morte del dottor Robert Levet, un componimento in semplici quartine di intenso effetto poetico, scritto per la morte dell’amico.
Pochi giorni dopo la pubblicazione di La vanità dei desideri umani, David Garrick mette in scena Irene, una tragedia scritta da Johnson molto tempo prima secondo le norme del teatro francese e costruita su dialoghi a sfondo morale tra Maometto, il suo seguito e alcuni prigionieri greci. L’opera non ha successo e viene sospesa dopo soli nove spettacoli. Johnson inizia allora la pubblicazione di una serie di brevi testi a carattere saggistico sulla morale, i costumi e la letteratura, stimolato dal successo di riviste del genere del “Tatler” e dello “Spectator”. Dal marzo del 1750 al marzo del 1752 Johnson pubblica “The Rambler”, 208 numeri bisettimanali (ogni martedì e sabato), interamente scritti da lui (salvo cinque numeri) e consistenti ciascuno in un saggio. Se il successo commerciale non è immediato, i saggi suscitano comunque un discreto interesse e vengono nuovamente pubblicati in raccolta, le cui successive edizioni vendono bene e consentono a Johnson di migliorare la propria situazione economica. Alla fine della pubblicazione del “Rambler” Johnson subisce la perdita della moglie, ma la sua attività di saggista e critico riprende con vigore nel 1758, quando inizia a scrivere una serie di saggi settimanali per “The Universal Chronicle”, intitolata The Idler (L’ozioso), e che continuerà fino all’aprile 1760.
Nella stesura dei vari saggi Johnson fa nuovamente uso di uno stile solenne e latineggiante per infondere forza alle sue dissertazioni, riguardanti soprattutto temi morali. La sua prosa resta però, a quanto ci dice il suo biografo Boswell, priva di quell’efficacia espressiva che caratterizza la sua conversazione.
Le argomentazioni dell’autore mancano di originalità e profondità, ma le sue osservazioni sull’arte, anche se di carattere generale, conservano un certo valore e i suggerimenti sulla condotta morale sono quasi sempre di ordine pratico e non meramente teorici. Johnson propone al lettore vere e proprie sentenze sulla vanità dei desideri umani la cui efficacia è consolidata dalla risentita incisività dello stile. Nei saggi scritti per la serie dell’Ozioso, Johnson adotta uno stile più leggero ma, nel complesso, essi appaiono ancora altamente elaborati.
Nel 1747 alcuni eminenti librai ed editori assegnano a Johnson, la cui fama si è già, almeno in parte, consolidata, il compito di redigere un Dizionario della lingua inglese. Johnson scrive così Il progetto per un dizionario della lingua inglese e lo dedica a Lord Chesterfield, noto per la sua cultura e le sue buone maniere, sperando in un suo contributo economico all’opera. Nonostante le ripetute richieste, l’aiuto tarda ad arrivare e quando viene offerto il Dizionario è ormai completato e gode già di un certo prestigio: Johnson non è più disposto a sottomettersi ai vincoli del mecenatismo, essendo già riuscito a dimostrare la possibilità per un letterato di guadagnarsi una propria indipendenza, e rifiuta il contributo economico.
Il Dizionario non è la prima opera di questo genere, ma è il primo che mira a stabilizzare la lingua inglese definendola e classificandola allo scopo di preservarne la purezza e di standardizzarne l’uso; Johnson è convinto che la lingua inglese si stia pericolosamente allontanando dalle sue originarie radici teutoniche per avvicinarsi al modello gallico. La prima edizione del Dizionario, cui faranno seguito molte altre, appare nel 1755 ma, nonostante i notevoli sforzi compiuti, Johnson non riesce a stabilizzare né a standardizzare la lingua inglese, probabilmente a causa di un’errata impostazione della ricerca che insiste sul lato etimologico e sul carattere teutonico della lingua quando l’autore non possiede gli strumenti filologici necessari per effettuare un lavoro approfondito in tal senso. Il Dizionario resta comunque un’opera di alto valore letterario, col suo bagaglio di citazioni erudite e col suo taglio classificatorio, incontrando anche il favore del pubblico dell’epoca.
Nel gennaio del 1759 Johnson scrive, in poco più di una settimana, un racconto filosofico, Rasselas, mosso dalla necessità di trovare denaro per coprire le spese del funerale della madre: nonostante egli abbia già raggiunto una discreta fama grazie al Dizionario, le sue preoccupazioni economiche non sono ancora cessate.
