SANCIA di Maiorca, regina di Sicilia-Napoli
SANCIA di Maiorca, regina di Sicilia-Napoli. – Nacque nel 1285/1286, forse a Montpellier, da Esclarmonda, figlia del conte Ruggero IV di Foix, e da Giacomo II, re di Maiorca. Era la quintogenita, tra maschi e femmine, della coppia (Clear, 2000, pp. XXI, 20).
Suo padre, cadetto della casa di Barcellona, aveva ricevuto dal genitore, Giacomo I d’Aragona (morto nel 1276), un dominio debole e frammentato, costituito quanto ai possessi principali dalle isole Baleari, dalle contee di Rossiglione e di Cerdagna e dalla signoria di Montpellier. Giacomo II fu in effetti vassallo del potente fratello Pietro III, re d’Aragona e Valencia nonché signore di fatto della Catalogna. L’occasione per tentare un’emancipazione da questa sudditanza fu, per Giacomo II, la guerra del Vespro (dal 1282) che permise a Pietro III d’insediarsi in Sicilia a spese di Carlo I d’Angiò re «di Sicilia» (cioè del Regno meridionale): il re di Maiorca inclinò verso la parte francese e angioino-papale, ma la sua opzione si rivelò disastrosa e, negli anni coincidenti con la nascita di Sancia, perse le Baleari (1285-87), che poté recuperare solo nel 1298-99 dopo alterne vicende (la pace di Anagni nel 1295 e l’adesione nel 1297 di Giacomo II d’Aragona alla coalizione angioino-papale contro il proprio fratello divenuto re della sola Sicilia). Giacomo II di Maiorca otteneva, infine, la ricompensa della sua fedeltà all’alleanza con gli Angioini, protettori e garanti dei suoi possedimenti; e tutto ciò fu sigillato dal doppio matrimonio del 1304 tra i figli di Giacomo II e di Carlo II d’Angiò, successore di Carlo I: Maria d’Angiò sposò Sancio, erede al trono di Maiorca, e Sancia sposò Roberto d’Angiò, erede (dal 1296) del trono di Napoli.
Diciottenne, Sancia – proveniente da una famiglia relativamente marginale – emergeva dunque alla luce in occasione della dispensa matrimoniale accordata il 9 maggio 1304 da Benedetto XI, dei successivi contratti nuziali siglati il 17 giugno a Perpignano e del matrimonio (agosto 1304), avvenuto a Napoli, la capitale del regno. In realtà si sa poco di lei ancora per un quinquennio, finché non divenne regina accanto al marito, divenuto, alla morte di Carlo II il 5 maggio 1309, re di uno degli Stati più potenti dell’Occidente (Gaglione, 2004, pp. 29-31).
In quegli anni, la monarchia di Sicilia-Napoli si andava riassestando dopo la lunga crisi seguita alla guerra del Vespro. Teneva saldamente in pugno il Mezzogiorno continentale e la Provenza, manteneva una Romània angioina, recuperava un dominio piemontese, ricominciava ancorché timidamente a farsi riconoscere come guida dei guelfi nell’Italia centrosettentrionale. Riprendeva così un certo vigore la missione del sovrano quale servitore della Chiesa, in accordo con il suo statuto di vassallo del papa per il regno e con il titolo di re di Gerusalemme (che pur privo di consistenza aumentava il suo prestigio).
La «rinascita» angioina raggiunse l’acme proprio con il lungo (quasi 34 anni) regno di Roberto, e a fronte di questa luminosa vicenda la figura di Sancia avrebbe potuto restare per sempre nell’ombra, anche per la posizione marginale che occupava nella famiglia del marito, essendo la seconda moglie.
Roberto aveva infatti sposato nel 1297 Violante, perché sorella del re d’Aragona, il nuovo alleato degli Angiò; da lei, morta nel 1302, il futuro re ebbe due figli maschi. L’uno, Ludovico, morì bambino nel 1310; ma Carlo, il primogenito, dal 1309 duca di Calabria ed erede, divenne presto il braccio destro del padre. Morì nel 1328, assai prima del padre, senza eredi maschi e lasciando soltanto due figlie, Giovanna (la maggiore) e Maria: Roberto le scelse nell’ordine per la sua successione, costituendo esse ormai la sua unica discendenza.
