Sangue
Basi molecolari della leucemia, di Lucio Luzzatto
Trapianto del midollo, di Bruno Rotoli
Basi molecolari della leucemia
SOMMARIO: 1. Introduzione: a) definizione e generalità; b) cellule staminali e meccanismi di controllo nel tessuto emopoietico normale; c) il differenziamento delle cellule del sangue; d) l'origine delle cellule leucemiche. 2. Cromosomi e geni anormali nelle leucemie: a) anomalie cromosomiche; b) anomalie di espressione e di funzione dei geni. 3. Vari stadi e tipi del processo leucemico: a) genesi della leucemia; b) differenti tipi di leucemia; c) cloni e crescita clonale; d) leucemie linfoidi e linfomi; e) apoptosi; f) oncogeni e geni oncosoppressori. 4. Implicazioni pratiche. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) Definizione e generalità.
La leucemia è una malattia neoplastica che colpisce il tessuto emopoietico (donde la locuzione popolare di ‛cancro del sangue'), vale a dire il tessuto che, per definizione, produce le cellule del sangue circolante e che è situato nel midollo osseo (MO). Una caratteristica essenziale di qualunque malattia neoplastica è rappresentata dalla crescita cellulare incontrollata, che tende a invadere territori situati al di là dei confini del tessuto di origine. Ciò vale anche per la proliferazione leucemica, che rimpiazza il midollo osseo normale e sconfina in altri organi. In questo articolo verrà dapprima delineato un modello generale della leucemia, quale esso emerge dall'analisi molecolare condotta nell'ultimo decennio; successivamente, si accennerà alle prove sperimentali a cui questo modello è stato sottoposto e verranno esaminate alcune delle sue implicazioni, specialmente in relazione alla clinica di questa malattia. Poiché la cellula leucemica ha origine da una cellula normale, per comprendere la natura della leucemia occorre premettere alcuni dati su particolari caratteristiche del tessuto da cui essa proviene (v. sangue: Leucemie, vol. VI; v. sangue: Organi emopoietici, vol. VI).
b) Cellule staminali e meccanismi di controllo nel tessuto emopoietico normale.
Il tessuto emopoietico risiede, come si è detto, prevalentemente nel midollo osseo e consiste di numerosi tipi di cellule, tra i quali occupa una posizione gerarchicamente preminente una cellula indifferenziata chiamata cellula staminale (v. Spangrude e altri, 1988; v. Gabbianelli e altri, 1990). Questa cellula è in grado di produrre tutti i tipi di cellule del sangue circolante (v. fig. 1), e viene perciò detta totipotente. Il processo di differenziamento necessario per realizzare questo straordinario risultato, senza dubbio estremamente complesso, presenta ancora numerose incognite: negli ultimi anni, tuttavia, ne sono stati chiariti alcuni aspetti essenziali (v. Bagby, 19942). In breve, la cellula staminale dà origine in primo luogo a cellule progenitrici di vari lignaggi o serie cellulari (per es., la serie eritrocitaria o rossa, la serie granulocitaria o bianca, ecc.); tali cellule, per definizione, non sono più totipotenti, ma ognuna di esse è in grado di produrre, attraverso numerosi stadi intermedi, un grande numero di cellule mature della rispettiva serie, che a questo punto vengono liberate dal midollo osseo nel sangue circolante (v. Ogawa, 1993; v. Zon, 1995). Le cellule del sangue, avendo una durata in circolo limitata (da una dozzina d'ore per alcuni dei globuli bianchi a quattro mesi per i globuli rossi), devono essere continuamente rigenerate; per questo il midollo osseo si trova normalmente in uno stato di continuo rinnovamento che si attua attraverso una combinazione ben bilanciata di due processi, la divisione cellulare e la maturazione cellulare. Pertanto, mentre in altri organi dell'adulto la divisione cellulare avviene solo in certe circostanze particolari (per es., nel fegato dopo una asportazione o un danneggiamento parziali) o non avviene affatto (per es., nelle cellule nervose del cervello), nel midollo osseo avvengono ogni giorno milioni e milioni di divisioni cellulari.
È evidente che un fenomeno così complesso come l'emopoiesi deve essere finemente controllato. Uno dei progressi più significativi dell'ematologia negli ultimi due decenni è consistito nella scoperta di numerosi fattori di regolazione, spesso chiamati ‛fattori di crescita' o più genericamente ‛citochine' (v. Kaushansky e Karplus, 1993; v. Lowenberg e Touw, 1993; v. Metcalf, 1993); in seguito, l'isolamento di tali fattori ha permesso dapprima di riconoscerne la natura di molecole proteiche specifiche e quindi di clonarne i rispettivi geni, consentendo in tal modo la loro produzione in forma pura, grazie alla biotecnologia nota col nome di DNA ricombinante. Alcuni fattori di crescita emopoietici, particolarmente l'eritropoietina e il fattore di crescita granulocitaria chiamato G-CSF (Granulocyte-Colony Stimulating Factor), sono ormai entrati a far parte del corredo terapeutico dell'ematologia (v. Vose e Armitage, 1995).
A differenza della maggior parte degli organi (per es., il fegato, il cervello, il rene), che hanno una struttura definita e una localizzazione corporea precisa e limitata, il midollo osseo è diffuso, perché è contenuto nelle cavità (dette appunto midollari) di tutte le ossa; per di più, attraverso il sangue circolante tutti i distretti midollari sono in comunicazione l'uno con l'altro. Dal momento che il midollo osseo, in certo senso, pervade tutto il corpo, potenzialmente esso è subito e globalmente interessato da qualsiasi processo morboso, indipendentemente da dove questo abbia avuto origine.
c) Il differenziamento delle cellule del sangue.
Le caratteristiche di una cellula sono determinate in buona misura dalla struttura del suo materiale genetico, o genoma, costituito da unità elementari, i geni, il cui numero totale nell'uomo non è ancora noto con precisione, ma è stimato intorno a 100.000 (v. Strachan e Read, 1996). Ogni gene consiste di un segmento di DNA che contiene, sotto forma di una sequenza di basi, l'informazione necessaria per sintetizzare una proteina specifica e per regolarne il livello di espressione (v. Alberts e altri, 19943). Nell'organismo normale quasi tutte le cellule hanno un genoma praticamente identico, malgrado che tra di esse vi possano essere differenze enormi: basti paragonare una cellula muscolare, lunga millimetri, provvista di centinaia di nuclei e capace di sviluppare energia meccanica, a un globulo rosso, di diametro inferiore a un centesimo di millimetro, privo di nucleo e il cui componente predominante è una sola proteina, l'emoglobina. Queste differenze vanno attribuite quasi esclusivamente al fatto che gli stessi geni sono utilizzati, o ‛espressi', in modo diverso. Il processo del differenziamento cellulare viene oggi considerato come l'attuazione di un programma che seleziona non solo quali geni esprimere tra tutti quelli disponibili, ma anche il livello di espressione di ogni singolo gene. Una cellula emopoietica, per esempio, è identificata da un particolare insieme di geni espressi: questo insieme si modifica ancora, qualitativamente e quantitativamente, quando la cellula emopoietica si differenzia ulteriormente, divenendo un globulo bianco, o un globulo rosso, o una piastrina (v. Shivdasani e Orkin, 1996).
d) L'origine delle cellule leucemiche.
Come si è visto, l'emopoiesi è un processo regolato in modo complesso, e non sorprende che possa essere modificata da fattori ambientali. Per esempio, un'infezione batterica fa aumentare il numero dei globuli bianchi; un soggiorno in alta montagna (per la diminuita pressione di ossigeno) fa aumentare il numero dei globuli rossi. Si potrebbe allora pensare che fattori ambientali, forse più estremi, siano in grado di influenzare la proliferazione delle cellule emopoietiche fino a dare origine a una leucemia. Se così fosse, ci si dovrebbe aspettare che, una volta tornata alla norma la situazione ambientale, la leucemia regredisca (così come, in effetti, i globuli bianchi e i globuli rossi tornano a valori normali quando, rispettivamente, l'infezione è superata e quando si scende nuovamente al livello del mare), ma purtroppo ciò non si verifica. Dobbiamo dedurne che nella cellula leucemica sia avvenuta una modificazione importante, che ha alterato il programma in modo irreversibile; in altre parole, possiamo affermare che la trasformazione di una cellula normale in una cellula leucemica (patogenesi della leucemia; v. fig. 2) risulta da una serie di modificazioni discrete, intrinseche e irreversibili del suo comportamento (v. Luzzatto, 1990; v. Witte, 19942). Solo le modificazioni cellulari acquisite che alterano la sequenza del DNA - dette ‛mutazioni' - vengono ereditate dalle cellule figlie. Le mutazioni responsabili della leucemia sono acquisite, ma poiché non interessano le cellule germinali non si trasmettono da una generazione all'altra e non sono quindi responsabili di malattie ereditarie; questo tipo di mutazione è detto anche ‛mutazione somatica' (v. Luzzatto e Pandolfi, 1993; v. Cooper e altri, 19957).
Quando la cellula modificata prolifera in modo esagerato rispetto alle sue sorelle normali, genera una popolazione di cellule anormali, ognuna delle quali può andare incontro a una seconda mutazione; e così via. Dopo un certo numero, non ancora noto e probabilmente variabile, di mutazioni somatiche la trasformazione è completa e la leucemia si è instaurata. Se includiamo queste due caratteristiche nella definizione di malattia neoplastica data sopra, dobbiamo considerare la leucemia come un processo nel quale la proliferazione cellulare, normale nel midollo osseo, è andata oltre la misura corretta, per cui il midollo sano viene invaso, o addirittura apparentemente sostituito, da midollo leucemico; spesso la proliferazione è talmente aggressiva da invadere anche zone extramidollari, e in definitiva qualunque organo, che conseguentemente può risultare gravemente danneggiato nella sua funzione. Capire le basi molecolari della leucemia significa perciò capire quali eventi abbiano modificato la crescita di una cellula emopoietica in modo tale che questa non segua più il programma originale, ma anzi evada i controlli quantitativi e topografici cui è normalmente soggetta.
La convinzione che la leucemia (e in generale la crescita tumorale, o neoplastica) derivi da una o più mutazioni somatiche è stata fin qui presentata come il risultato di una deduzione logica: ma abbiamo prove dirette che sia così veramente? Negli ultimi anni le prove si sono accumulate, fino al punto di darcene oggi la certezza. Se questo modello è, a grandi linee, corretto, il problema dell'origine, o patogenesi, della leucemia si riduce essenzialmente a due punti: 1) quali siano i geni mutati; 2) in qual modo i geni mutati modifichino il comportamento delle cellule emopoietiche fino al punto da renderle leucemiche. Prenderemo ora in esame alcune prove a sostegno del modello che abbiamo descritto, con esempi che servano anche a rispondere, almeno in via preliminare, a questi quesiti.
