SANDOVAL DE CASTRO, Diego
SANDOVAL DE CASTRO, Diego. – Nacque probabilmente nel secondo decennio del XVI secolo (nel 1516 secondo Rusciani, 1960, p. 287), figlio unico di Pedro e di Giovanna Bisbal, i quali stipularono i capitoli matrimoniali in data 16 aprile 1515.
Da alcuni documenti redatti dal notaio cosentino Angelo Desideri risulta che, dopo la morte dei genitori, Sandoval ebbe come tutrice la nonna materna, Caterina Saracina, vedova di Francesco Bisbal, signore della terra di Briatico e Calimera in Calabria. Nel 1532 Diego era «Reggio Castellano del Regio Castello della Città di Cosenza», come si rileva da un atto notarile rogato in data 9 aprile; ricoprì tale ufficio almeno fino al 13 luglio 1540, quando Pedro Ortes, «Regio Vice Castellano del Castello di Cosenza» (Rusciani, 1960, pp. 150 s.), procedette per suo ordine all’inventario di tutti i beni del castello. Nel 1534, terminata la tutela della nonna, acquistò in contanti il feudo di Campana con relativi diritti e giurisdizioni feudali, per la cifra di 5000 ducati.
Un altro Diego Sandoval aveva in passato tentato l’ascesa al Parnaso, come rivela la sua partecipazione al Cancionero de Estúñiga (cfr. Croce, 1941, p. 48): di tale Diego, conte di Castro, fu discendente Pedro, padre del Nostro, il quale ottenne nel 1505 l’investitura della terra di Bollita (oggi Nova Siri), passata poi in eredità al figlio Diego insieme alla castellania di Cosenza. Nei versi indirizzati a Sandoval de Castro da Dionigi Atanagi, che allude all’ammirazione di Antonio Telesio (morto tra il 1533 e il 1534) nei confronti del castellano cosentino, quest’ultimo viene lodato tanto per «il degno governo» dei territori amministrati quanto per le «rime novelle» elargite dalla sua musa (Carducci, 1881, p. 173; Croce, 1947, pp. 304 s.), un campione delle quali (costituito da un’epistola in distici indirizzata «Ad Apollo») si legge nei Versi et regole de la nuova poesia toscana (Roma 1539, cc. K2v-K3v) e attesta la partecipazione di don Diego all’Accademia della Nuova poesia, riunita a Roma intorno a Claudio Tolomei.
Sandoval, «di nobile stirpe, ricco, di bella presenza, valente nelle armi e nelle lettere» (Croce, 1947, p. 306), si rivelò presumibilmente poco incline al rispetto delle leggi, dal momento che nel 1543 risultava condannato in contumacia dalla Gran Corte della Vicaria di Napoli ed espropriato del feudo di Cosenza. Dovette tuttavia abbandonare il Regno di Napoli prima ancora che la sentenza fosse pronunciata, in quanto si trovò a trascorrere parte dell’anno 1542 a Roma, dove nel maggio fece stampare (per Valerio Dorico et Loigi fratelli) le sue Rime, in cui si duole, tra l’altro, per il proprio mesto esilio sulle rive del Tevere.
Poche informazioni si hanno circa il suo soggiorno fiorentino e la sua partecipazione all’Accademia degli Umidi (poi Fiorentina), notizia trasmessa da una nota di Carlo Verzone alle Rime burlesche del Lasca: in un sonetto caudato composto «in nome di messer Goro de Pieve», lo speziale fiorentino scaglia i propri strali contro don Diego, recatosi sulle rive dell’Arno con aspirazioni di fama poetica «senza saper punto di lingua e di stile»; giudizio sul quale, secondo Benedetto Croce (p. 308), avrebbe pesato «l’ideale antibembesco e antipetrarchesco» del burlesco verseggiatore. Un documento degli Annali dell’Accademia degli Umidi, poi Fiorentina, pubblicato da Erasmo Pèrcopo nel 1926, riferisce il decreto di ammissione di Sandoval al sodalizio, in data 18 maggio 1544, in compagnia, tra gli altri, di Luigi Tansillo; non si può escludere che Diego avesse conservato rapporti di familiarità con la cerchia del viceré Pedro de Toledo, «se è vero che, dopo il matrimonio di Eleonora de Toledo con Cosimo de’ Medici (1539) i rapporti tra Napoli e Firenze dovevano sottostare a una qualche forma di preventivo imprimatur» (Introduzione, in Toscano, 2007, p. 21). Una certa consuetudine con gli ambienti letterari fiorentini, d’altra parte, è confermata dalla lettura di due sonetti di Sandoval de Castro indirizzati a Benedetto Varchi, nei confronti del quale il poeta fa emergere sentimenti di autentica stima e amicizia.
I nomi di Sandoval e Tansillo, peraltro, sono associati anche per due vistosi errori d’attribuzione: i testi in questione, entrambi stampati tra le Rime del 1542 (XXVII e XLVIII), sono la canzone Alma reale e di maggiore impero, assegnata a Tansillo a partire dal 1553, anno della stampa veneziana del Sesto libro delle Rime di diversi eccellenti autori, e il sonetto sulla gelosia Quel continuo timor, quel rio sospetto, trasmesso dal ms. XIII.H.49 della Biblioteca nazionale di Napoli e pubblicato come inedito tansilliano da Vincenzo Laurenza (Il canzoniere di Luigi Tansillo, in Malta letteraria, V [1908], p. 165). Tali equivoci, tuttavia, hanno suggerito l’opportunità di allacciare le due esperienze poetiche e leggerle in parallelo, rivelando, di là dalla simultanea iscrizione all’Accademia Fiorentina, elementi di contiguità stilistica e tematica che denotano una non rapsodica frequentazione dei testi altrui.