In realtà, dal matrimonio tra Sancia e Roberto nacque un figlio, chiamato anch’esso Roberto. Conosciuto unicamente da un’epigrafe scarsamente leggibile sul sepolcro del padre in S. Chiara a Napoli, morì infante e Sancia non ne ebbe altri, quanto meno che vivessero abbastanza per essere conosciuti (Clear, 2000, p. 39). La possibilità di essere la madre dell’erede al trono, che avrebbe potuto accrescere la sua influenza, le fu dunque negata.
A onta di questo destino a prima vista insignificante, Sancia ricoprì un ruolo importante nella vita degli Stati di Sicilia-Napoli, benché la storiografia l’abbia a lungo ignorato. La ricerca su di lei è stata infatti precoce e intensa, ma si è concentrata per molto tempo, tranne poche eccezioni, sulla sua religiosità, considerata per giunta una questione principalmente «privata» (Gaglione, 2008, pp. 931 s., e 2015). La pietà costituiva uno sbocco abituale, per una donna d’alto lignaggio emarginata dal potere: ma Sancia si meritò a questo riguardo un’attenzione speciale per la sua devozione straordinaria e per il suo fervore tutto francescano, già impostosi all’attenzione della cronistica minoritica del Trecento e poi degli Annales seicenteschi del francescano Lukas Wadding. Quella ricca documentazione ha nutrito la biografia della regina e la orienta a tutt’oggi (Chronica..., a cura dei Patres Collegii S. Bonaventurae, 1897; L. Wadding - J.M. Fonseca, Annales Minorum, a cura dell’Ordine francescano, 1931-19323). Le indagini hanno portato, a partire da fine Ottocento, all’accertamento dei suoi rapporti con il francescanesimo ribelle e a una sottolineatura insistente e crescente del suo sostegno accanito agli «spirituali» francescani e all’estremismo gioachimita ed escatologico (Musto, 1985; Bruzelius, 1995).
Il presunto fanatismo filospirituale della regina era in evidente contraddizione con gli obblighi di un regime strettamente legato alla Chiesa romana. Si è creduto di aggirare la difficoltà coinvolgendo nel giudizio lo stesso re Roberto, cui sono state attribuite le medesime inclinazioni della moglie, elaborando immagini – di lui quanto di lei – eccessive e inattendibili, che studi recenti hanno corretto. Si riconosce oggi che il re, la regina e la corte condividevano una devozione più varia e ponderata di quanto si ritenesse, che non contrastava con le necessità del governo. E anche per Sancia l’attivismo religioso s’inseriva in un processo politico nel senso pieno della parola, costituendo anzi il filo conduttore del suo comportamento (Paciocco, 1998; Gaglione, 2007, pp. 131-143).
Sancia ebbe in effetti due atouts politici importanti da giocare, sin dagli inizi del suo matrimonio. Il primo fu la concordia che lei incarnava – e della quale era simbolo e potenziale perno – fra la casa di Maiorca e gli Angiò, delusi dal rapporto con il re d’Aragona e sempre sotto tiro dell’aggregato siculo-catalano-aragonese (in effetti, l’espansionismo catalano nel Mediterraneo sarebbe cresciuto, spingendosi fino ai margini della Romània angioina [1311], e la fragile pace di Caltabellotta con l’isola di Sicilia [1302] sarebbe presto saltata, nel 1312). La seconda chance di Sancia era la sua stessa dote: provenendo da un’area economicamente prospera, poté versare 8000 marche d’argento del peso di Montpellier, una somma di denaro tutt’altro che irrilevante per una monarchia sempre assetata di risorse finanziarie. In applicazione agli accordi, il re assicurò alla moglie una controdote di 2000 marche e, come corrispettivo delle 10.000 marche in totale, un’adeguata pensione, garantita da beni fondiari che Sancia poté amministrare (contrariamente alla prassi corrente, secondo la quale dote e controdote erano gestite dal marito). Grazie a varie risorse, accrebbe il suo capitale anche con acquisti e in sostanza possedette nel regno un vero principato, ancorché con proprietà sparse (Clear, 2000, pp. 56, 278-280, 285-287, 292-295; Gaglione, 2004, pp. 30, 43-54).