2. Cromosomi e geni anormali nelle leucemie
a) Anomalie cromosomiche.
L'analisi citogenetica consiste nello studio del corredo cromosomico, o cariotipo, caratteristico di una determinata popolazione cellulare. Non è raro che nel midollo leucemico si trovi tutta una varietà di anomalie cromosomiche che, tuttavia, essendo relativamente frequenti in cellule con elevato ritmo proliferativo, potrebbero in certo senso rappresentare un effetto piuttosto che una causa della leucemia. Peraltro, in alcuni casi, la stessa anomalia cromosomica non solo si riscontra nel 100% delle cellule leucemiche (‛omogeneità' dell'anomalia cariotipica), ma è presente per di più in diversi pazienti che hanno lo stesso tipo di leucemia (‛specificità' dell'anomalia cariotipica; v. tab. I; v. Sandberg e Chen, 1994; v. Drexler e altri, 1995).
Tabella 1
La correlazione tra una particolare anomalia cromosomica e un particolare tipo di leucemia rende altamente probabile che tra queste esista un nesso causa-effetto. Tuttavia, una correlazione di questo tipo sarebbe tuttora solo ipotetica, se un'ulteriore analisi, spinta a livello molecolare, non fosse stata in grado di rivelare che cosa esattamente consegue alla traslocazione cromosomica (v. Rabbitts, 1994). Nei casi in cui si è proceduto con successo a tale analisi, i risultati sono stati straordinari: si è trovato, cioè, che a ogni specifica traslocazione cromosomica corrisponde una traslocazione molecolare. Più esattamente, il gene che si trova al punto di rottura di un cromosoma viene a diretto contatto con il gene che si trova al punto di rottura dell'altro cromosoma (v. fig. 3): in questo modo, due geni che nel genoma normale sono distanti e ‛fisicamente estranei', per così dire, l'uno all'altro, si trovano o inopinatamente adiacenti, o addirittura fusi l'uno con l'altro. Nel primo caso dobbiamo presumere che le conseguenze patologiche derivino dalla giustapposizione dei due geni, forse perché uno influenza in modo indebito l'espressione dell'altro (l'effetto posizione è noto da tempo grazie agli studi genetici effettuati su Drosophila); nel secondo caso, la fusione genica comporta invece la produzione di una proteina anomala, che è un ibrido tra le due proteine normalmente codificate dai due distinti geni coinvolti nella fusione. Possiamo analizzare questi meccanismi prendendo a esempio due forme particolari di leucemia.
In un tipo di leucemia linfatica acuta, detta L3, si trova regolarmente una traslocazione cromosomica, detta t(8;14) (v. tab. I). L'analisi molecolare (v. Taub e altri, 1982; v. Rabbitts, 1994) ha dimostrato che nel cromosoma anormale che si viene così a creare, il gene MYC (collocato nel cromosoma 8) si trova accanto al gene IgH (collocato nel cromosoma 14; v. fig. 3). La funzione normale del gene MYC non è del tutto nota: sappiamo che esso si esprime normalmente in tutte le cellule, ma solo in una fase assai breve del ciclo di divisione cellulare; in altre parole, la sua espressione ha specificità temporale, ma non cellulare. La funzione del gene IgH è invece perfettamente nota: esso codifica per una delle due componenti (la catena H) essenziali della molecola delle immunoglobuline, vale a dire le proteine che costituiscono gli anticorpi. Poiché solo le cellule linfoidi di tipo B (dette anche immunociti) producono immunoglobuline, e spesso in grandi quantità, il gene IgH si esprime ad alto livello solo in queste cellule, e per nulla nelle altre: esso ha, cioè, una elevata specificità cellulare. Con queste informazioni riesce abbastanza facile intuire la conseguenza della giustapposizione dei due geni. Nelle cellule con la t(8;14) il gene IgH - legittimamente espresso poiché si tratta di linfociti B - forza l'espressione persistente - illegittima quest'ultima - del gene MYC che gli è divenuto contiguo. A causa di questa ‛disregolazione' del gene MYC le cellule non riescono a passare dal ciclo di divisione allo stato di riposo: ne consegue un ritmo proliferativo incontrollato che è, per definizione, l'essenza del processo neoplastico e quindi anche leucemico.
Nella leucemia promielocitica acuta (LPA) si trova regolarmente una traslocazione cromosomica detta t(15;17) (v. tab. I). L'analisi molecolare ha dimostrato che nel cromosoma anormale così creatosi, il gene PML (collocato nel cromosoma 15) viene a ‛fondersi' con il gene RARα (collocato nel cromosoma 17). Più esattamente (v. fig. 4), si producono due geni ibridi o ‛chimerici', con una porzione PML e una porzione RARα (v. Pandolfi e altri, 1991; v. Grignani e altri, 1994). I geni chimerici producono proteine chimeriche, e probabilmente nell'insorgenza della leucemia la proteina PML-RARα è più importante che non quella RARα-PML. La funzione della proteina RARα consiste nel legare l'acido retinoico, un derivato della vitamina A che regola il differenziamento e altre funzioni cellulari, mentre la proteina PML è un regolatore della crescita e della maturazione delle cellule mieloidi (v. Wang e altri, 1998). La sostituzione di una parte della proteina RARα con una parte della proteina PML modifica sostanzialmente il funzionamento di entrambe, trasformando così una cellula mieloide normale nella cellula leucemica tipica della LPA.
b) Anomalie di espressione e di funzione dei geni.
Il paragone tra i due casi sopra descritti è assai istruttivo, poiché in entrambi è presente un disturbo importante del programma di divisione cellulare, dovuto alla disregolazione risultante da un'interazione altamente specifica tra due geni. Nel primo caso, i due geni conservano la propria individualità, e la disregolazione si attua per l'effetto dell'uno sull'espressione dell'altro; nel secondo, a causa della fusione genica si produce una proteina nuova, le cui proprietà - fenomeno non straordinario - non sono la media o la somma delle proprietà delle due proteine normali. In questo secondo caso la disregolazione non agisce a livello di espressione, ma certamente a livello di funzione; la proteina di fusione non esiste in alcuna cellula normale, ma rappresenta una caratteristica unica della cellula leucemica.
È evidente, da quanto si è detto, che le traslocazioni cromosomiche sono associate in modo così specifico con particolari tipi di leucemia da rendere più che ragionevole presumere che queste siano causali, piuttosto che casuali. In effetti, talvolta è stato possibile dimostrare il nesso causale in modo diretto e definitivo, mediante esperimenti di trasferimento genico. Ad esempio, il gene di fusione BCR-ABL, caratteristico della leucemia mieloide cronica (LMC; v. tab. I), è stato inserito nel genoma di un retrovirus che, fungendo da trasportatore o vettore, a sua volta lo ha introdotto nel genoma di cellule staminali del midollo osseo di un topo normale. Queste cellule, trapiantate in un altro topo il cui midollo osseo era stato previamente distrutto mediante radiazioni, hanno provocato in quest'ultimo una malattia indistinguibile dalla LMC umana (v. Daley e altri, 1990). Poiché la malattia si è instaurata nel topo ricevente in seguito all'introduzione di un unico gene, l'evidenza sperimentale permette di escludere la possibilità dell'eventuale coesistenza, oltre alla presenza del gene BCR-ABL, di un'altra lesione passata inosservata, responsabile dello sviluppo della LMC. Sembra così dimostrato che il gene BCR-ABL sia la condizione necessaria e sufficiente perché si abbia una LMC.
I dati sinora illustrati dimostrano l'assunto iniziale che la leucemia sia causata da modificazioni acquisite discrete del genoma - le cosiddette mutazioni somatiche, delle quali sono un esempio i geni fusi o giustapposti che abbiamo descritto - direttamente osservabili al microscopio attraverso le traslocazioni cromosomiche da esse provocate. Non in tutte le leucemie sono però dimostrabili traslocazioni cromosomiche: in alcuni casi è possibile che le traslocazioni siano così piccole da avere finora eluso l'osservazione microscopica; in altri casi è invece possibile, anzi altamente probabile, che la traslocazione non esista affatto, e che vi siano invece mutazioni somatiche che riguardano geni non traslocati. In altre parole, una mutazione a carico di un singolo gene (per esempio, una perdita di DNA, o delezione, o addirittura la sostituzione di una sua singola base, o mutazione puntiforme) potrebbe alterarne la funzione in modo tale da farlo divenire leucemogeno.
3. Vari stadi e tipi del processo leucemico
a) Genesi della leucemia.
Una questione importante relativa alla genesi della leucemia concerne le modalità della sua comparsa, se cioè essa si instauri in modo improvviso o attraverso un processo graduale. Da un lato, la teoria sin qui sviluppata e in buona parte dimostrata si può enunciare in questo modo: una cellula leucemica differisce da una cellula emopoietica normale per avere subito una o più mutazioni leucemogene. D'altro canto, l'osservazione clinica ha identificato numerose situazioni nelle quali il midollo è chiaramente anormale, pur non presentando in pieno quelle modificazioni che consentono di diagnosticare una leucemia (v. Luzzatto e altri, 1992). Poiché col tempo questi quadri ‛intermedi' evolvono sovente in leucemia conclamata, essi sono stati chiamati preleucemici o, secondo una terminologia più moderna, sindromi mielodisplastiche (MDS). Per spiegare in modo plausibile l'esistenza di situazioni intermedie come le MDS è stato ipotizzato che la trasformazione neoplastica abbia carattere discontinuo: essa si attuerebbe cioè attraverso tappe successive, ciascuna delle quali è dovuta a una mutazione somatica. Questo modello non esclude affatto la possibilità che in alcuni casi sia sufficiente un'unica mutazione e in altri occorrano mutazioni multiple (v. fig. 2): anzi, esso è in grado di spiegare una varietà di situazioni clinicamente ben note. Ad esempio, abbiamo citato sopra la LMC come una leucemia che potrebbe essere causata da un singolo evento-mutazione (il gene di fusione BCR-ABL): a questo punto è però importante ricordare che la LMC, una malattia cronica per definizione, non è di per sé quasi mai letale fino a quando non va incontro a una modificazione drammatica del suo decorso clinico, chiamata crisi blastica, che la rende indistinguibile da una leucemia acuta (LA). È evidente che la transizione da LMC a LA avviene per effetto di una nuova mutazione somatica, la cui natura, ancora ignota, è attualmente oggetto di intense ricerche (v. Sill e altri, 1995), tanto che è opinione diffusa che essa sarà chiarita in tempi molto brevi.
b) Differenti tipi di leucemia.
