SAN BONIFACIO
(Sambonifacio). – Alla morte del conte di Verona e marchese Milone (955), i suoi discendenti – che avrebbero presto liquidato le proprietà ubicate nel Novarese, la zona di primo insediamento in Italia, e nel Parmense – erano già in possesso di tre castelli nel territorio della città ove si radicarono definitivamente, Verona: oltre a Begosso (sulla destra dell’Adige), in particolare S. Bonifacio e Ronco all’Adige, destinati a divenire la base del potere signorile della famiglia.
Il testamento di Milone prevedeva tra l’altro un importante legato perpetuo a vantaggio del monastero veneziano di S. Zaccaria, del quale il citato castello di Ronco fu il pegno, divenendo in tal modo l’ancoraggio identitario di uno dei rami dell’agnazione, che a partire dalla seconda metà dell’XI secolo (la prima attestazione è del 1083) fu denominato ‘da Ronco’. La designazione ‘da S. Bonifacio’ compare per la prima volta nel 1055.
Sino all’arrivo in Italia di Ottone I, resse inizialmente il comitato di Verona Egelrico, figlio di Manfredo conte di Lomello (fratello di Milone), e sostenitore di Berengario II e Adalberto, dal quale ottenne, nel 960-961, un diploma che ne consolidava la presenza patrimoniale nella parte orientale del comitato veronese verso il confine con il Vicentino (ove si trova S. Bonifacio). Perduta successivamente la carica comitale a vantaggio di Gandolfo (un fedele piacentino di Ottone I, capostipite di quella che sarebbe divenuta l’altra famiglia comitale veronese, i Gandolfingi/da Palazzo, Egelrico seppe restare a galla comparendo nel seguito di Ottone I (970); un suo figlio o nipote, pure Egelrico, fu attivo nel 996 e nel 1001, ed è detto marchio nel 1009.
Divennero tradizionali nell’agnazione i nomi di due dei suoi quattro figli, Oberto (Uberto) e Bonifacio I (forse attivo nel territorio bresciano nel 1020); gli altri furono il chierico Winigildo ed Egelrico/Enrico, verosimilmente affermatosi con Arduino d’Ivrea e poi emarginato a seguito della vittoria di Enrico II e dall’assunzione della carica comitale veronese di Tado e poi del gandolfingio Arduino.
Fu l’arrivo in Italia di Enrico III – in grado, in una città d’importanza strategica come Verona, di imporre ancora un avvicendamento nella carica comitale – a porre fine all’eclissi dei discendenti di Milone, designando Enrico, figlio di Egelrico/Enrico (1055).
Nei decenni successivi peraltro i San Bonifacio dovettero barcamenarsi in una situazione difficile, nella perdurante sostanziale evanescenza del potere imperiale (anche se a ogni comparsa di Enrico IV ed Enrico V a Verona e nella Marca chi tra di loro ricopriva la carica di conte compariva zelante al loro fianco, in placiti del 1082, 1085, 1090, 1095) e nel progressivo illanguidirsi dell’apparato pubblico del regno. Bonifacio II (di Uberto di Egelrico), conte di Verona nel 1073, celebrò a Illasi (non lontano dalla sua ‘base’ signorile di S. Bonifacio), fiancheggiato da cinque vassalli, l’ultimo placito noto di un conte veronese. Qualche anno prima – probabilmente negli anni Sessanta –, a testimonianza di un accorto riposizionamento, un conte Uberto II (figlio di un altro Uberto e di una gandolfingia, e nipote del conte del 1055) ottenne in beneficio dai Canossa (da tempo attivi nella parte sud-occidentale del territorio veronese) il castello di Cerea (Verona), probabilmente tra il 1058 e il 1063.