In questo caso Johnson si ispira alla forma, ormai assai diffusa, della novella orientale, affermatasi nel primo XVIII secolo grazie alla traduzione in lingua inglese delle Mille e una notte (Arabian Nights). Ma per Rasselas non si può parlare di romanzo poiché, al posto di una vicenda che volge a una determinata soluzione e con personaggi ben definiti, si è in presenza di un racconto che stimola il lettore a seguire le idee vagliate dai personaggi durante i loro dialoghi e a riflettervi. La cupa favola descrive Rasselas, principe di Abissinia che, con la sorella Nekayah, la cameriera di lei e il saggio Imlac, fugge dall’edenica vallata in cui i genitori li tengono lontani da ogni possibile male alla ricerca di una felicità che può essere raggiunta, ai loro occhi, solo in altri luoghi e con altre condizioni di vita. Questo viaggio che i quattro personaggi compiono attraverso il Paese li fa approdare a pessimistiche conclusioni: ogni tipo di vita umana genera insoddisfazione, noia e scontentezza; “la vita umana è dovunque una condizione in cui vi è molto da sopportare e poco da godere”. Spesso tramite Imlac, Johnson esplicita il proprio giudizio sulla condizione umana, utilizzando un tipo di prosa accentuatamente sentenziosa.
“Signore, disse il saggio, tu sei il primo a lamentare infelicità nella valle felice. Spero di convincerti che i tuoi lamenti non hanno alcun fondamento reale. Tu sei qui nel pieno possesso di tutto ciò che l’imperatore d’Abissinia può concedere; qui non è né fatica da sopportare né pericolo da temere, pure qui è tutto ciò che fatica e pericolo possono procurare o comprare. Guardati intorno e dimmi quale delle tue necessità non può essere soddisfatta: se non desideri nulla, in qual modo sei infelice?”.
“Nel nulla desiderare, disse il principe, o nel non sapere quel che desidero, è la causa del mio lamento; s’io avessi una riconosciuta necessità, avrei un certo desiderio; tale desiderio spronerebbe ad impegno, quindi non mi lamenterei di vedere il sole muoversi così lentamente verso la montagna che sorge a occidente, né mi lagnerei quando, al nascere del giorno, il sonno non mi nasconderà più a me stesso. Ogniqualvolta vedo capretti e agnelli rincorrersi l’un l’altro, immagino che sarei felice se avessi qualcosa da inseguire. Ma, possedendo tutto ciò che io posso desiderare, trovo giornate ed ore esattamente uguali l’una all’altra, eccetto che l’ultima è assai più noiosa di quella che l’ha preceduta. Fa’ che la tua esperienza mi dica come il giorno possa oggi sembrarmi breve quanto quello della mia fanciullezza, quando la natura era ancora intatta, e ogni momento mi rivelava quello che non avevo mai prima osservato. Ho già goduto troppo; dammi qualcosa da desiderare”.
Il vecchio si meravigliò di questa nuova sorta d’afflizione, e non sapeva cosa replicare, pure non volle tacere. “Signore, disse, se tu avessi visto le miserie del mondo, sapresti apprezzare la tua condizione presente”. Disse il principe: “Ora mi hai dato qualcosa da desiderare; bramo vedere le miserie del mondo, poiché la loro vista è necessaria alla felicità”.
S. Johnson, Rasselas principe d’Abissinia, a cura di G. Sertoli, G. Miglietta, Milano, Il Saggiatore, 1983
Samuel Johnson
Rasselas e il romito
Rasselas principe d’Abissinia
Rasselas si recava spesso a un’assemblea di sapienti, che a intervalli stabiliti si riunivano per distender l’animo e per confrontare le proprie opinioni. Uomini alquanto rudi, la loro conversazione era tuttavia istruttiva e le dispute brillanti, ancorché a volte troppo violente e spesso protratte fino al punto in cui nessuno dei contendenti ricordava il problema che le aveva accese. Alcuni difetti erano comuni quasi a tutti: ognuno voleva imporsi sugli altri, e ognuno gioiva di vedere umiliato il genio o il sapere dell’altro.
Stava un giorno Rasselas dicendo all’assemblea del suo incontro con il romito, e dello stupore che l’aveva colto nel sentirlo condannare un modo di vivere così pensatamente scelto e così encomiabilmente perseguito. I sentimenti degli ascoltatori erano molteplici. Alcuni opinavano che la sua folle scelta fosse stata giustamente punita con la condanna a perseveranza perpetua. Uno tra i più giovani dell’assemblea lo definì, con impeto, un ipocrita. Altri parlavano del diritto della società all’impegno del singolo, e consideravano la vita ritirata come un sottrarsi al proprio dovere. Altri ancora concedevano senza difficoltà che v’era il tempo in cui, pagato il debito tributo alle esigenze della collettività, un uomo poteva ben ritirarsi dal mondo, per riandare agli accadimenti della vita, per purificare il suo cuore.