Si è già accennato, attraverso l'esemplificazione, che vi sono tipi di leucemie con manifestazioni e decorso clinico assai diversi. Anche se siamo lungi da una spiegazione completa a livello molecolare di questa eterogeneità, possiamo almeno ipotizzare in qual modo essa si verifichi (v. Witte, 19942). Innanzitutto, l'emopoiesi è un processo di differenziamento complesso che interessa una grande varietà di tipi cellulari. In prima approssimazione, se la trasformazione leucemica ha luogo, per esempio, in una cellula eritroide (precursore dei globuli rossi), non sorprende che la cellula leucemica risultante - sebbene per definizione altamente atipica - abbia certe caratteristiche proprie dei globuli rossi normali; ciò avviene perché l'insieme dei geni la cui espressione rende la cellula di tipo eritroide rimane, grosso modo, attivo anche nella cellula leucemica (talvolta chiamata, per questo motivo, eritroleucemica). In alcuni casi, quindi, la mutazione (o le mutazioni) responsabile della trasformazione leucemica modificherebbe solo in parte le caratteristiche della cellula in cui si manifesta, lasciandone ancora riconoscibile il carattere originario. Un'altra possibilità è che la trasformazione leucemica avvenga in realtà in una cellula indifferenziata (a monte della separazione tra la linea eritroide e le altre linee emopoietiche) e che permetta, o addirittura favorisca, l'attuazione preferenziale di un programma di differenziamento eritroide e non di altri. A livello molecolare, possiamo immaginare che ciò avvenga perché la mutazione leucemogena ha interessato un gene caratteristico del differenziamento eritroide, e pertanto legittimamente attivo in queste cellule, ma anormale nella sua funzione perché mutato.
c) Cloni e crescita clonale.
Come una singola cellula fungina può, dividendosi, generare una colonia costituita da miliardi di cellule e formare sul pane stantio quella che chiamiamo comunemente muffa, così, nel caso di un tessuto umano, definiamo clone una popolazione di cellule progenie di una singola cellula. Nella maggior parte dei casi non abbiamo modo di sapere se due cellule appartengano allo stesso clone, proprio come, vedendo due persone per la strada, non possiamo generalmente sapere se hanno un antenato prossimo in comune. In pratica, possiamo individuare un clone solo se nella cellula che lo ha generato vi è qualcosa di nuovo o di diverso dal normale: in altre parole, una mutazione somatica. Anche in tal caso, clone non è sinonimo di malattia: per esempio, un neo sulla pelle è semplicemente un clone le cui cellule, per effetto di una mutazione, sono in grado di formare pigmento melaninico in misura maggiore delle altre. Naturalmente, però, dal punto di vista medico interessano soprattutto i cloni di cellule in cui la mutazione, essendo causa di un'importante anomalia, rivela, per esempio, l'avvenuta traslocazione cromosomica leucemogena. In questo caso, ogni cellula del clone è riconoscibile, perché ‛marcata' dalla traslocazione come da un'etichetta che viene copiata ogni volta che la cellula si divide. In più, la traslocazione ha conferito alla cellula la proprietà di crescere e dividersi più rapidamente o in modo incontrollato (‛espansione clonale'). Il concetto di clone è particolarmente importante in riferimento al modello a tappe multiple della leucemogenesi, poiché la probabilità che si instauri, per esempio, una seconda mutazione è ovviamente proporzionale al numero di cellule del clone che già presenta la prima mutazione (v. fig. 2). Possiamo così immaginare che dal primo clone emerga un sub-clone la cui crescita sia ancora più vigorosa e che apparentemente soppianti il primo (‛evoluzione clonale'). In definitiva, possiamo rappresentare la leucemia conclamata come una situazione in cui il midollo normale, costituito dalla progenie di migliaia di cellule, è stato invaso e praticamente rimpiazzato dall'espansione del singolo clone leucemico (v. Luzzatto, 1990).
d) Leucemie linfoidi e linfomi.
Si è accennato al fatto che il differenziamento cellulare risulta essenzialmente dall'espressione di un insieme di geni. In generale un gene viene ‛acceso' o ‛spento' per intervento di fattori che sono detti appunto ‛regolatori' della sua espressione, senza che la sua struttura ne sia irreversibilmente modificata. Nelle cellule del sistema linfoide è stata rilevata una straordinaria eccezione a questa regola, che è certamente in rapporto alla loro funzione immunitaria. Per esempio, i cosiddetti linfociti B, adibiti alla sintesi di una varietà quasi illimitata di immunoglobuline (costituite da catene pesanti IgH e catene leggere IgL) con funzione anticorpale, riescono in questa impresa costruendo, letteralmente, geni Ig funzionanti a partire da numerosi segmenti di DNA preesistenti, ma non attivi, nelle cellule dalle quali i linfociti B derivano. Nel corso di questo processo, i segmenti idonei di DNA vengono utilizzati, o ‛riarrangiati', quasi a caso, ed è attraverso il grande numero di combinazioni possibili che si realizza la diversificazione delle molecole di anticorpi necessaria perché esse possano riconoscere in modo specifico un grande numero di antigeni (v. Korsmeyer e altri, 1981; v. Tonegawa, 1983; v. Luzzatto e Foroni, 1986; v. immunologia, vol. XI). Questo fenomeno, unico nella genetica delle cellule somatiche, fa sì che, a riarrangiamento avvenuto, la struttura dei geni Ig presenti in cellule appartenenti a un clone di linfociti sia diversa da quella che si riscontra in tutte le altre cellule somatiche e anche in altri cloni di linfociti: pertanto, i geni Ig riarrangiati sono marcatori clonali perfetti. Poiché le malattie neoplastiche delle cellule linfoidi sono relativamente frequenti, viene naturale chiedersi se vi sia qualche nesso tra il processo che abbiamo descritto e l'insorgenza di leucemie linfatiche e linfomi. Ebbene, abbiamo già visto che nella leucemia linfatica acuta L3 il gene MYC risulta traslocato nei pressi di IgH, e sappiamo ora che in una percentuale elevata di linfomi altri geni (per esempio, quelli indicati come BCL-2, BCL-6 e altri) sono traslocati vicino a IgH. Questo fenomeno ricorrente fa ritenere verosimile che le cellule linfoidi siano suscettibili di trasformazione neoplastica proprio perché possiedono la struttura biochimica specializzata necessaria per il riarrangiamento dei geni Ig; questa ipotesi è rafforzata dall'osservazione che i geni che nei linfomi si associano illegittimamente agli Ig hanno alcuni frammenti di sequenza simile ai segmenti di DNA che normalmente producono, riarrangiandosi, i geni Ig (v. Croce e Nowell, 1985). In altre parole, è come se la capacità di compiere un processo altamente sofisticato quale la sintesi degli anticorpi esponesse le cellule a un maggiore rischio di trasformazione neoplastica; ed è come se il riarrangiamento genico che produce la leucemia o il linfoma utilizzasse tale capacità per uno scopo diverso da quello che ne ha permesso la selezione evolutiva; potremmo quasi definirlo un esempio di ‛parassitismo molecolare'.
Un altro aspetto interessante dei processi neoplastici che si originano dalle cellule linfoidi B è rappresentato dalla differenza tra linfoma e mieloma, due malattie molto diverse, corrispondenti a due stadi successivi del differenziamento e della maturazione di queste cellule: allo stadio di linfocito l'immunoglobulina (Ig) è collocata sulla superficie della membrana, e viene invece secreta all'esterno in uno stadio successivo di maturazione, quello di plasmacellula. Ebbene, nel linfoma e nel mieloma - che sono neoplasie caratterizzate da abnorme crescita di linfociti e plasmacellule, rispettivamente - le cellule mantengono queste importanti caratteristiche molecolari, legate ai due diversi stadi di maturazione, e le due malattie presentano comportamento clinico e risposta alla terapia enormemente diversi: ciò dimostra che su tali aspetti delle malattie influiscono differenze biologiche sottili, a prima vista di interesse solo accademico, ma in realtà di grande importanza dal punto di vista pratico.
e) Apoptosi.
La proliferazione cellulare rapida e incontrollata è talmente caratteristica della leucemia che è stata adottata come sua definizione. È perciò naturale pensare che le mutazioni leucemogene agiscano essenzialmente favorendo in modo diretto o indiretto la divisione cellulare. D'altro canto, è ben noto in demografia che una popolazione aumenta di numero quando il tasso di natalità cresce oppure quando il tasso di mortalità cala. In teoria, si potrebbe quindi pensare che la popolazione leucemica si espanda perché le cellule non muoiono quando dovrebbero (v. Thompson, 1995; v. Jacobson e altri, 1997). Questo modello è stato proposto da tempo, specialmente nel caso della leucemia linfatica cronica (LLC), ed è stato recentemente convalidato per i linfomi (v. Cory, 1995; v. Dolcetti e Boiocchi, 1996). Esso si collega al concetto che in molti organi, durante lo sviluppo embrionale - e nei linfonodi anche nell'adulto - così come esiste un programma di differenziamento, ne esiste anche uno di ‛suicidio', la cosiddetta morte cellulare programmata o apoptosi (v. cellula, fisiologia e patologia, vol. X). Possiamo concludere che nella maggior parte dei casi le leucemie sono dovute a un vero e proprio aumento del numero di divisioni cellulari, ma in alcuni altri è la mancata eliminazione di cellule che aumenta la probabilità di un evento leucemogeno.
f) Oncogeni e geni oncosoppressori.
Come si è visto, una mutazione somatica può contribuire a causare una leucemia, poiché l'espressione del gene mutato è in grado di sopraffare la normale regolazione della crescita cellulare. In questo caso il gene implicato viene chiamato oncogene (v. Weinberg, 1982; v. Hunter, 1997) e il suo effetto viene detto dominante, poiché prevale su quello del gene normale (detto anche protoncogene; v. Park, 19957) presente nel cromosoma omologo della cellula leucemica. Talvolta, invece, la situazione è per così dire invertita: alcuni geni normali, infatti, controllano la crescita cellulare inibendola; se di una coppia di geni di questo tipo uno è perduto o mutato in modo da essere inattivato, il suo omologo può essere ancora sufficiente a controllare la crescita; ma se entrambi sono perduti o mutati, l'inibizione viene a mancare e la crescita diviene incontrollata. Questi geni vengono chiamati oncosoppressori (v. Weinberg, 1991) e sono, per definizione, recessivi. Nelle leucemie (ma non specificamente in queste rispetto ad altri tumori) sono spesso mutati o scomparsi geni oncosoppressori quali p53 e p16 (così chiamati in base al loro peso molecolare); è tuttavia possibile che siano scoperti geni oncosoppressori ancor più specifici nel caso di alcune leucemie e mielodisplasie.