Considerando che nel 1541 Sandoval aveva preso parte alla disastrosa campagna di Carlo V contro Algeri, è presumibile che le sue sventure giudiziarie abbiano avuto inizio tra la fine del 1541 e i primi mesi del 1542; la silloge delle sue Rime si chiude con la citata canzone Alma reale e di maggior impero, indirizzata «A L’Imperadore» per esortarlo a perseverare nella guerra contro gli infedeli («A’ piè t’inchina e di’ che gli smarriti / servi del buon Giesú senza riparo / pregan che gli sia caro / tôrre al fero Ottoman la santa terra», vv. 102-105) e forse, rammentando la propria presenza ad Algeri, nella speranza che il sovrano intervenisse in suo soccorso. E due documenti dell’Archivio general de Simancas del maggio 1543 rivelano come l’imperatore avesse concesso a Sandoval de Castro quattro mesi per discolparsi davanti ai giudici, facoltà che il poeta non esercitò, dal momento che nel 1546 risultava dimorante in Benevento «bannito et contumace» (cfr. Croce, 1947, pp. 309 s.).
Da questa città Sandoval si sarebbe più volte furtivamente recato in visita alla moglie Antonia Caracciolo nel feudo di Bollita, località non distante da Favale (l’attuale Valsinni), residenza della giovane Isabella di Morra. È possibile che costei intrattenesse con Antonia un rapporto di amicizia e che, tramite questa relazione, la giovane poetessa avesse conosciuto l’audace don Diego; questi, secondo il racconto di Marco Antonio Morra (1629, pp. 82 s.), «nomine [...] uxoris» e servendosi della mediazione di un pedagogo, fece pervenire a Isabella «literas com rithmis», intraprendendo con lei una corrispondenza di natura poetica e verosimilmente sentimentale, circostanza confermata anche nella deposizione resa dalla vedova Sandoval ad Alonso Basurto, governatore della provincia di Basilicata (Introduzione a D. Sandoval de Castro, Rime, a cura di T.R. Toscano, 2007, pp. 53 s.).
Se nessun riferimento si scorge tra le rime di Isabella all’amore per Diego o al rapporto con Antonia Caracciolo, nei versi della poetessa affiorano indizi di un intimo conflitto cagionato dalla strenua volontà di contrastare una veemente passione terrena, come si evince dallo studio di alcune varianti della canzone Signor, che insino a qui, tua gran mercede (p. 56-58).
Fatto sta che lettere e sonetti caddero nelle mani dei fratelli di Isabella, i quali (indotti da ragioni d’onore e magari da ostilità politica, data la manifesta posizione filofrancese espressa dalla poetessa), tra la fine del 1545 e l’inizio dell’anno successivo, uccisero la sorella e il precettore.
Successivamente, tra il settembre e l’ottobre dello stesso anno, nei pressi di Noja (l’odierna Noepoli), gli stessi Cesare, Fabio e Decio Morra tesero un agguato a don Diego e lo assassinarono con tre archibugiate.
Le «eleganti e tersissime» Rime di Sandoval, pubblicate con le cure di Girolamo Scola da Faenza (presente a Napoli nel 1538 e successivamente nel novembre 1546, quando risulta affiliato all’Accademia dei Sereni; cfr. Toscano, 2000, p. 321), emergono sullo sfondo di un petrarchismo meridionale caratterizzato nella prima metà del secolo dalla vistosa latitanza di proposte editoriali autonome e di architetture testuali in qualche maniera riconducibili alla tipologia del ‘canzoniere’. Il libro è composto da 48 testi (dei quali soltanto in un caso, il sonetto XXXV, è possibile identificare il destinatario nella persona del già menzionato Girolamo Scola), considerando a parte la sezione finale composta da 95 stanze in ottava rima, distribuiti in 43 sonetti, una serie di 2 ottave liriche, 1 canzone, 2 stanze isolate di canzone e 1 ballata. L’esile silloge tradisce comunque uno studiato allestimento d’autore: è possibile isolare due sezioni, di cui la prima (I-XXXIX) si conclude con l’invocazione della morte come definitivo affrancamento dalle pene d’amore; la seconda (XL-XLIV) veicola un gruppo di 4 sonetti di pentimento, seguito da un testo in cui traspare una nuova resa ad Amore.
Il poeta ripercorre un itinerario erotico travagliato e di breve durata, la cui estensione cronologica è affidata a un unico esplicito segnale («Son vicino al terz’anno, in aspettando / un giorno che giamai per me non viene», XXX, vv. 5-6), che obbliga a racchiudere lo svolgimento di tale vicenda nel triennio 1439-41. La pratica versificatoria di Sandoval, anticipando la fase meridionale di adesione libera e consapevole al modello bembiano, rivela, in testi di pregevole fattura epigrammatica, una precoce e istintuale propensione ad assecondare le sperimentazioni in ambiente napoletano sulla tecnica del sonetto, nella direzione di un’argumentatio lirica proiettata verso la sententia.
Opere. L’edizione critica delle Rime di Diego Sandoval de Castro, parallela a quella delle Rime di Isabella Morra, è a cura di Tobia Raffaele Toscano, Roma 2007 (le liriche di Sandoval si leggono alle pp. 61-141).
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