Fu peraltro un successo temporaneo: da Cerea i San Bonifacio furono abbastanza presto allontanati, privi com’erano in quell’area di basi fondiarie e di clientele militari. Matilde di Canossa preferì infatti appoggiarsi all’altra famiglia comitale veronese, quella dei da Palazzo, attiva nella parte meridionale nel territorio veronese verso il Po (Isola della Scala, nonché Nogara e Ostiglia, cruciali per il dominio ‘padano’ dei Canossa). Solo nel 1106 Alberto di San Bonifacio – figlio di Bonifacio III (conte nel 1095, e figlio di Uberto II conte nel 1055), che alla fine dell’XI secolo aveva addirittura combattuto con le truppe imperiali contro Matilde, assediando Nogara – si riconciliò con la contessa, arginando così le ambizioni dei da Palazzo, riottenendo anche il feudo di Cerea.
Dal 1106, Alberto svolse per un trentennio un ruolo politicamente decisivo nella storia della città di Verona. Si appoggiò opportunisticamente ai potenti di turno, schierandosi sino alla morte di Matilde (1115) con il partito riformatore per poi affiancare l’imperatore (1116 e 1118) e il duca di Carinzia (1123) in alcuni placiti veneti, e appoggiare nuovamente il Papato dopo il concordato di Worms, ma cercando accordi sottobanco a proposito dei beni matildici con Corrado, oppositore dell’imperatore Lotario, il quale nel 1132 non poté entrare in Verona, in occasione della sua prima discesa in Italia. Sostenuto dal vescovo riformatore Bernardo, detentore del castello di Cerea (che aveva rifiutato di restituire ai canonici della cattedrale), Alberto mantenne sino alla morte (1135) una posizione saldissima nella città, imparentandosi anche con la famiglia mercantile (e signorile) dei Crescenzi.
Le strette relazioni fra Alberto e Verona – in quegli anni protagonista di un notevole dinamismo politico-territoriale ed economico, destinato a sfociare nella progressiva affermazione del Comune – non furono estranee alla complessiva crescita dell’influenza veronese nel territorio a est del fiume Alpone, coincidente con l’area di radicamento signorile dei San Bonifacio, ove proprio in quei decenni fu fondata come forte segnale di autocoscienza familiare l’abbazia di S. Pietro di Villanova di S. Bonifacio, retta nella prima metà del secolo da un esponente della casata (un Uberto) e largamente beneficiata nel corso del XII secolo da papi e imperatori. Il profilo spiccatamente signorile che caratterizza i San Bonifacio in questa fase è attestato anche dalla comparsa di soprannomi allusivi a comportamenti violenti, come Maltoleto e Malregolato (analoghi ai vari Pelavicino, Cacciaconte, Cacciabate e simili).
La scomparsa di Alberto e la mancanza di un erede diretto e legittimo – la carica comitale fu tenuta tra il 1139 e il 1142 da Bosone, detto Malregolato, non appartenente al ramo del defunto – segnarono una svolta cruciale e per la storia dei San Bonifacio, e per la città. Il fatto che nel 1136 la prima comparsa dei consoli veronesi abbia coinciso con il compromesso che i San Bonifacio stipularono con il monastero veneziano di S. Zaccaria a proposito del castello e dei beni di Ronco all’Adige, in posizione strategica sul corso del fiume – che l’ente rivendicava a compenso dei censi previsti dal testamento di Milone, e non corrisposti – segnala una oggettiva convergenza di interessi. Ma anche per un altro castello importante come Cerea ai San Bonifacio fu presentato il conto, e in questo caso i consoli veronesi appoggiarono il capitolo della cattedrale, che aveva riottenuto il castello e vinse il giudizio. Anche il Comune di Bionde (non lontano da S. Bonifacio) vinse contro i conti, attorno al 1140 e poi nuovamente nel 1163, una causa per pascolo.