4. Implicazioni pratiche
L'analisi molecolare ha finalmente permesso di delineare la prima, dettagliata successione degli eventi che segnano l'origine dei tumori: anche se numerosi particolari restano da scoprire, il quadro generale emerge con sempre maggiore chiarezza. È naturale chiedersi se e in quale modo tali progressi possano risultare di utilità pratica nel trattamento di questo gruppo di gravi malattie. A tutt'oggi i vantaggi che ne sono conseguiti hanno riguardato essenzialmente il livello diagnostico: l'associazione tra determinate modificazioni molecolari e determinati tipi di leucemia è, infatti, così stretta, che in casi incerti o complessi il reperto di un'anomalia molecolare di un certo tipo può essere considerato un dato altamente attendibile per classificare correttamente una leucemia, permettendo di adottare i protocolli terapeutici risultati più efficaci per il suo trattamento (v. Hoelzer, 1993). Un altro risultato importante è l'elevata sensibilità delle metodiche di indagine molecolare. Uno dei punti più importanti nel trattamento delle leucemie è la valutazione della cosiddetta remissione, il termine tecnico usato per indicare che la leucemia sembra essere regredita. In realtà, la nostra capacità di valutare se vi sono ancora cellule leucemiche nel paziente (la cosiddetta malattia minima residua, o MRD) dipende ovviamente dalla sensibilità delle metodiche utilizzate: mentre con la microscopia convenzionale il limite è valutato intorno al 2%, con tecniche molecolari si può arrivare in molti casi a una sensibilità di una cellula su 10.000 o anche maggiore (v. van Dongen e altri, 1992; v. Cole-Sinclair e altri, 1994; v. Diverio e altri, 1994; v. Carlo-Stella e altri, 1995). Pertanto, se si conferma con queste tecniche che le cellule leucemiche sono veramente scomparse, si può evitare di sottoporre il paziente a ulteriori forme di trattamento che possono anche risultare pericolose. In alcuni casi l'indagine molecolare può essere di aiuto anche per la formulazione della prognosi: per esempio, in un certo gruppo di linfomi maligni si sono osservate modificazioni di un gene chiamato BCL-6, ed è stato documentato che, a parità di altri parametri clinici e con lo stesso trattamento, la sopravvivenza di pazienti con BCL-6 mutato risulta significativamente migliore di quella di pazienti nei quali questo gene non è mutato (v. fig. 5).
Sembra quindi lecito affermare che le conoscenze acquisite in campo molecolare hanno già fornito un aiuto diretto alla pratica clinica. Naturalmente, c'è la speranza che si possa andare più in là, profittando direttamente di ciò che sappiamo sulla patogenesi della leucemia per modificare a ritroso le alterazioni molecolari che sono state descritte. Queste forme di intervento, note come terapia genica, offrono molte speranze, alcune delle quali giustificate, ma sono attualmente ancora allo stadio sperimentale (v. Rosenberg e altri, 1990; v. Ferrari e altri, 1991; v. Luzzatto, 1992; v. Brenner, 1995; v. Lemoine e Cooper, 1996; v. Hargest e Williamson, 1997), con alcune recenti applicazioni cliniche (v. Bonini e altri, 1997; v. Sadelain e Luzzatto, 1997). Tuttavia, le recenti acquisizioni relative alla genesi a tappe successive della leucemia e all'evoluzione dei cloni leucemici hanno posto le basi di un nuovo edificio concettuale che presumibilmente permetterà di arrivare a una completa comprensione della malattia, una meta che solo pochi anni fa sembrava ancora fuori della nostra portata.
BIBLIOGRAFIA
Alberts, B., Bray, D., Lewis, J., Raff, M., Roberts, K., Watson, J. D., Molecular biology of the cell, New York 19943 (tr. it.: Biologia molecolare della cellula, Bologna 19953).
Bagby, G. C., Hematopoiesis, in The molecular basis of blood diseases (a cura di G. Stamatoyannopoulos, A. W. Nienhuis, P. W. Majerus e H. Varmus), Philadelphia, Pa., 19942, pp. 71-103.
Bonini, C., Ferrari, G., Verzeletti, S., Servida, P., Zappone, E., Ruggieri, L., Ponzoni, M., Rossini, S., Mavilio, F., Traversari, C., Bordignon, C., HSV-TK gene transfer into donor lymphocytes for control of allogeneic graft-versus-leukemia, in ‟Science", 1997, CCLXXVI, pp. 1719-1724.
Brenner, M. K., Human somatic gene therapy: progress and problems, in ‟Journal of internal medicine", 1995, CCXXXVII, pp. 229-239.
Carlo-Stella, C., Mangoni, L., Dotti, G. P., Rizzoli, V., Techniques for detection of minimal residual disease, in ‟Leukemia & lymphoma", 1995, XVIII, suppl. 1, pp. 75-80.
Cole-Sinclair, M. F., Foroni, L., Hoffbrand, A. V., Genetic changes: relevance for diagnosis and detection of minimal residual disease in acute lymphoblastic leukaemia, in ‟Bailliere's clinical haematology", 1994, VII, pp. 183-233.
Cooper, D. N., Krawczak, M., Antonarakis, S. E., The nature and mechanism of human gene mutation, in The metabolic and molecular bases of inherited disease (a cura di C. R. Scriver, A. L. Beaudet, W. S. Sly e D. Valle), New York 19957, vol. I, pp. 259-292.
Cory, S., Regulation of lymphocyte survival by the bcl-2 gene family, in ‟Annual review of immunology", 1995, XIII, pp. 513-543.
Croce, C. M., Nowell, P. C., Molecular basis of human B cell neoplasia, in ‟Blood", 1985, LXV, pp. 1-7.
Daley, G. Q., Van Etten, R. A., Baltimore, D., Induction of chronic myelogenous leukemia in mice by the P210bcr/abl gene of the Philadelphia chromosome, in ‟Science", 1990, CCXLVII, pp. 824-830.
Diverio, D., Pandolfi, P. P., Rossi, V., Biondi, A., Pelicci, P. G., Lo Coco, F., Monitoring of treatment outcome in acute promyelocytic leukemia by RT-PCR, in ‟Leukemia", 1994, VIII, pp. 1105-1107.
Dolcetti, R., Boiocchi, M., Cellular and molecular bases of B-cell clonal expansions, in ‟Clinical & experimental rheumatology", 1996, XIV, suppl. 14, pp. 3-13.
Dongen, J. J. van, Breit, T. M., Adriaansen, H. J., Beishuizen, A., Hooijkaas, H., Detection of minimal residual disease in acute leukemia by immunological marker analysis and polymerase chain reaction, in ‟Leukemia", 1992, VI, suppl. 1, pp. 47-59.
Drexler, H. G., MacLeod, R. A., Borkhardt, A., Janssen, J. W., Recurrent chromosomal translocations and fusion genes in leukemia-lymphoma cell lines, in ‟Leukemia", 1995, IX, pp. 480-500.
Ferrari, G., Rossini, S., Giavazzi, R., Maggioni, D., Nobili, N., Soldati, M., Ungers, G., Mavilio, F., Gilboa, E., Bordignon, C., An in vivo model of somatic cell gene therapy for human severe combined immunodeficiency, in ‟Science", 1991, CCLI, pp. 1363-1366.
Gabbianelli, M., Sargiacomo, M., Pelosi, E., Testa, U., Isacchi, G., Peschle, C., ‛Pure' human hematopoietic progenitors; permissive action of basic fibroblast growth factor, in ‟Science", 1990, CCXLIX, pp. 1561-1564.
Grignani, F., Fagioli, M., Alcalay, L., Longo, L., Pandolfi, P. P., Donti, E., Biondi, F., Lo Coco, F., Grignani, F., Pelicci, P. G., Acute promyelocytic leukemia: from genetics to treatment, in ‟Blood", 1994, LXXXIII, pp. 10-25.
Hargest, R., Williamson, R., Prophylactic gene therapy for cancer, in ‟Gene therapy", 1997, III, pp. 97-102.
Hoelzer, D. F., Therapy of the newly diagnosed adult with acute lymphoblastic leukemia, in ‟Hematology-oncology clinics of North America", 1993, VII, pp. 139-160.
Hunter, T., Oncoprotein networks, in ‟Cell", 1997, LXXXVIII, pp. 333-346.
Jacobson, M. D., Weil, M., Raff, M. C., Programmed cell death in animal development, in ‟Cell", 1997, LXXXVIII, pp. 347-354.
Kaushansky, K., Karplus, P. A., Hematopoietic growth factors: understanding functional diversity in structural terms, in ‟Blood", 1993, LXXXII, pp. 3229-3240.
Korsmeyer, S. J., Hieter, P. A., Ravetch, J. V., Poplack, D. G., Waldmann, T. A., Leder, P., Developmental hierarchy of immunoglobulin gene rearrangements in human leukemic pre-B-cells, in ‟Proceedings of the National Academy of Sciences", 1981, LXXVIII, pp. 7096-7100.
Lee, G. R., Bithell, T. C., Foerster, J., Athens, J. W., Lukens, J. N. (a cura di), Wintrobe's clinical hematology, 2 voll., Philadelphia, Pa., 19939.
Lemoine, N. R., Cooper, D. N. (a cura di), Gene therapy, Oxford 1996.
Lowenberg, B., Touw, I. P., Hematopoietic growth factors and their receptors in acute leukemia, in ‟Blood", 1993, LXXXI, pp. 281-292.
Luzzatto, L., Leukaemia is a genetic disorder of somatic cells, in ‟Haematologica", 1990, LXXV, pp. 105-108.
Luzzatto, L., Frontiers in medicine. Gene transfer and gene therapy, in ‟Journal of internal medicine", 1992, CCXXXI, pp. 3-6.
Luzzatto, L., Colonna, F., Reilly, I., The ‟n-1" model for myelodysplastic syndromes, in ‟Leukaemia research", 1992, XVI, pp. 57-59.
Luzzatto, L., Foroni, L., DNA rearrangements of cell lineage specific genes in lymphoproliferative disorders, in ‟Progress in hematology", 1986, XIV, pp. 303-332.
Luzzatto, L., Pandolfi, P. P., Leukaemia: a genetic disorder of haemopoietic cells, in ‟British medical journal", 1993, CCCVII, pp. 579-580.
Metcalf, D., Hematopoietic regulators: redundancy or subtlety?, in ‟Blood", 1993, LXXXII, pp. 3515-3523.
Morrison, S. J., Shah, N. M., Anderson, D. J., Regulatory mechanisms in stem cell biology, in ‟Cell", 1997, LXXXVIII, pp. 287-298.