Questa autonomia anche economica le diede un profilo di «regina», a tutto tondo. Si avvalse di una rete di agenti che ricalcava l’amministrazione monarchica delle periferie e al centro si appoggiò a una corte che a sua volta imitava in miniatura la corte regia, non senza l’importante novità dell’impiego di segretari. Certo ogni principe angioino aveva la sua corte e anche altri potentes adoperavano strutture amministrative, ma tra queste autorità intermedie Sancia propose un modello di raccordo tra signori e Corona che non escludeva una perfetta soggezione alla monarchia, della quale del resto era un componente (L. Wadding - J.M. Fonseca, Annales Minorum, cit., VII, pp. 645-651; Clear, 2000, pp. 74-79, 125, 274-277).
Sancia fu partecipe sin dall’inizio della regalità di Roberto: una piena integrazione che fu evidente dal momento dell’incoronazione e consacrazione a re di Sicilia, la domenica 3 agosto 1309, celebrate da Clemente V nella cattedrale di Avignone, adottando un cerimoniale preso in prestito dal rito imperiale. Nell’occasione la regina ricevette un trattamento eccezionale e, tra l’altro, fu unta e si comunicò sotto le due specie del pane e del vino come il marito (Boyer, 1997). E anche in seguito il suo ruolo fu magnificato sino alla sacralizzazione, visto che, ad esempio, comparve a Marsiglia, nel 1319 e nel 1320, sotto un proprio baldacchino a lato di quello del re. Nell’esercizio delle sue responsabilità, Sancia non si accontentò della denominazione di Ierusalem et Sicilie regina, ma premise a tale titolo l’espressione Dei gratia tipica dell’autorità regia; e si permise di decidere «in nome della nostra scienza certa» (de certa nostra scientia), applicando a sé il principio giuridico che affrancava il sovrano dal diritto positivo (B. Capasso, Gli archivi e gli studi..., 1885, pp. 21 s.).
Il suo primato, agevolato in modo inatteso dalla mancata prole, emerse anche nelle relazioni familiari. Sancia istituì una preminenza morale su Carlo di Calabria, dichiarandosi sua madre, e fece poi lo stesso per le due figlie di lui, Giovanna e Maria. La definizione dei rapporti con il figliastro facilitò una compartecipazione armoniosa al governo regale, prima che la sparizione di Carlo elevasse Sancia al colmo del potere presso un marito ormai privo di altro supporto ravvicinato.
Roberto si avvalse dell’aiuto della moglie per tutto il suo regno: aveva bisogno di autorità vicarie affidabili, in grado di impersonare la sua autorità, e Sancia possedeva quelle qualità, a cui aggiungeva le sue risorse ‘private’ di uomini e finanze, oltre alle sue capacità di operare e convincere che dimostrò concretamente. Non mancò di prestare denaro al marito; i suoi collaboratori completarono l’apparato «statale», a tal punto che un’osmosi si delineò tra gli ufficiali di corte del re e della regina. Alla fine, lei stessa si sovrappose in qualche misura al re, ne fu un «doppio»: è emblematico il fatto che, negli anni 1337-42, il siniscalco di Provenza riceveva indifferentemente prescrizioni di Roberto, di Sancia o di tutt’e due insieme. Gli esempi di quella «sostituibilità» non sono molti; ma gli interventi di Sancia furono nel complesso significativi (Gaglione, 2004; Boyer, 2017).
Tra i primi indizi della sua dimensione politica va annoverato il negoziato con il regno insulare di Sicilia portato avanti nel 1314 insieme con la suocera, Maria di Ungheria, vedova di Carlo II. Dalla logica stessa che aveva presieduto al suo matrimonio, Sancia era «vocata» a occuparsi dell’intreccio catalano-aragonese. Si prodigò pertanto per la sua nuova casata, sforzandosi in particolare di conservare l’amicizia dei membri del lignaggio maiorchino e di dissuaderli da un riavvicinamento al parentado di Sicilia o d’Aragona. Fino all’ultimo, nel 1345, sorresse lo stesso regno di Maiorca, che rovinò nel 1343-49 grossomodo in parallelo con il crepuscolo della vecchia regina e la decadenza angioina (Clear, 2000, pp. 93-111, 335, 339-351).