Nella seconda metà del XII secolo i rapporti fra la famiglia comitale (che risiedeva in città nel pieno centro urbano, nella ‘platea maior’ presso S. Salvar Corte Regia, non lontano da una delle porte delle mura romane) e l’élite consolare del Comune di Verona continuarono a essere complessi e non certo di frontale ostilità: rettori cittadini e consoli furono ad esempio tutori di Bonifacio, figlio del conte Malregolato, e costui nel 1169 fu podestà antimperiale (prima di morire ad Antiochia l’anno successivo), così come suo nipote Sauro nel 1180, 1182 e 1183 (prima di morire assassinato da un parente, nel castello di S. Bonifacio, nel 1189). Ma complessivamente gli interessi della famiglia comitale e della città non potevano non divergere, sul medio periodo, almeno da parte di una fetta consistente dell’élite cittadina – quella più attiva nel commercio e nell’economia di trasformazione –, rispetto a chi esercitava ancora funzioni pubbliche (il controllo sull’annona), godeva nel mercato cittadino di privilegi (peraltro in grado di conferire prestigio piuttosto che di assicurare introiti, come attesta il breve recti mercati del 1174, un’indagine svolta dal Comune), deteneva vassalli e giurisdizioni e aveva una posizione economica ancora solida nella parte orientale del territorio (come mostrano le analisi minute di storia locale, su Soave). Non sorprende dunque che negli ultimi anni del XII secolo siano cresciute le tensioni politiche e i San Bonifacio abbiano organizzato una loro pars che, dopo essere intervenuta nel 1196 a Vicenza e nel 1200 a Ferrara, comparve negli anni successivi anche a Verona. L’ostilità manifestata dal partito dei Montecchi in Verona e in S. Bonifacio indusse Bonifacio di Sauro e la pars Comitum (ora così denominata) ad allearsi con Azzo VI d’Este e a cacciare nel 1207 insieme con lui i Montecchi, schierandosi sul piano ‘internazionale’ con Federico II e contro Ottone IV, e alleandosi con Mantova. Il partito mantenne il potere in Verona sino al novembre del 1212, quando Bonifacio morì improvvisamente (così come Azzo VI), come ricorda un celebre planh del trovatore Aimeric de Peguilhan.
Suo figlio Rizzardo (nato verso il 1190), in età matura riconosciuto come «sapiens homo et strenuus miles et probus valde in armis et doctus ad bellum» (così Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, p. 751), fu il leader indiscusso della famiglia per il successivo quarantennio, segnato dalle lotte di fazione tra la pars Comitum e la pars Monticulorum e dall’affermazione, attraverso quest’ultima, di Ezzelino III da Romano in Verona e in tutta la Marca. Negli anni Dieci la situazione politica interna a Verona restò sostanzialmente in equilibrio, con alti e bassi ma con un limitato tasso di conflittualità armata fra le parti: comunque non sfavorevole ai San Bonifacio. Rizzardo fu podestà di Verona nel 1220, quando ottenne da Federico II un diploma imperiale di conferma degli antichi privilegi e intervenne in diversi contesti cittadini padani; consolidò la sua posizione nel 1222 con il matrimonio incrociato con i da Romano (lui sposò Cunizza ed Ezzelino III, fratello di costei, sposò Zilia di San Bonifacio). Ma i confusi eventi degli anni successivi (1224-27) modificarono la situazione ponendo fine alla sostanziale prevalenza del partito sambonifaciano.
Nel 1224 Rizzardo aveva fiancheggiato Azzo VII in un attacco alla Ferrara di Salinguerra Torelli; catturato ma presto liberato, divenne podestà di Mantova nel 1225. In sua assenza, un certo numero di esponenti della pars Comitum defezionò; la podesteria di Leone dalle Carceri (1225) e poi soprattutto quella di Ezzelino III (1226), avvicinatosi ai Monticoli, portarono all’espulsione della fazione successivamente a un tentativo di pacificazione (Nogara, maggio 1227) che sfociò nella temporanea affermazione di una comunancia popolare orientata a temperare i contrasti (1228-30).
A partire dagli anni Trenta il livello dello scontro progressivamente si innalzò; nel 1231 Rizzardo attaccò ad esempio il castello di Lonigo nel Vicentino, roccaforte ezzeliniana. Dopo la precaria pace di Paquara (1233), egli si trovò sempre più a mal partito in Verona, dove Ezzelino III e i Monticoli presero il potere. Nel 1237 fu nuovamente podestà di Mantova, e si riconciliò per breve tempo con Federico II, ma nel giugno 1239, al momento del massimo sforzo di Federico II per affermare la propria autorità nell’Italia settentrionale, fu bandito da Verona – con confisca dei beni, ovviamente –, così come i marchesi d’Este e l’intera pars.