Offit, K., Lo Coco, F., Louie, D. C., Parsa, N. Z., Leung, D., Portlock, C., Ye, B. H., Lista, F., Filippa, D. A., Rosenbaum, A., Ladanyi, M., Jhanwar, S., Dalla Favera, R., Chaganti, R. S. K., Rearrangement of the bcl-6 gene as a prognostic marker in diffuse large-cell lymphoma, in ‟New England journal of medicine", 1994, CCCXXXI, pp. 74-80.
Ogawa, M., Differentiation and proliferation of hematopoietic stem cells, in ‟Blood", 1993, LXXXI, pp. 2844-2853.
Pandolfi, P. P., Grignani, F., Alcalay, M., Mencarelli, A., Biondi, A., Lo Coco, F., Pelicci, P. G., Structure and origin of the acute promyelocytic leukaemia MYL/RARα cDNA and characterization of its retinoid-binding and transactivation properties, in ‟Oncogene", 1991, VI, pp. 1285-1292.
Park, M., Oncogenes: genetic abnormalities of cell growth, in The metabolic and molecular bases of inherited disease (a cura di C. R. Scriver, A. L. Beaudet, W. S. Sly e D. Valle), New York 19957, vol. I, pp. 589-611.
Rabbitts, T. H., Chromosomal translocations in human cancer, in ‟Nature", 1994, CCCLXXII, pp. 143-149.
Rosenberg, S. A., Aebersold, P., Cornetta, K., Kasid, A., Morgan, R. A., Moen, R., Karson, E. M., Lotze, M. T., Yang, J. C., Topalian, S. L., Merino, M. J., Culver, K., Miller, A. D., Blaese, R. M., Anderson, W. F., Gene transfer into humans. Immunotherapy of patients with advanced melanoma, using tumor-infiltrating lymphocytes modified by retroviral gene transduction, in ‟New England journal of medicine", 1990, CCCXXIII, pp. 570-578.
Sadelain, M., Luzzatto, L., Immunogene therapy comes into its own, in ‟Gene therapy", 1997, IV, pp. 1129-1131.
Sandberg, A. A., Chen, Z., Cancer cytogenetics and molecular genetics: detection and therapeutic strategy, in ‟In vivo", 1994, VIII, pp. 807-818.
Shivdasani, R. A., Orkin, S. H., The transcriptional control of hematopoiesis, in ‟Blood", 1996, LXXXVII, pp. 4025-4039.
Sill, H., Goldman, J. M., Cross, N. C. P., Homozygous deletions of the p16 tumor-suppressor gene are associated with lymphoid transformation of chronic myeloid leukemia, in ‟Blood", 1995, LXXXV, pp. 2013-2016.
Spangrude, G. J., Heimfeld, S., Weissman, I. L., Purification and characterization of mouse hematopoietic stem cells, in ‟Science", 1988, CCXLI, pp. 58-62.
Strachan, T., Read, A. P., Human molecular genetics, Oxford-New York 1996 (tr. it.: Genetica umana molecolare, Torino 1997).
Sullivan, A. K., Classification, pathogenesis and etiology of neoplastic diseases of the hematopoietic system, in Wintrobe's clinical hematology (a cura di R. G. Lee e altri), Philadelphia 19939, pp. 1725-1791.
Taub, R., Kirsch, I., Morton, C., Lenoir, G., Swan, D., Tronick, S., Aaronson, S., Leder, P., Translocation of the c-myc gene into the immunoglobulin heavy chain locus in human Burkitt lymphoma and murine plasmocytoma cells, in ‟Proceedings of the National Academy of Sciences", 1982, LXXIX, pp. 7837-7841.
Thompson, C. B., Apoptosis in the pathogenesis and treatment of disease, in ‟Science", 1995, CCLXVII, pp. 1456-1462.
Tonegawa, S., Somatic generation of antibody diversity, in ‟Nature", 1983, CCCII, pp. 575-581.
Vose, J. M., Armitage, J. O., Clinical applications of hematopoietic growth factors, in ‟Journal of clinical oncology", 1995, XIII, pp. 1023-1035.
Wang, Z.-G., Delva, L., Gaboli, M., Rivi, R., Giorgio, M., Cordon-Cardo, C., Grosveld, F., Pandolfi, P. P., Role of PML in cell growth and the retinoic acid pathway, in ‟Science", 1998, CCLXXIX, pp. 1547-1551.
Weinberg, R. A., Oncogenes of spontaneous and chemically induced tumors, in ‟Advanced cancer research", 1982, XXXVI, pp. 149-163.
Weinberg, R. A., Tumor suppressor genes, in ‟Science", 1991, CCLIV, pp. 1138-1146.
Witte, O. N., Mechanism of leukemogenesis, in The molecular basis of blood diseases (a cura di G. Stamatoyannopoulos, A. W. Nienhuis, P. W. Majerus e H. Varmus), Philadelphia, Pa., 19942, pp. 835-859.
Zon, L. I., Developmental biology of hematopoiesis, in ‟Blood", 1995, LXXXVI, pp. 2876-2891.
Trapianto del midollo
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Cenni storici. 3. Tipi di trapianto. 4. Implicazioni immunologiche. 5. Indicazioni. 6. Procedure. 7. La fase aplastica. 8. Patologie da trapianto di midollo. 9. Risultati clinici. 10. Prospettive future. 11. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il midollo osseo, sebbene distribuito in vari settori del corpo, e cioè ovunque esistano segmenti scheletrici, va considerato a tutti gli effetti un vero e proprio organo, indispensabile per la sopravvivenza, così come il cuore, il fegato o il cervello; è costituito da un particolare tessuto cui compete la funzione di produrre gli elementi corpuscolati del sangue, e cioè globuli rossi, globuli bianchi, piastrine (v. sangue: Organi emopoietici, vol. VI). La funzione midollare, detta anche emopoiesi (produzione del sangue), può venir meno per motivi diversi, causando conseguenze di varia gravità: un suo blocco totale e persistente porta a morte in poche settimane. La terapia trasfusionale sostitutiva, che utilizza la parte corpuscolata del sangue prodotta da altre persone, risolve solo transitoriamente il problema: per i corpuscoli a vita breve (globuli bianchi, piastrine) sarebbe necessaria una somministrazione quotidiana, e in ogni caso con il passar del tempo insorgerebbero nel ricevente reazioni immunologiche in grado di distruggere immediatamente i corpuscoli somministrati. È parso quindi logico affrontare il problema più a monte, cercando di ricostituire l'emopoiesi bloccata mediante la somministrazione di elementi progenitori emopoietici in grado di ripristinare la funzione midollare. Si definisce cellula staminale il primitivo progenitore emopoietico capace di autoreplicarsi e di dar luogo - attraverso meccanismi di proliferazione, differenziazione e maturazione - a tutti gli elementi corpuscolati del sangue. Considerate queste loro peculiari caratteristiche, per ripristinare l'emopoiesi bastano relativamente poche cellule staminali, a patto che siano accettate dall'organismo ricevente e che sia assicurata la sopravvivenza dell'organismo stesso nel periodo necessario alla ricostituzione del tessuto midollare. Le cellule staminali, che non sono facilmente identificabili, risiedono ordinariamente nel midollo osseo, anche se un piccolo numero di esse è riscontrabile nel sangue periferico; di conseguenza, per trasferire cellule staminali da un organismo a un altro è necessario utilizzare il succo midollare, cioè liquido corpuscolato estratto direttamente dal midollo osseo mediante puntura di un osso piatto (in genere le ossa del bacino). Di recente sono state elaborate metodiche farmacologiche che mobilizzano le cellule staminali riversandole dal midollo nel sangue periferico, rendendone così possibile la raccolta dal sangue venoso mediante complesse strumentazioni (separatori cellulari; v. fig. 1). Somministrate al ricevente mediante semplice inoculazione endovenosa, le cellule staminali - siano esse contenute nel succo midollare o prelevate da sangue periferico - sono convogliate con la circolazione sanguigna fino al parenchima midollare ove, probabilmente tramite la mediazione di molecole specifiche, riconoscono gli opportuni siti nei quali collocarsi e dare inizio alla nuova emopoiesi (v. Forman e altri, 1994; v. Messner e McCulloch, 1994).
2. Cenni storici
Benché già negli anni cinquanta siano stati effettuati tentativi di trasferimento di succo midollare da un individuo a un altro (v. Thomas e altri, 1957), una base razionale per un intervento efficace è stata fornita solo più tardi (v. Gatti e altri, 1968), allorché è stata scoperta l'importanza del cosiddetto sistema maggiore di istocompatibilità, o MHC (Major Histocompatibility Complex), codificato nell'uomo dai geni della regione nota come HLA (Human Leukocyte Antigens), posta sul braccio corto del cromosoma 6. Il sistema HLA è costituito da un gruppo di geni che controllano varie specificità antigeniche, tra le quali gli antigeni di istocompatibilità, cioè particolari molecole della superficie cellulare che consentono al sistema immunitario di ogni organismo di riconoscere le proprie cellule e di differenziarle da quelle di un altro organismo, anche se appartenente alla stessa specie (v. trapianti, vol. VII; v. chirurgia: Chirurgia dei trapianti, vol. VIII; v. immunologia: Istocompatibilità, vol. XI). Si è così compreso che il ricevente può accettare solo cellule antigenicamente identiche o molto simili alle proprie, e che, dipendendo tale specificità antigenica da molecole codificate dai geni della regione HLA, esistono buone probabilità di trovare identità o similitudine antigenica in figli degli stessi genitori. Infatti, poiché la regione HLA del cromosoma 6 viene ereditata in blocco, e poiché ciascun genitore trasmette a ogni figlio un solo cromosoma della coppia, vi sarà il 25% di probabilità che due figli abbiano le coppie 6 formate dagli stessi cromosomi, il 50% di probabilità che le loro coppie abbiano un solo cromosoma uguale, e il 25% di probabilità che i cromosomi delle due coppie siano diversi. La storia del trapianto di midollo è quindi iniziata con il trapianto tra fratelli e ha avuto un incremento esponenziale (v. fig. 2) in quanto, a differenza di quanto avviene nel caso della donazione di un organo solido - per la quale non è facile, né deontologicamente corretto, trovare un donatore vivente (che resterebbe mutilato) - l'aspirazione di succo midollare è praticamente innocua per il donatore. Così, nel giro di due decenni il trapianto di midollo, da procedura ‛sperimentale' (v. sangue: Leucemie, vol. VI), è diventato il trattamento di prima scelta per una serie di patologie. Il punto di riferimento mondiale è il Centro di Seattle, negli Stati Uniti, dove è stato effettuato il maggior numero di trapianti; ma ormai ogni grande città dei paesi occidentali ha uno o più centri di trapianto di midollo, e i trapiantati nel mondo sono più di 100.000. In Italia, i primi centri ematologici a occuparsi di trapianti di midollo sono stati quelli di Genova, di Pesaro e di Pescara; oggi sono funzionanti almeno 50 unità trapiantologiche e nel solo 1996 sono stati trapiantati più di 2.000 pazienti. La letteratura internazionale raccoglie ogni anno migliaia di lavori scientifici sull'argomento, ed esistono diverse riviste specializzate che si occupano solo di questo settore. Nel 1994 è stato dato alle stampe un vasto ed esaustivo trattato, a cura, tra gli altri, del prof. E. D. Thomas, che ha ricevuto il premio Nobel per la Medicina nel 1990 proprio per le sue scoperte in questo campo (v. Forman e altri, 1994).