A partire dagli anni Venti, l’impegno di Sancia divenne sempre più evidente sia nella diplomazia (e non solo per lo spazio catalano-aragonese) sia nel governo interno. Nel 1325 lo stesso Carlo di Calabria, in procinto di attaccare militarmente la Sicilia, si fece sostituire come vicario del regno da un consiglio presieduto dalla matrigna. Più tardi (1338) ella condusse a buon fine un’importante riforma affidatale dal marito, riorganizzando il servizio della Summaria, che verificava i conti pubblici per preparare le sentenze dei maestri razionali (B. Capasso, Gli archivi e gli studi..., cit.). Tale riorganizzazione presupponeva una perizia di prim’ordine a proposito delle pratiche burocratiche, alla quale fu tutt’altro che estranea anche una preoccupazione di disciplina e di rettitudine, così com’era accaduto nel 1331 quando Roberto aveva associato la moglie nel controllo di una grande inchiesta demaniale da lui ordinata in Provenza, senza dubbio perché l’operazione includeva la salvezza delle anime degli usurpatori. Prospettive etiche intervenivano, più in generale, quando il re delegava a Sancia compiti in materia di giustizia. Del resto, come si vide già a Marsiglia nel 1319, i sudditi rivolgevano suppliche alla regina come mediatrice tra loro e il sovrano in nome, appunto, della giustizia e della clemenza.
Ordine ed equità nel governo; pace e giustizia nell’attività diplomatica: in breve Sancia riassumeva in modo convincente i valori morali e spirituali della Corona perché si sottoponeva meno del marito alle necessità della Realpolitik e perché dava l’esempio di una condotta guidata dall’insegnamento divino.
A questi comportamenti Sancia era certamente sollecitata dalla sua indole. Nel 1313 manifestò già il desiderio di ritirarsi fra le clarisse di S. Chiara di Napoli, nel caso in cui Roberto fosse morto. Il suo desiderio di perfezione si accentuò presto. Nel 1316-17, Giovanni XXII si oppose alla sua intenzione di vivere in castità, benché sposata, o addirittura di rinunciare al mondo. Ostentava comunque un atteggiamento pressoché monastico, con meditazioni, conversazioni e pratiche pie, e con un seguito di religiosi e di clarisse, ospitate a corte grazie alle concessioni pontificie, così come altri privilegi papali le permettevano di soggiornare in comunità di clarisse (Clear, 2000, pp. 38-40, 80, 296 s., 299, 319; Gaglione, 2004, pp. 31-35).
Questi orientamenti misticheggianti agivano in sinergia con la benevolenza sua e del re verso il francescanesimo ritenuto da loro autentico. La coppia supportò, dunque, le resistenze minoritiche a Giovanni XXII ed ebbe di sicuro qualche affinità con l’ambito pauperistico estremo e spirituale. Inoltre, Sancia si pronunciò in favore dei francescanesimi radicali con più risolutezza del marito, più vario nelle simpatie religiose.
Le testimonianze, riguardo alla regina, sono numerose. Un suo fratello, Filippo di Maiorca, si rifugiò a Napoli nel 1329 per vivere in combutta con fraticelli e seguaci. Apparteneva alla nebulosa degli spirituali il frate Roberto di Mileto, insediatosi dalla metà degli anni Trenta nell’intimità di Sancia. Ella o la sua cerchia insospettirono talora il Papato da Giovanni XXII a Clemente VI: per indebolire l’ascendente di Sancia su S. Chiara di Napoli, Giovanni XXII si attribuì nel 1333 la direzione del convento, delegandola al ministro provinciale dei francescani e quindi conferendo la supervisione al ministro generale Guiral Ot, suo fedelissimo in rotta con la coppia regale.