Da allora in poi, per oltre due secoli, nessun esponente del ramo principale dei San Bonifacio rientrò più in Verona (salvo la brevissima parentesi della precaria riconciliazione susseguita alla sconfitta e alla morte di Ezzelino III).
Nel 1243 il castello di S. Bonifacio (già attaccato nel 1237), difeso probabilmente da Ludovico, il figlio di Rizzardo, fu distrutto dall’esercito veronese comandato da Ezzelino III, che nell’occasione trattò il nipote con molta «familiaritas et dilectio» (Rolandini patavini Cronica..., in RIS, VIII, 1, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1905-1908, p. 78). Per vent’anni circa la base politica dei San Bonifacio fu allora Mantova, della quale Rizzardo fu nuovamente podestà nel 1246; nel 1247 per primo, secondo Salimbene, soccorse i Parmensi ribelli a Federico II, ottenendo dal Comune il «palatium imperatoris, quod est in Arena, ad inhabitandum» (Cronica, cit., p. 280). Morì a Brescia, nel febbraio del 1252.
Fu allora la volta di Ludovico (nato forse nel 1224; figlio di Rizzardo e di Cunizza da Romano) ad assumere la leadership. Nel 1257 fu, con il marchese d’Este, capitano perpetuo del Popolo a Mantova; sconfitto Ezzelino III nel 1259, rientrò in Verona, ma ne fu cacciato nel 1260 e di nuovo forse nel 1263 (e forse ancora nel 1269 dopo un ulteriore brevissimo rientro). Negli anni Sessanta fu in primissima fila nel movimento guelfo, in stretto contatto con Obizzo d’Este, e partecipò alle leghe con i Della Torre e Carlo d’Angiò; ma quando, nel 1268, l’Estense tentò di ottenere la signoria su Mantova con l’appoggio dei Gaffari, Ludovico si appoggiò ai Bonacolsi e nel 1271 fu capitano del Popolo, per essere ben presto cacciato (1272) e definitivamente ridotto alla condizione di fuoruscito. Entrò peraltro nel ‘circuito guelfo’ delle podesterie padane, soggiornando per lo più in Emilia. Nel 1277 fu podestà a Piacenza, nel 1282 a Modena e nello stesso anno fu capitano dell’esercito della pars Ecclesie di Lombardia contro il marchese di Monferrato; nel secondo semestre del 1282 fu podestà di Reggio, ove nel 1283 risiedeva presso la chiesa francescana «in domo Bernardi de Gypso» (Salimbene, Cronica, cit., pp. 750 s.). Ivi sua figlia Mabilia («pulcherrima virgo» secondo Salimbene de Adam, ibid.; giunta da Lendinara in Polesine, una delle ‘basi’ dei fuorusciti guelfi veronesi) desponsata fuit a Salvino della Torre.
Di Ludovico, prototipo perfetto dell’aristocratico guelfo ricco di virtù morali e di coerenza politica, il frate cronista dà uno splendido ritratto. Ricorda (pp. 750-753) anche che dalla moglie (un’ignota «theotonica») oltre a Mabilia egli ebbe tre figli, «pulcherrimi pueri et curiales et docti, quorum primogenitus appellatur Vinciguerra». Ludovico morì in quell’anno in octava Pasche, affidando i suoi discendenti a Obizzo d’Este che «curialiter suscepit eos et tractavit ut filios», nonostante i precedenti contrasti con il conte (perché entrambi ambivano alla signoria su Mantova); restituì loro per l’occasione i beni dei San Bonifacio in Lendinara (nel Polesine). Fu sepolto nella chiesa francescana, nel pulcherrimum mausoleum costruito a spese del Comune di Reggio. Rammentando l’indefettibile fedeltà alla pars Ecclesie sua e dei suoi maggiori, Salimbene depreca che «comes vero Sancti Bonifatii, qui Veronae dominium habere debeat, vagabundus, ut vidi, ibat per mundum» (p. 534).