3. Tipi di trapianto
Occorre anzitutto distinguere i trapianti di midollo in due tipi fondamentali: quelli in cui il midollo da trapiantare proviene dallo stesso ricevente e quelli in cui il midollo proviene da un donatore. Più in particolare, in considerazione del fatto che l'esito del trapianto dipende essenzialmente dalla reciproca tolleranza immunologica tra tessuti del ricevente e cellule trapiantate, cioè dalla condizione di istocompatibilità tra ricevente e donatore, una classificazione dei possibili tipi di trapianto di midollo utile ai fini prognostici deve essere basata sul grado di diversità immunologica tra ricevente e donatore. Si distinguono pertanto trapianti midollari singenici, allogenici e autologhi.
Trapianto singenico. - Si tratta di un tipo di trapianto possibile solo nel caso in cui donatore e ricevente siano gemelli monozigotici, condizione rara e particolarmente favorevole dal punto di vista clinico: infatti, per l'assoluta identità dei due corredi cromosomici, l'istocompatibilità è totale, cioè non esistono barriere immunologiche, così che il trasferimento di cellule tra i due organismi non è seguito da reazioni nell'ospite e il trapianto può sicuramente attecchire.
Trapianto allogenico. - Tutti i trapianti da donatore a ricevente che non siano gemelli monovulari vengono definiti allogenici. Il trapianto tra fratelli HLA identici ha ottime probabilità di successo, anche se esistono problemi di compatibilità cosiddetta minore, in quanto in questo caso donatore e ricevente hanno le coppie di cromosomi 6 identiche, ma le altre coppie cromosomiche assai diverse. Il trapianto tra individui HLA-identici ma non consanguinei, definito MUD (Matched Unrelated Donor), è invece ad alto rischio, in quanto l'identità antigenica è relativa solo ad alcuni siti del cromosoma 6, mentre altre porzioni sono diverse e questo può causare gravi reazioni immunologiche, non infrequentemente mortali. Una situazione analoga si verifica nel caso di trapianti tra individui consanguinei ma parzialmente HLA-identici, per esempio fratelli con un solo cromosoma 6 uguale, o genitori che hanno per definizione un solo cromosoma 6 eguale a uno del figlio: in questo caso possono scatenarsi nell'ospite reazioni immunologiche di estrema gravità contro gli antigeni diversi.
Trapianto autologo. - Infine, un tipo particolare di procedura impropriamente inclusa fra i trapianti è la tecnica dell'autotrapianto, in base alla quale per la ripopolazione midollare si utilizzano cellule staminali dello stesso paziente, prelevate in precedenza. Nel caso più tipico, in un paziente affetto da una malattia che, pur non interessando il midollo osseo, può tuttavia causarne indirettamente la distruzione per il trattamento citotossico massivo che richiede, la preventiva raccolta delle cellule staminali dal midollo o dal sangue periferico - previo adatto pretrattamento e quindi conservazione a bassissima temperatura al fine di assicurarne l'indefinita vitalità (criopreservazione) - ne consentono la reinoculazione al termine del trattamento intensivo, garantendo in tal modo il recupero emopoietico. Poiché molte tappe di questa strategia sono in comune con le procedure trapiantologiche vere e proprie, l'autotrapianto è spesso incluso nelle trattatistiche trapiantologiche.
4. Implicazioni immunologiche
Rigetto. - Come avviene per i trapianti di organo, anche per l'attecchimento del trapianto di midollo è necessario che l'organismo ricevente accetti le cellule estranee somministrate. A parte i casi più favorevoli dell'autotrapianto e del trapianto singenico, in tutti gli altri il ricevente tende a eliminare le cellule estranee attraverso i suoi sistemi di difesa immunologica, con meccanismo identico a quello del rigetto di trapianti di organi solidi (v. chirurgia: Chirurgia dei trapianti, vol. VIII). Dal punto di vista clinico, il rigetto si manifesta con un mancato attecchimento (mancata risalita dei valori ematologici dopo 4-6 settimane dal trapianto) o con la perdita del tessuto attecchito (azzeramento dei valori ematologici dopo un'iniziale risalita). Un intenso trattamento immunosoppressivo nel periodo immediatamente precedente il trapianto blocca in genere in maniera soddisfacente i meccanismi che sono alla base della reazione di rigetto.
Rigetto inverso. - Nel trapianto di midollo si verifica però un fenomeno aggiuntivo che è sconosciuto nei trapianti di organo. Le cellule staminali trapiantate, essendo totipotenti, non solo determinano la ricostituzione della funzione emopoietica, ma creano anche un nuovo sistema immunologico, in realtà appartenente al donatore. Una volta sviluppatosi, questo sistema può non riconoscere, in quanto non istocompatibili, i vari tessuti dell'organismo di cui è ospite e scatenare quindi un rigetto inverso, detto anche malattia da trapianto contro ospite (GvHD, Graft versus Host Disease; v. cap. 8). La gravità dei fenomeni di rigetto e di rigetto inverso è tanto maggiore quanto maggiore è la diversità tra gli antigeni di istocompatibilità del ricevente e quelli del donatore. Il rigetto inverso è un nuovo tipo di malattia, in realtà creata dall'uomo, che coinvolge in maniera preferenziale determinati organi (cute, fegato, intestino) provocando quadri morbosi acuti entro 100 giorni dal trapianto, o cronici in genere dopo 3-12 mesi dal trapianto. La possibilità che un moderato grado di reazione immunologica delle cellule trapiantate contro l'organismo ricevente concorra in parte a eradicare eventuali cellule neoplastiche ancora presenti nel ricevente dopo il trattamento di condizionamento (v. cap. 6) - fenomeno noto come ‛reazione del trapianto contro la leucemia' (GvL, Graft versus Leukemia) - spiega come in alcune malattie i risultati ottenibili con un trapianto da donatore gemello monovulare siano inferiori a quelli conseguenti a trapianto da donatore fratello non gemello.
Induzione della tolleranza. - In assenza di complicanze di natura immunologica, dopo 6-12 mesi da un efficace attecchimento si instaura una tolleranza alle cellule trapiantate che consente l'arresto della terapia immunosoppressiva. Il paziente che ha ricevuto un trapianto allogenico è diventato quello che si definisce una chimera biologica, cioè un organismo in cui coesistono sistemi di due organismi diversi, poiché il sistema emopoietico e quello immunologico sono quelli del donatore, mentre tutti gli altri organi e apparati appartengono al ricevente. Se donatore e ricevente avevano diverso gruppo sanguigno, dopo il trapianto il ricevente cambia gruppo e acquisisce quello del donatore; se donatore e ricevente sono di sesso diverso, nelle cellule emopoietiche e immunocompetenti del ricevente sono individuabili le caratteristiche cromosomiche del sesso del donatore. Una controprova quasi paradossale dell'efficacia di tale ricostituzione è data dai rarissimi casi (tre sinora riportati in letteratura) nei quali, a distanza di anni dal trapianto, il trapiantato è stato a sua volta vantaggiosamente utilizzato per donare il midollo al suo donatore originale, nel frattempo ammalatosi (v. Messner e McCulloch, 1994).
5. Indicazioni
In considerazione dei rischi connessi al trapianto di midollo (v. cap. 8) e dei costi che questo comporta, l'approccio trapiantologico va riservato al trattamento di determinate malattie e a un selezionato gruppo di pazienti. Allo stato attuale numerose sono le patologie per la cui terapia è indicato un trapianto di midollo.
Insufficienza midollare. - Questa condizione è caratterizzata dalla perdita assoluta e persistente del tessuto emopoietico per cause congenite (per es., anemia di Fanconi) o acquisite (per es., aplasia midollare), sia note (per es., esposizione accidentale a radiazioni ionizzanti) che ignote.
Leucemie. - In queste malattie a carattere neoplastico del tessuto emopoietico midollare, il trapianto ha la funzione di sostituire l'organo malato. Tuttavia l'indicazione di tale intervento non è estesa a tutte le forme di leucemia, poiché per alcune di esse particolarmente sensibili alla chemioterapia, la quale da sola garantisce un'alta percentuale di guarigioni (per es., leucemia acuta linfoblastica del bambino), appare inutile correre il rischio del trapianto; per altre forme, nelle quali la resistenza ai farmaci citotossici esclude ogni possibilità di successo al trattamento eradicante precedente il trapianto, questo non può essere preso in considerazione. In ogni caso, il paziente deve essere avviato al trapianto quando è in buone condizioni cliniche, cioè dopo che un'adatta chemioterapia abbia determinato un buon controllo della malattia. La leucemia mieloide acuta, la leucemia mieloide cronica e la leucemia linfoblastica acuta ad alto rischio sono attualmente le forme nelle quali è più frequentemente indicato il trattamento con trapianto di midollo.
Tumori chemiosensibili e radiosensibili. - Pazienti con tumori solidi (linfomi, carcinomi), in cui la popolazione di cellule tumorali sia eradicabile con chemioterapia o radioterapia ad altissime dosi (che però distruggono anche il tessuto midollare), possono giovarsi di un trapianto eseguito dopo il trattamento citotossico per ripristinare l'emopoiesi; in questi casi, se il midollo osseo del paziente è indenne dalla malattia, vi è indicazione all'autotrapianto.
Talassemie, emoglobinopatie. - Nei casi più gravi di anomalie della sintesi di emoglobina - il pigmento presente all'interno dei globuli rossi deputato al trasporto dell'ossigeno nel sangue - la totale dipendenza dalle trasfusioni di sangue per poter sopravvivere (v. sangue: Anemie emolitiche, vol. VI) costituisce una precisa indicazione al trapianto di midollo, poiché l'innesto di cellule staminali da donatore può determinare la produzione di globuli rossi ricchi di emoglobina umana perfettamente funzionante.
Immunodeficienze congenite. - Nelle rare malattie ereditarie caratterizzate dalla deficienza parziale o totale del sistema immunitario, con emopoiesi integra (v. immunologia clinica e immunopatologia, vol. VIII), il trapianto di midollo è essenzialmente indicato per creare un nuovo sistema immunitario, il cui sviluppo si accompagna comunque anche a quello di un nuovo sistema emopoietico.