Tuttavia, la corrente spirituale era variegata, non sempre sovversiva, e quello che preoccupava davvero il Papato era l’orientamento ‘michelista’ della regina (ossia il suo appoggio al movimento francescano impersonato dal ministro generale Michele da Cesena, contrappostosi dal 1322 a Giovanni XXII nella difesa della povertà evangelica e delle peculiarità della regola e dell’ideale minoritici). Sul piano pratico, non c’era un confine netto tra le tendenze spiritualistiche e il ‘michelismo’, ma da parte di quest’ultimo la potenziale contestazione delle istituzioni ecclesiali era certamente meno sistematica. E infatti alla fin fine l’entourage di Sancia fu risparmiato, malgrado indagini e inchieste papali, ed ella stessa si mantenne in limiti che il Papato poté tollerare. Ricevette pertanto, con regolarità, il sostegno delle conferme e dei privilegi pontifici per sé stessa, per i suoi favoriti o per le sue opere pie, tranne che negli ultimi anni di Giovanni XXII. Le relazioni del pontefice con gli ambienti angioini si degradarono, in verità, per motivi diversi e non solo per la sola questione francescana; lo stesso Giovanni XXII era stato d’altronde agli inizi un protetto e poi un amico di Sancia (Gaglione, 2014, passim; Boyer, 2017).
A riprova della tolleranza delle istituzioni ecclesiastiche, la regina non dovette mai rinunciare a quello che possiamo definire un suo ‘apostolato’, neppure nel momento delle tensioni più forti con il Papato, attorno agli anni Trenta. Al contrario, pubblicò allora il cuore del suo pensiero in un messaggio di propria mano che destinò il 25 luglio 1332 ai frati minori radunati per l’indulgenza della Porziuncola (e non al capitolo generale del 1334 come sinora si riteneva). Inviò una sorta di opuscolo, in cui aveva trascritto tre altre lettere in precedenza da lei indirizzate ai francescani. Nel dossier, che aveva alla base un’intesa conclusa nel 1316 con i minoriti e con l’allora ministro generale (appunto Michele da Cesena), la regina difendeva la vocazione minoritica originale contro il suo addomesticamento da parte del Papato, e tuttavia però professava un ‘michelismo’ tanto sostenibile quanto compatibile con gli interessi della monarchia; illuminava anzi un sentimento diffuso nella corte e ne potenziava il valore politico e religioso.
Sancia sperava in un ausilio spirituale, ideologico e propagandistico dell’Ordine per lei, il marito e i domini angioini. Tale obiettivo sottintendeva l’efficacia della proposta francescana, frutto di una perfezione che la regina riconduceva al rispetto della regola del Poverello di Assisi, in quanto adesione a Cristo e al Vangelo, in un tono ossessivo che confermava la sua «fissazione michelista». Il filo del ragionamento culminava nella lettera del 1332, in particolare riguardo alla mission della monarchia angioina. I meriti trascendenti delle famiglie di Maiorca e d’Angiò trapelavano con evidenza da vari legami con il francescanesimo, che facevano di Roberto un secondo Salomone. Assicurata da quelle manifestazioni di una grazia soprannaturale, Sancia concludeva: «Credo risolutamente che Dio e san Francesco abbiano ordinato che il mio signore, lui che era il terzo fratello, fosse re» (Chronica..., cit., pp. 508-514; Boyer, 2017).
In effetti, il fascicolo di Sancia testimoniava decisamente l’autorevolezza da lei raggiunta nel regime angioino, inserendosi tra l’altro nel perdurante contrasto dinastico. Occorreva difendere, anche in quegli anni Trenta, la legittimità di re Roberto (pur ratificata dal Papato) e sottolineare la saggezza delle sue recenti decisioni sull’avvenire della Corona. Non va dimenticato infatti che i due fratelli maggiori di Roberto erano morti prima di Carlo II, però se s. Ludovico (francescano e vescovo) aveva comunque rinunciato all’eredità, il primogenito Carlo Martello aveva lasciato un figlio, Caroberto, privato del trono di Napoli e divenuto ‘soltanto’ re d’Ungheria. La nomina di Giovanna come erede universale da parte di Roberto (1330) aveva rilanciato i contrasti successori. Erano sorte pretese o delusioni dei rami cadetti degli Angiò di Napoli, Taranto e Durazzo, e si erano ridestate le proteste della propaggine ungherese. Con quest’ultima si elaborò proprio nel 1332 un accordo, che si sarebbe concluso l’anno successivo con il fidanzamento di Giovanna e di Andrea, figlio cadetto di Caroberto. E Sancia non mancò di partecipare alla conciliazione (Léonard, 1932, I, pp. 109-192).