L’erede politico di Ludovico fu, appunto, il figlio maggiore Vinciguerra (nato negli anni Sessanta; aveva tra 16 e 25 anni nel 1285, quando vendette la sua quota del castello di Lendinara agli Estensi, menzionando nell’occasione anche i fratelli minori Bonifacio e Troilo). Decenni più tardi, dopo aver invano sperato in Enrico VII per un rientro in Verona nel 1310 – ma l’opposizione del (futuro) vicario imperiale Cangrande I fu drastica –, partecipò alle guerre tra Verona e Padova susseguite all’assoggettamento di Vicenza agli Scaligeri, sempre a capo di truppe padovane.
Nel 1312, intervenne in particolare (non a caso) nella porzione orientale del territorio veronese, area di antico radicamento signorile della sua casata; nel 1314, assediò Lonigo e custodì il castello di Monselice; nel 1317, attaccò Vicenza, ma fu sconfitto da Uguccione della Faggiola e, ferito, morì alcune settimane più tardi, trattato peraltro con molto onore da Cangrande I della Scala. Fu seppellito in S. Lorenzo a Vicenza.
I San Bonifacio delle successive generazioni – Vinciguerra I aveva sposato una Iacoba, ancora viva nel 1313, dalla quale ebbe anche una figlia, Iacobina, sposata al nobile bellunese Iacopo Avoscano (1324) – percorsero carriere certamente meno appariscenti, e tuttavia di qualche rilievo politico e militare; appartengono alla categoria dei tanti sradicati guelfi – aristocratici, milites, faccendieri politici – che, senz’arte (se non quella bellica) né parte, cercarono occasioni di affermazione e di prestigio attorno ai governi delle signorie trecentesche non meno che delle repubbliche.
Vinciguerra II (1290/1300-1348), figlio di Vinciguerra I, fu per due volte podestà di Siena; morì in carica nel 1348 e il Comune gli fece erigere a proprie spese un monumento pubblico. Dei suoi tre figli, Rizzardo, Manfredo e Bonifacio (ecclesiastico; a essi va aggiunto Sauro del fu Antonio), tutti destinatari di un diploma di Carlo IV (con inserto il diploma di Federico II), il più autorevole fu Rizzardo (1330-1394 circa), che si inserì in modo duraturo nell’entourage dei più stretti collaboratori di Francesco il Vecchio da Carrara signore di Padova, ricoprendo la podesteria di Monselice (1366) e soprattutto, per un lungo periodo (1375-82), quella di Padova.
Partecipò inoltre ai consigli ristretti del dominus (1372), combatté valorosamente nella ‘guerra dei confini’ tra Padova e Venezia (1372-73), nel corso della quale fu ferito, e svolse attività di diplomatico a Venezia (insieme con Bonifacio Lupi di Soragna, altro miles guelfo e legato ai da Carrara). Inoltre, quando Francesco Novello successe al padre Francesco il Vecchio (1388), fu ancora eletto podestà di Padova, e nuovamente per un biennio (1390-92) nell’ultimo periodo del dominio carrarese, con l’interruzione del confino nell’anno e mezzo del governo visconteo in Padova (1388-90). I San Bonifacio strinsero anche legami matrimoniali con casate locali, come i Negri.
Con Ludovico III (1370/1380-1463) – cittadino padovano, figlio, con Rizzardo e Margherita (sposata Buzzacarini), di Rizzardo e di Alisia Lambertini di Bologna – iniziò, per certi versi occasionalmente, un percorso di rientro dei San Bonifacio nel territorio veronese, nel nuovissimo quadro politico degli inizi del Quattrocento. Grazie infatti al matrimonio di costui (in seconde nozze) con Francesca da Fogliano, vedova del capitano visconteo Ottobono Terzi (protagonista delle vicende politiche e militari dell’Italia padana nel primo decennio del XV secolo dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402) e a quello di Malregolato suo figlio (1400-post 1458, quando fece testamento), che sposò Margherita figlia del Terzi, i San Bonifacio entrarono in possesso nel 1433 di due quote su tre del vasto possedimento fondiario ex scaligero ed ex visconteo di Villabartolomea, nella bassa pianura veronese.