Uno, che sembrava più di ogni altro interessato al racconto, pensava che di lì ad alcuni anni il romito sarebbe probabilmente tornato al suo ritiro e che, forse, se la vergogna non l’avesse frenato, o la morte impedito, lo avrebbe ancora una volta abbandonato per riandare nel mondo: “Poiché la speranza della felicità, egli disse, è così profondamente radicata, da non poter essere annientata neppure dalla più lunga esperienza. Dello stato presente, quale che sia, sentiamo, dobbiamo ammetterlo, la miseria; pure, se riguardiamo lo stesso stato a distanza, l’immaginazione ce lo raffigura allettante. Ma tempo verrà per certo in cui il desiderio cesserà di tormentarci, e nessuno sarà infelice se non per propria colpa”.
S. Johnson, Rasselas principe d’Abissinia, a cura di G. Sertoli, G. Miglietta, Milano, Il Saggiatore, 1983
L’interesse per Shakespeare si manifesta in diversi momenti della carriera letteraria di Johnson, fin dal 1745 egli pensa a un progetto per una nuova edizione delle opere shakespeariane.
Il progetto non trova immediata attuazione, nonostante la risposta positiva di diversi sottoscrittori, e nel 1756 Johnson rinnova l’appello pubblicando Proposte per la pubblicazione dei drammi di William Shakespeare, in cui espone dettagliatamente i suoi propositi di collazione delle copie più antiche dei testi shakespeariani al fine di ottenere una versione il più fedele possibile dal punto di vista filologico, fornita di tutte le varianti più significative.
L’edizione shakespeariana viene pubblicata per sottoscrizione, nel 1765, con grandi lamentele da parte dei sottoscrittori per l’enorme ritardo (il termine ultimo avrebbe dovuto essere il 1757). Si tratta comunque di un’edizione di valore, che viene ben presto annoverata fra i classici e che sta alla base di svariate edizioni successive. Il lavoro filologico di Johnson si rivela tuttavia approssimativo in quanto egli non crea un nuovo testo, ma si basa sostanzialmente sull’edizione del Warburton del 1747 e su pochi altri confronti. Ciò che dà valore a questa edizione shakespeariana e accresce la fama del dottor Johnson sono la Prefazione a Shakespeare e le note al testo.
Secondo Johnson la grande arte e la grande popolarità di Shakespeare sono dovute alla sua capacità di imitare la natura mostrando, tramite le sue opere, quelle passioni umane e quei principi che Johnson stesso reputa universali. Per la maggior parte le osservazioni di Johnson rientrano nel filone critico convenzionalmente accettato nel XVIII secolo: Shakespeare come poeta della natura e delle passioni, e come creatore di personaggi di grande forza e bellezza. Si dimostra però particolarmente interessante quella parte della prefazione nella quale Johnson controbatte alla tradizionale teoria dell’unità di luogo e di tempo dell’opera teatrale traendo argomenti dalle capacità immaginative dello spettatore. Johnson insiste inoltre sulle funzioni della letteratura che non solo deve essere neoclassicamente imitativa della natura, ma deve avere una funzione didattica (deve tendere cioè a istruire l’uomo sulla psicologia umana) e una funzione morale.
L’opera critica johnsoniana non si ferma all’edizione shakespeariana, ma dà i suoi risultati più maturi nelle prefazioni biografiche e critiche alle opere dei poeti inglesi (note sotto il nome di Vite dei poeti inglesi) pubblicate tra il 1779 e il 1781, in cui vengono studiati una cinquantina di poeti, la maggioranza dei quali appartiene a una tradizione letteraria molto vicina a Johnson e perciò a lui facilmente comprensibile e congeniale. Johnson si serve delle vite di Cowley, Milton, Dryden, Pope e Gray, solo per citarne alcuni, al fine di illustrare le proprie opinioni sulla poesia e sulla letteratura. Il metodo adottato consiste nel descrivere gli eventi della vita del poeta, quindi le sue capacità intellettuali e le sue doti morali, e infine il giudizio sulla sua poesia.
Con quest’opera Johnson dimostra ancora una volta il suo ingegno critico, che gli fa ottenere una pensione governativa nel 1762 e sfocia nella fondazione, nel 1764, del Literary Club cui partecipano Reynolds, Burke, Goldsmith, Garrick e Boswell.
Con quest’ultimo Johnson, all’età di 64 anni, compie un viaggio in Scozia e nelle isole Ebridi di cui entrambi gli autori danno un resoconto: Johnson con il suo Viaggio alle Ebridi, e Boswell con un Diario di un viaggio alle Ebridi.
L’affascinante personalità dell’autore permette all’amico e biografo Boswell di creare un vero e proprio personaggio, figura di erudito, sagace e amabile conversatore, nella sua Vita di Samuel Johnson (1791), opera che trascura la produzione critico-letteraria di Johnson per metterne in rilievo gli aspetti umani.