Il suo prestigio crescente si sostanziava, in qualche modo, nella marea montante di opere buone, particolarmente intense negli stessi anni Trenta, anche se lei aveva convalidato il proprio credito morale lungo tutto l’arco della sua «carriera» di regina. Sin dagli inizi aveva protetto soprattutto le clarisse (una religio conforme alla sua pietà e modestia di donna). Si prodigò, tra l’altro, in grandi iniziative, di cui in primis la fondazione (1310-12) a Napoli di S. Chiara (in realtà dedicata al Corpo di Cristo, in omaggio alla sua devozione eucaristica), un convento che non dimenticò più finché visse, o quasi. Si aggiunsero S. Chiara a Aix-en-Provence (dal 1337 circa) e ancora a Napoli S. Croce di Palazzo (dal 1338 circa), ove la regina chiamò religiose di Assisi, a sigillo di un itinerario di ricerca della regola più pura di s. Chiara e della fedeltà più rigorosa a s. Francesco e alla sua imitatio Christi. I tre monasteri furono di conseguenza fiancheggiati da comunità di minoriti, al punto che S. Chiara di Napoli fu un vero doppio convento. Né si trattò delle sole iniziative a favore del francescanesimo.
Sancia sottomise ancora all’autorità dei frati minori, benché fossero sotto la regola di s. Agostino, le comunità di S. Maria Maddalena e S. Maria Egiziaca, che costituì a Napoli per le penitenti (rispettivamente a partire dal 1324 e dal 1335). Negli anni Trenta, Sancia e Roberto ottennero dal sultano d’Egitto di stabilire la presenza dei francescani in Terra Santa con il convento di monte Sion. La regina lo finanziò e la coppia ne ricevette il patronato da Clemente VI nel 1342.
Insomma, attraverso le istituzioni femminili Sancia rendeva più facile ed efficace una penetrazione nell’intero apparato francescano, che conduceva di concerto con il marito allo scopo di garantire il loro influsso comune. D’altronde, queste iniziative religiose avevano esse stesse una valenza politica, tanto più in quanto il re fiancheggiava solitamente, a tal proposito, la regina. Esemplare è il caso di S. Chiara, che fu un ‘affare’ della coppia regale e che divenne presto, a riprova, la necropoli del ramo angioino di Roberto. Il regime esercitava una vera e propria tutela su diverse chiese (non solo francescane), a cui Sancia partecipò senza neppure limitarsi alla sfera minoritica. Forte anche di questo modello interventista si arrogò un «quasi dispotismo» sui conventi da lei creati o protetti, compresi, oltre quelli femminili, quelli dei frati francescani. In altre parole, diffuse i suoi ideali e, nello stesso tempo, impose il servizio morale e spirituale nei confronti della dinastia e della Corona. Ciò comportò in talune occasioni degli importanti strappi al rigorismo che propugnava per i frati minori e per le clarisse, allo scopo di garantire il successo persino mondano del suo operato (Gaglione, 2014; Andenna, 2015).
Esemplarità e dirigismo religiosi della regina erano funzionali a un’adesione globale dei sudditi alla monarchia: questo era l’obiettivo di fondo cui il regime aspirava attraverso il suo ascendente nel dominio spirituale. Vigilando, per esempio, sul reclutamento delle clarisse, Sancia comandò che le suore di S. Chiara di Napoli venissero da tutto il regno. I suoi impegni e la sua personalità convincevano ancora la gente a invocare il suo soccorso anche negli affari religiosi, persino dinanzi al Papato. La sua spiritualità trovava anzitutto una risonanza nelle aristocrazie: lo prova la sua amicizia con la famosa beata provenzale Delfina di Puimichel (Andenna, 2010; Boyer, 2017).
Tutto questo complesso, inestricabile intreccio di dimensione religiosa e di dimensione politica, trovò la sua sublimazione nel testamento di re Roberto, rogato il 16 gennaio 1343: fu l’apice del prestigio e dello spessore governativo della regina. Il re conferì a Sancia la direzione del consiglio che era incaricato dell’esecuzione delle sue ultime volontà, nonché della reggenza e della tutela di Giovanna, la futura giovanissima sovrana, del suo prossimo marito Andrea di Ungheria, e della sorella Maria. Già morto il 20 gennaio, il re lasciò dunque a Sancia un compito estremamente complesso e delicato.