Ludovico, che sarà commemorato in mortem da Ludovico Carbone, si era formato come uomo d’armi nella Padova di Francesco Novello da Carrara e combatté con lui (1402) e poi con Niccolò III d’Este (1408); ma verso il 1415 si ritirò a Lendinara, coltivò interessi letterari e artistici (era miniatore dilettante) e fu in relazione epistolare con Guarino Veronese, Gasparino Barzizza, Antonio Baratella e altri letterati, con giuristi (Gianfrancesco Capodilista, Antonio Roselli), patrizi veneti (Francesco Barbaro, Fantino Dandolo), patrizi veronesi e così via. Fu il primissimo, dunque, a mostrare un certo tipo di interessi culturali in una famiglia sino ad allora votata solo alle armi e alla politica; e va in direzione analoga il fatto che un suo fratello, Antonio (Guerra, o Vinciguerra, nel secolo), fosse francescano, custode della custodia di s. Antonio (1448) e theologiae professor (laurea conseguita a Ferrara nel 1458).
Alcuni figli di Ludovico III (Bernardo, Rizzardo) mantennero rapporti con gli Estensi. Ma la scelta del ritorno stabile a Verona – almeno di un ramo, quello dei discendenti di Malregolato di Ludovico III (il quale ultimo testò in Verona nel 1439 e 1445) – fu fatta propria da Giulio (1430-1494/1518), che compare nelle fonti fiscali cittadine a partire dagli anni Sessanta, e negli uffici pubblici nel 1477. La sua omologazione al patriziato veronese – essendo scomparsa ormai nella città dell’Adige qualsiasi parvenza di quelle lotte di fazione che in altre città lombarde e venete non erano spente – è provata dalla tranquilla menzione che ne fa Marino Sanudo nell’Itinerario per la Terraferma del 1483 (a proposito della località di S. Bonifacio egli annota «da la qual Julio conte et gli altri è nominà i Conti di S. Bonifacio», Itinerario per la Terrraferma, a cura di G.M. Varanini, Roma 2014, p. 354), dal fatto che a lui fu dedicata una composizione in laudem civitatis, e che nel 1494 venne eletto come rappresentante del Comune di Verona a Venezia per una vertenza con le comunità rurali del distretto.
In effetti nel momento drammatico seguito alla sconfitta di Agnadello, nel 1509, alcuni esponenti dei San Bonifacio furono favorevoli a Venezia. Si tratta di Alessandro che, nel 1511, con distici indirizzati a un patrizio veneto auspica che san Marco liberi Verona sua patria, e di Ludovico che nel 1509 militò nell’esercito veneziano (ai comandi di Antonio Pio di Carpi, del quale aveva sposato una figlia), e partecipò all’assedio di Padova (ove fu sepolto). Peraltro, come tutto il patriziato cittadino, in linea di massima la famiglia si schierò opportunisticamente con l’impero, negli anni del governo asburgico su Verona (1509-17).
Nel corso del Cinque-Seicento i San Bonifacio di Verona – distinti in tre o quattro fuochi residenti in diverse contrade, tutti di robusta caratura economica e fiscale in conseguenza della solida e talvolta dinamicamente gestita proprietà fondiaria – risultano saldamente presenti nelle istituzioni cittadine (accademie comprese) e nel consiglio civico, spesso con funzione di capo-muda (posizioni queste più spesso occupate dalle famiglie titolate – marchesi, conti ecc. – che non dalle ordinarie casate patrizie). Contemporaneamente, non mancarono orientamenti (specie nel ‘feudo’ di Villabartolomea, e specie nel Seicento) a uno stile di vita violento, tipico dell’aristocrazia italiana di età moderna. A Padova qualcuno raggiunse cariche ecclesiastiche di qualche importanza, come Marco Regolo arciprete del capitolo a fine Settecento.