Errori congeniti del metabolismo. - Alcune rare malattie ereditarie, dovute alla mancanza congenita di un enzima che determina accumulo di metaboliti intermedi nei vari tessuti, possono attualmente venire trattate sia con tecniche di ingegneria genetica, in grado di indurre le cellule a produrre l'enzima necessario, sia con un precoce trapianto di midollo osseo allogenico, in maniera che le cellule del donatore che attecchiscono nel ricevente assicurino la produzione dell'enzima.
La selezione dei pazienti da sottoporre a trapianto di midollo deve essere effettuata essenzialmente in base all'età, alle condizioni cliniche e alla disponibilità di un donatore. Le caratteristiche del ricevente che costituiscono fattori essenziali per garantire il successo del trapianto sono l'età inferiore ai 50 anni e le buone condizioni cliniche al momento dell'ingresso nel programma trapiantologico. Pur se il limite dei 50 anni è certamente arbitrario, in realtà le possibilità di successo sono tanto maggiori quanto più giovane è il paziente, e i migliori risultati si ottengono in età pediatrica. Per buone condizioni cliniche si intendono l'integrità dei diversi organi e apparati, tale da rendere possibile il trattamento con alte dosi di citostatici e di immunosoppressori, e soprattutto l'assenza di infezioni in atto, la cui gravità aumenterebbe nel corso del trattamento.
Il trapianto di midollo è una metodica di cura molto costosa; le spese maggiori riguardano farmaci, emoderivati, analisi di laboratorio, impiego di personale altamente specializzato, creazione e manutenzione delle camere sterili. A seconda del numero di giorni di degenza, un paziente trapiantato costa alla struttura una cifra variabile tra 100 e 200 milioni di lire. È quindi una procedura che non può essere utilizzata indiscriminatamente: per pazienti in fase avanzata di malattia o in cattive condizioni generali il rapporto costi/benefici risulta troppo elevato.
Come già discusso, il donatore ideale è un fratello o una sorella del paziente con identità del sistema HLA; più ampia è la fratria, maggiore è la possibilità di trovare un donatore idoneo. Nel mondo occidentale, per la tendenza al decremento delle nascite, solo il 20% dei pazienti può disporre di un donatore in famiglia: il livello di rischio conseguente al trapianto è notevolmente più elevato nel caso che donatore e ricevente siano non consanguinei o consanguinei solo parzialmente HLA-identici.
6. Procedure
Condizionamento. - Nel caso più classico del trapianto allogenico, la procedura trapiantologica inizia con un trattamento farmacologico intensivo - detto condizionamento - eseguito generalmente al duplice scopo di eradicare la malattia di base (per es., leucemia) e di sopprimere le difese immunitarie, così da evitare il rigetto delle cellule trapiantate. Il trattamento di condizionamento può venire modificato per esigenze particolari: nell'anemia aplastica, ad esempio, non vi è necessità di eradicare un'altra malattia; nelle immunodeficienze congenite, non solo non occorre eradicare la malattia di base, ma non vi è neppure necessità di immunosoppressione, in quanto nel paziente non esiste un sistema immunologico funzionante. Il trattamento di condizionamento in genere è di per sé letale, se non è seguito dal trapianto o se il trapianto non attecchisce; infatti, tale trattamento - che è basato sulla somministrazione per 5-7 giorni di diversi farmaci citotossici, associata o meno a irradiazione corporea totale - determina la distruzione del tessuto midollare col conseguente azzeramento dei valori ematologici, situazione incompatibile con la minima speranza di vita. Da questo momento e fino al recupero emopoietico il paziente deve soggiornare in ambiente particolarmente protetto (camera sterile), perché qualsiasi infezione potrebbe essere mortale.
Raccolta delle cellule emopoietiche. - Nel giorno fissato per il trapianto, il donatore di midollo entra in camera operatoria dove viene sottoposto, in anestesia generale o spinale, al prelievo di circa 1 litro di succo midollare (di quantità minori se si tratta di un bambino) mediante ripetute punture aspirative praticate nelle ossa del bacino (v. fig. 3). Nel corso del prelievo, che richiede circa un'ora, il donatore riceve una o due unità del proprio sangue predepositato nelle settimane precedenti (autotrasfusione). Tranne casi veramente eccezionali di complicanze vascolari o inerenti all'anestesia, il donatore non subisce alcun danno dalla procedura, e può lasciare l'ospedale il giorno successivo alla donazione. Il succo midollare, aspirato in presenza di un anticoagulante (eparina), viene raccolto in una sacca di plastica sterile, che è sigillata e trasportata nella camera sterile dove soggiorna il ricevente. Come già accennato (v. cap. 1), è oggi possibile raccogliere le cellule staminali non dal midollo, ma dal sangue periferico, evitando quindi al donatore narcosi e punture ossee multiple; tuttavia, poiché le tecniche di mobilizzazione delle cellule staminali richiedono che al donatore vengano somministrati i farmaci mobilizzanti, la cui assoluta innocuità non è ancora del tutto garantita, questa procedura, molto usata nell'autotrapianto, lo è meno nel trattamento del donatore sano.
Infusione. - Il materiale raccolto viene somministrato al paziente per via endovenosa, con una infusione che dura alcune ore. In caso di differenza di gruppo sanguigno tra donatore e ricevente, il materiale raccolto viene sottoposto a separazione delle varie componenti; al ricevente si somministrano solo i globuli bianchi, fra i quali sono contenute le cellule staminali.
Criopreservazione. - Nel caso dell'autotrapianto, la sequenza descritta subisce sostanziali modificazioni. Operata, infatti, la raccolta del succo midollare o delle cellule staminali periferiche dallo stesso paziente, si procede quindi al congelamento, con adatti preservanti e a bassissime temperature, dei globuli bianchi opportunamente separati. Successivamente, si effettua il trattamento citotossico (in questo caso al solo scopo di eradicare la malattia) e si reinfondono per via endovenosa le cellule, dopo scongelamento. Talora il materiale cellulare da reinfondere viene sottoposto a manipolazioni per purificare parzialmente le cellule staminali e per eliminare eventuali cellule neoplastiche che possono essere presenti nel midollo (purging).
7. La fase aplastica
Ambienti protetti. - Nel tempo necessario per il ripopolamento midollare, variabile da 2 a 4 settimane, la vita del paziente dipende dalla rigorosa osservanza di alcune norme igieniche e terapeutiche. Anzitutto, il paziente deve soggiornare in un locale in cui la carica batterica ambientale sia ridotta al minimo (camere sterili, ambienti in cui circoli esclusivamente aria filtrata, protetti da flusso laminare o da pressione positiva), ove non può ricevere visitatori; il personale medico e infermieristico prima di avvicinarsi al paziente deve indossare camici, guanti, mascherina, soprascarpe e copricapo, tutti sterilizzati.
Terapia di supporto. - Vitale importanza riveste anche la terapia di supporto, che consiste nella trasfusione di globuli rossi e di piastrine e nella somministrazione di farmaci atti a prevenire o curare infezioni, quali antibiotici, antivirali e antimicotici. La frequente impossibilità per il paziente di alimentarsi normalmente in seguito agli effetti tossici della terapia di condizionamento o a causa di infezioni delle mucose, rende necessario provvedere alla sua nutrizione per via venosa (alimentazione parenterale). Occorre inoltre proseguire il trattamento con farmaci immunosoppressori per evitare il rigetto e la malattia da trapianto contro ospite. Un esempio degli eventi possibili in questo periodo è riassunto nella fig. 4.
Ricostituzione ematologica. - I primi segni dell'attecchimento sono rappresentati dalla comparsa, nel sangue in circolo, di globuli rossi giovani (reticolociti) e dall'aumento dei globuli bianchi e delle piastrine. In molti casi la ricostituzione ematologica allogenica può essere documentata con adatti marcatori (per es., a livello cellulare, controllando i cromosomi sessuali delle cellule, in caso di donatore e ricevente di sesso diverso; o mettendo in evidenza la comparsa di variazioni del gruppo sanguigno maggiore o di gruppi minori del ricevente). La ricostituzione ematologica completa richiede circa tre mesi, ma il paziente può lasciare la camera sterile dopo 3-5 settimane e soggiornare in ambienti solo parzialmente protetti. Una ripresa più rapida della funzione midollare può essere ottenuta con la somministrazione di fattori di crescita emopoietici, cioè tutta una serie di molecole prodotte con la tecnica del DNA ricombinante (v. biotecnologie, vol. VIII), in grado di stimolare la crescita delle varie linee emopoietiche.
Ricostituzione immunologica. - Il recupero delle funzioni del sistema immunitario è più lento, per cui i rischi di contrarre gravi infezioni si prolungano per 6 mesi o più (v. fig. 5). Particolarmente temibili sono le infezioni cosiddette opportunistiche, cioè causate da microrganismi (Virus, Batteri o Miceti) che provocano quadri di malattia conclamata solo in soggetti le cui difese intrinseche sono marcatamente deficitarie: in queste condizioni la malattia assume caratteri di rapida diffusione, con coinvolgimento di molti organi, ed è particolarmente resistente alla terapia. Tra gli agenti patogeni più frequenti e pericolosi citiamo il Citomegalovirus, Aspergillus e Pneumocystis carinii (v. Zaia, 1990).
8. Patologie da trapianto di midollo
Il progressivo incremento del numero di trapianti di midollo si è accompagnato all'emergenza di una serie di manifestazioni cliniche, talora anche di estrema gravità, alcune delle quali completamente sconosciute in passato, altre già osservate dopo trapianti di altri organi. Nel primo gruppo sono comprese le forme acute e croniche di GvHD, che si osservano soltanto in trapiantati di midollo; nel secondo gruppo sono incluse le reazioni di rigetto, sostenute dai meccanismi della difesa immunitaria, e varie altre manifestazioni anatomo-cliniche, dovute sia agli effetti dei trattamenti chemio- e radioterapici precedenti il trapianto, sia alle infezioni favorite dall'immunosoppressione che ne consegue.
Malattia da trapianto contro l'ospite (GvHD). - È questa la più tipica patologia del trapianto di midollo allogenico. Può manifestarsi in forma acuta, di varia gravità e talvolta in modo fulminante, e colpisce soprattutto la pelle, il fegato e l'intestino, determinando dermatiti esfoliative generalizzate, epatiti acute fulminanti, enteropatie essudative. La forma cronica, a evoluzione più lenta e talvolta severamente invalidante, si manifesta con un quadro clinico che ricorda la dermatomiosite, una malattia sistemica a patogenesi autoimmunitaria. La terapia della GvHD deve essere attuata tempestivamente con farmaci immunosoppressivi non mielotossici (cortisone, ciclosporina, siero antilinfocitario).