Innanzitutto, la vedova seppe bene interpretare il significato delle (anche troppo abbondanti) disposizioni pie previste nel testamento, sovraintendendo alla salvezza dello scomparso e dei re di Sicilia, alla protezione divina della dinastia e alla sua immagine pubblica. Diede l’avvio al gigantesco sepolcro di Roberto, ancor oggi visibile in S. Chiara di Napoli, per ricordarne la maestà e la sapienza in rapporto con le sue devozioni e umiltà francescane. Dal versante delle fonti provenzali giunge la conferma del fatto che Sancia organizzò nell’occasione una densa rete di preghiere di suffragio in cattedrali e comunità religiose. Mobilitò sistematicamente i mendicanti – i francescani ma anche i domenicani, gli agostiniani e i carmelitani – provando un’ultima volta che non c’era alcun esclusivismo nella sua fede né tantomeno alcun orientamento ereticale (Boyer, 2015-2016).
La fiducia che ispirava contribuì senza dubbio al tacito consenso di Clemente VI a una reggenza che privava la Chiesa della cura – che le competeva come signore feudale – del regno e di Giovanna I durante la sua minorità. Tuttavia, Sancia vide fallire le sue speranze di proseguire le direttrici politiche del marito, e dissidi interni turbarono il suo governo.
Al malumore degli Angiò di Taranto, privati delle loro speranze sull’eredità del re, si aggiunsero le recriminazioni di Andrea d’Ungheria e dei suoi sostenitori. Sposato con la nuova regina, Andrea era, tuttavia, solo un principe consorte, secondo il volere di Roberto. Sancia si appoggiò ai Durazzo, che all’epoca non avevano, per sua fortuna, diritti sulla successione del defunto re. Si dovette così rassegnare al matrimonio (21 aprile 1343) di Maria, sorella di Giovanna, con Carlo di Durazzo. L’unione, in contrasto con il testamento di Roberto, accresceva il prestigio del giovane principe, facendogli persino intravvedere una prospettiva di regno. Insomma, la monarchia angioina cominciava a periclitare, e il papa predispose nell’autunno 1343 l’invio di un cardinale, Aimeric de Châtelus, in veste di curatore del regno.
In quel contesto e in ossequio a una volontà manifestata in precedenza, Sancia si ritirò il 21 gennaio 1344, appena scontato il lutto vedovile, nel «suo» convento di S. Croce di Napoli, per divenire clarissa. Ottenne, è vero, dei privilegi che le consentirono di non rinunciare del tutto a un ruolo esterno, per lo meno al servizio delle sue opere pie; tuttavia, morì, il 28 luglio 1345, come «suor Chiara», nonché come «esempio di umiltà», secondo quanto recitava il suo epitaffio (Léonard, 1932, I, pp. 193-335; Gaglione, 2008, pp. 932-936, 971 s., 979 s.).
Una dimensione pubblica di Sancia si prolungò nondimeno oltre la sua morte, come apparve l’11 giugno 1352 con la traslazione solenne, in S. Croce, del suo corpo in una tomba definitiva, il cui sarcofago (del quale si conservano disegni antichi) esaltava sia la regina in maestà sia la religiosa che disprezza la corona terrestre, secondo una tematica vicina a quella del mausoleo di Roberto. In tale occasione Giovanna I scrisse a Clemente VI che il cadavere era stato trovato quasi intatto e senza fetore, considerando tali circostanze come indizi sicuri della santità di Sancia. Era un tentativo di aprire una procedura di canonizzazione, opportuna per motivi tanto politici quanto religiosi in un momento nel quale il regime necessitava di supporto ideologico.
Una santificazione ufficiale non si poté, tuttavia, attuare. Avrebbe comportato, da parte del papa, l’approvazione di tutto il regno di Roberto, attraverso la figura di Sancia; inoltre, la pietà di quest’ultima lasciava pur sempre qualche perplessità. D’altra parte il regime angioino precipitò nella sua crisi e non apportò alla causa il sostegno che sarebbe stato necessario. I minoriti coltivarono, tuttavia, in piena epoca moderna, la memoria di Sancia come beata ufficiosa del secondo ordine francescano e, dunque, consolidarono quella sua reputazione di donna pia e religiosa che avrebbe riscosso un lungo successo nella storiografia (Aceto, 2000; Clear, 2000, pp. 53 s., 303).