Nell’Ottocento, la notorietà delle vicende medievali dei San Bonifacio fu rinnovata, nel quadro del revival romantico della figura di Ezzelino III da Romano, dalla scelta dei librettisti Antonio Piazza e Temistocle Solera di intitolare Oberto, conte di San Bonifacio un soggetto, scelto da Giuseppe Verdi per il suo primo melodramma (1839).
Fonti e Bibl.: Si omette la bibliografia precedente agli studi di Carlo Cipolla e Luigi Simeoni (Stefani, Baudi di Vesme ecc.), attenta soprattutto alle origini della famiglia, e i rinvii alle fonti narrative del XII e soprattutto del XIII secolo (Maurisio, Rolandino, Salimbene ecc.), cui si può risalire facilmente.
C. Cipolla, Note di storia veronese. X: diplomi in favore dei Sambonifacio, in Nuovo archivio veneto, n.s., 1900, vol. 20, pp. 131-153; F. Sartori, Cenni cronologici dei matrimoni di casa Sambonifacio dall’epoca di Berengario fino ai giorni nostri, Padova 1902; A. Segarizzi, Lodovico Sambonifacio e il suo epistolario, in Nuovo archivio veneto, s. II, 1910, vol. 20, pp. 69-114 (da cui si risale alle compilazioni di Andrea Gloria per i San Bonifacio a Padova nel secondo Trecento); L. Simeoni, Per la genealogia dei conti di S. Bonifacio e Ronco, ibid., 1913, vol. 13, pp. 302-323; Id., Lodovico di San Bonifacio e gli inizii della signoria scaligera, in Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, XCII (1932-1933), parte II, pp. 1389-1414; A. Castagnetti, Le due famiglie comitali veronesi: i San Bonifacio e i Gandolfingi/di Palazzo (secoli X-inizio XIII), in G. Cracco - A. Castagnetti - S. Collodo, Studi sul medioevo veneto, Torino 1980, pp. 49-53, 60-80, 85-93 (fondamentale sino agli inizi del XIII secolo); R. Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, Verona 1984, p. 186; P. Lanaro Sartori, Un’oligarchia urbana nel Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, Torino 1992, ad ind. (XVI secolo); G.M. Varanini, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, p. 415 (fedeltà a Venezia nel 1509 ss.); A. Nestori, Storia della famiglia comitale dei San Bonifacio, Vicenza 1995; F. Vecchiato, «Del quieto et pacifico vivere» turbato. Aspetti della società veronese durante la dominazione veneziana tra ’500 e ’700, in Verona e il suo territorio, V, 1, Verona 1995, ad ind. (per qualche cenno sul Seicento); A. Castagnetti, Le famiglie comitali della Marca Veronese (secoli X-XIII), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel Medioevo: marchesi, conti e visconti nel Regno Italico (secc. IX-XIII), II, Roma 1996, pp. 93-96, 98-100; B.G. Kohl, Padua under the Carrara, 1318-1405, Baltimore-London 1998, ad ind.; A. Castagnetti, Fra i vassalli: marchesi, conti, ‘capitanei’, cittadini e rurali, Verona 1999, pp. 39, 52, 81 s.; Id., Da Verona a Ravenna per Vicenza, Padova, Trento e Ferrara, in La vassallità maggiore del Regno Italico. I capitanei nei secoli XI-XII, a cura di A. Castagnetti, Roma 2001, ad ind.; P. Griguolo, Grammatici, notai e uomini di cultura nel Polesine tra XIV e XVI secolo: ricerche d’archivio, Venezia 2001, pp. 50-52 e ad ind.; V. Chilese, Una città nel Seicento veneto. Verona attraverso le fonti fiscali del 1653, Verona 2002, ad ind.; A. Castagnetti, La titolarità del comitato di Verona per il conte Egelrico (955-961) e l’incipiente dinastizzazione dell’ufficio da un documento del Mille, in Studi storici Luigi Simeoni, LIII (2003), pp. 16-41; I conti di San Bonifacio e l’abbazia di Villanova, a cura di I. De Marchi, Verona 2012.