Fonti e Bibl.: B. Capasso, Gli archivi e gli studi paleografici e diplomatici nelle province napoletane fino al 1818, Napoli 1885, pp. 20-24; Chronica XXIV Generalium Ordinis Minorum, a cura dei Patres Collegii S. Bonaventurae, Quaracchi 1897, pp. 483, 508-514, 539 s., 567; L. Wadding - J. M. Fonseca, Annales Minorum, a cura dell’Ordine francescano, VI-VII, Quaracchi 1931-19323, ad indicem.
É.-G. Léonard, La jeunesse de Jeanne Ire, I-II, Monaco-Paris 1932, ad ind.; R.G. Musto, Queen Sancia of Naples (1286-1345) and the spiritual Franciscans, in Women of the medieval world, a cura di J. Kirshner - S.-F. Wemple, Oxford-New York 1985, pp. 179-214; C. Bruzelius, Queen Sancia of Mallorca and the convent church of Sta. Chiara in Naples, in Memoirs of the American academy in Rome, XL (1995), pp. 69-100; J.-P. Boyer, Sacre et théocratie. Les cas des rois de Sicile Charles II (1289) et Robert (1309), in Revue des sciences philosophiques et théologiques, LXXXI (1997), pp. 561-607 (in partic. pp. 565-568, 570 s., 602); R. Paciocco, Angioini e «Spirituali». I differenti piani cronologici e tematici di un problema, in L’État angevin, Roma 1998, pp. 253-287 (in partic. pp. 253, 255, 265 s., 271, 273-287); F. Aceto, Un’opera ‛ritrovata’ di Pacio Bertini: il sepolcro di Sancia di Maiorca in Santa Croce a Napoli e la questione dell’«usus pauper», in Prospettiva, C (2000), pp. 27-35; M.J. Clear, Piety and Patronage in the Mediterranean: Sancia of Majorca (1286-1345), Queen of Sicily, Provence and Jerusalem, PhD dattiloscritto, University of Sussex 2000; M. Gaglione, S. d’Aragona-Majorca. Da regina di Sicilia e Gerusalemme a monaca di Santa Croce, in Archivio per la storia delle donne, I (2004), pp. 27-54; Id., La Basilica ed il monastero doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, ibid., IV (2007), pp. 127-209; Id., S. d’Aragona-Maiorca tra impegno di governo e «attivismo» francescano, in Studi storici, IV (2008), pp. 931-985; C. Andenna, Secundum regulam datam sororibus ordinis Sancti Damiani. Sancia e Aquilina: due esperimenti di ritorno alle origini alla corte di Napoli nel XIV secolo, in Vita regularis, XLIV (2010), pp. 143-185; M. Gaglione, Dai primordi del francescanesimo femminile a Napoli fino agli statuti per il monastero di S. Chiara, in La chiesa e il convento di Santa Chiara, a cura di F. Aceto - S. D’Ovidio - E. Scirocco, Battipaglia 2014, pp. 27-128; C. Andenna, «Francescanesimo di corte» e santità francescana a corte, in Monasticum regnum. Religione e politica nelle pratiche di legittimazione e di governo tra Medioevo ed Età moderna, a cura di G. Andenna - L. Gaffuri - E. Filippini, Berlino 2015, pp. 139-180; M. Gaglione, Sancia d’Aragona Maiorca in una pagina di Heinrich Finke (1855-1938), Napoli 2015, https://www. academia.edu/19540125/Sancia_d_Aragona-Maiorca_ in_una_pagina_di_Heinrich_Finke_1855-1938_ (13 maggio 2017); J.-P. Boyer, Faire mémoire du roi. Le testament de Robert et son application en Provence, in Memini, XIX-XX (2015-2016), pp. 259-295 (in partic. pp. 261 s., 264 s., 267-269, 277 s., 287-291, 293-295); Id., Sancia par la grâce de Dieu reine de Jérusalem et de Sicile, in Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge, CXXIX (2017), 2, in corso di stampa.