Polmonite interstiziale. - È una grave infiammazione del tessuto polmonare cui consegue notevole difficoltà respiratoria, particolarmente frequente in pazienti trattati, nella fase di condizionamento, con alte dosi di radiazioni.
Malattia venocclusiva epatica ed endotelite tossica. - Sono patologie dovute ad alterazioni delle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni, cui seguono fenomeni di occlusione dei piccoli vasi venosi ed essudazione di plasma nei tessuti. Il grave danno endoteliale può essere indotto da varie cause, tra cui radiazioni ionizzanti, tossicità dei farmaci, infezioni e reazioni immunitarie.
9. Risultati clinici
Per alcuni tipi di malattie l'approccio trapiantologico rappresenta attualmente il miglior trattamento possibile, in grado di portare a guarigione completa e definitiva un numero significativo di pazienti. Le percentuali di successo dipendono dalla natura e dallo stadio della malattia di base, dal tipo di trapianto, dall'età e dalle condizioni generali del paziente, nonché dall'incidenza di complicazioni. In seguito a trapianto allogenico l'80-90% dei pazienti con talassemia maggiore ottiene una completa guarigione e non ha più bisogno di trasfusioni (v. Lucarelli e altri, 1990); circa il 60% dei pazienti con leucemia mieloide cronica trapiantati in fase non avanzata non mostra più alcun segno di malattia a distanza di 10 anni (v. Champlin e altri, 1988); possono considerarsi guariti il 50-60% dei malati di leucemia acuta mieloide (v. Clift e altri, 1987) e il 40-50% di adulti con leucemia acuta linfoide (v. McCarthy e altri, 1988). Nessun altro programma terapeutico è oggi in grado di assicurare risultati simili.
Le cause dell'insuccesso del trapianto midollare sono da attribuire solo in rari casi al mancato attecchimento del trapianto, mentre più frequentemente sono riconducibili all'insorgenza di gravi complicanze tossiche o infettive nel periodo che precede l'attecchimento, o alla ricaduta della malattia di base. Tuttavia, oggi è possibile diagnosticare precocemente e curare con nuovi farmaci molte gravi complicanze tossiche o infettive, migliorando la percentuale dei successi terapeutici ottenibili con il trapianto di midollo allogenico. Con l'autotrapianto si evitano tutti i problemi immunologici, ma i rischi di ricaduta della malattia di base sono maggiori. Ove sia scongiurata l'insorgenza di forme croniche di malattia da trapianto contro ospite con conseguente inabilità di vario grado, l'esito favorevole del trapianto non solo favorisce una lunga durata di vita, ma ne assicura anche un'ottima qualità, consentendo la sospensione delle altre procedure terapeutiche.
10. Prospettive future
Benché sia sperabile che in futuro per molte delle malattie sopra considerate possano essere disponibili tipi di trattamento più efficaci e meno impegnativi del trapianto, è verosimile che l'approccio trapiantologico resti una valida opzione terapeutica almeno nei prossimi 20 anni. Le attuali ricerche cliniche sono rivolte ad allargare le indicazioni al trapianto (soprattutto all'autotrapianto), ad ampliare il parco donatori per il trapianto allogenico, a utilizzare per il trapianto popolazioni cellulari selezionate e purificate.
Allargamento delle indicazioni. - Negli ultimi 5 anni, mentre il numero dei trapianti allogenici per anno è risultato pressoché stazionario, il numero degli autotrapianti è aumentato notevolmente, specialmente in Europa (v. fig. 2). Soprattutto nel campo dei linfomi e dei tumori solidi chemiosensibili, l'autotrapianto viene utilizzato per poter incrementare le dosi di farmaci citotossici con funzione tumoricida, garantendo poi il recupero ematologico e immunologico mediante reinfusione delle cellule midollari. Si sta anche studiando la possibilità di utilizzare l'autotrapianto per particolari forme leucemiche (leucemia mieloide cronica, leucemia acuta in remissione), eliminando possibili cellule neoplastiche residue con varie procedure di purificazione. Infine, è ipotizzabile che in molti degli interventi di ingegneria genetica che nel prossimo decennio potranno essere effettuati per curare malattie ereditarie si riesca a utilizzare le cellule staminali emopoietiche come vettori per inserire il gene carente direttamente nelle cellule: si realizzerebbe così un tipo particolare di autotrapianto, caratterizzato dall'introduzione di una fase di manipolazione del DNA cellulare tra raccolta delle cellule e loro reinfusione.
Donatori non consanguinei. - Nei paesi più sviluppati, nei quali le famiglie diventano sempre meno numerose, la maggior parte dei pazienti per cui sarebbe indicato il trapianto allogenico non trova donatori disponibili per la scarsa probabilità che vi sia un fratello o una sorella HLA identici. Si sta cercando di ovviare a questo grave inconveniente con la creazione delle cosiddette ‛banche di midollo osseo', che sono in realtà elenchi computerizzati nei quali vengono raccolti dati anagrafici e caratteristiche tissutali di volontari disposti a diventare donatori di midollo. Verificata per il singolo paziente l'indicazione assoluta al trapianto e l'indisponibilità di un fratello HLA identico, le sue caratteristiche tissutali vengono confrontate con quelle dei potenziali donatori: se si riesce a trovare un donatore con identità HLA, si completano gli accertamenti di compatibilità e si procede poi alla donazione e al trapianto. La possibilità di reperire un donatore compatibile è direttamente commisurata all'ampiezza del parco dei potenziali donatori. Esiste già oggi un sistema computerizzato internazionale che allarga la ricerca su base mondiale, interrogando i vari Registri nazionali. Le spese necessarie per tenere in funzione questa organizzazione non sono trascurabili, in quanto i costi delle analisi immunologiche sono elevati; occorre inoltre considerare che se il donatore non è consanguineo i rischi di fallimento del trapianto sono decisamente maggiori.
Donatori consanguinei non HLA identici. - Un altro modo per allargare il parco donatori è quello di utilizzare familiari stretti (fratelli, sorelle, genitori) che abbiano limitata diversità degli antigeni tissutali. Anche in questo caso, però, alla più facile disponibilità di un donatore si contrappone una maggiore difficoltà di ottenere un buon attecchimento senza gravi complicanze. È possibile che questi settori trapiantologici abbiano più larghe applicazioni nel prossimo futuro se si scopriranno procedure di immunosoppressione più efficaci e meno tossiche.
Cellule staminali purificate. - Molti ricercatori stanno dedicando le loro energie a tentare di purificare quanto più è possibile le cellule staminali prelevate dal midollo o dal sangue periferico. Con tecniche appropriate, già oggi, nell'infusione endovenosa, la grossa sacca contenente un litro o più di sangue midollare può essere sostituita da una siringa contenente pochi millilitri di cellule staminali purificate. Un notevole progresso potrebbe realizzarsi se si riuscisse a ottenere una espansione in vitro delle cellule staminali, cioè a moltiplicare in laboratorio un piccolo numero di cellule staminali, facilmente ottenibile dal paziente stesso o da un donatore, per procedere poi alla ripopolazione midollare; questo settore è però ancora agli albori.
Sangue di cordone ombelicale. - Una nuova sorgente di cellule staminali è stata identificata in questi ultimi anni nel sangue placentare, molto ricco di cellule totipotenti, che presenta inoltre altri vantaggi di notevole interesse pratico. Infatti, è materiale praticamente a costo zero (il sangue placentare è di norma inutilizzato, e viene eliminato, con la placenta, dopo il parto), si può facilmente raccogliere anche in condizioni di sterilità, ha capacità proliferative superiori a quelle del succo midollare. Per la sua quantità limitata (30-40 ml) non è sufficiente per trapiantare un adulto, ma è già stato usato per trapiantare fratellini di neonati, affetti da malattie leucemiche o di altro tipo (v. Kurtzberg e altri, 1996). Se non esistessero ostacoli di natura pratica, già oggi per ogni neonato si potrebbe prevedere la costituzione di una scorta di cellule staminali prelevate dal suo sangue placentare che, criopreservate, potrebbero essere utilizzate anche dopo molti anni, qualora si manifestasse una malattia suscettibile di trapianto.
11. Conclusioni
Benché gravato da costi elevati e dall'incidenza non trascurabile di complicanze anche gravi e di ricadute della malattia di base, il trapianto di midollo offre oggi possibilità di guarigione per una significativa percentuale di pazienti affetti da malattie sinora considerate incompatibili con una lunga sopravvivenza. Paradossalmente, le procedure trapiantologiche sono ampiamente disponibili nei paesi più sviluppati, dove però è più difficile trovare idonei donatori, e non sono disponibili, a causa dei costi elevati, nei paesi in via di sviluppo, dove l'alta natalità renderebbe più facile il reperimento di donatori ideali. E l'affinamento delle tecniche trapiantologiche, che richiederà tecnologie sempre più sofisticate e costose, accentuerà ancor di più questa discrepanza nel prossimo futuro.
BIBLIOGRAFIA
Champlin, R. E., Goldman, J. M., Gale, R. P., Bone marrow transplantation in chronic myelogenous leukemia, in ‟Seminars in hematology", 1988, XXV, pp. 74-80.
Clift, R. A., Buckner, C. D., Thomas, E. D. e altri, The treatment of acute non-lymphoblastic leukemia by allogenic marrow transplantation, in ‟Bone marrow transplantation", 1987, II, pp. 243-258.
Forman, S. J., Blume, K. G., Thomas, E. D. (a cura di), Bone marrow transplantation, Cambridge, Mass., 1994.
Gatti, R. A., Meuwissen, H. J., Allen, H. D., Hong, R., Good, R. A., Immunological reconstitution of sex-linked lymphopenic immunological deficiency, in ‟The lancet", 1968, n. 2, pp. 1366-1369.
Kurtzberg, J., Laughlin, M., Graham, M. L. e altri, Placental blood as a source of hematopoietic stem cells for transplantation into unrelated recipients, in ‟New England journal of medicine", 1996, CCCXXXV, pp. 157-166.
Lucarelli, G., Galimberti, M., Polchi, P. e altri, Bone marrow transplantation in patients with thalassemia, in ‟New England journal of medicine", 1990, CCCXXII, pp. 417-421.
McCarthy, D. M., Barrett, A. J., MacDonald, D. e altri, Bone marrow transplantation for adults and children with poor risk acute lymphoblastic leukaemia in first complete remission, in ‟Bone marrow transplantation", 1988, III, pp. 315-322.
Messner, H. A., McCulloch, E. A., Mechanisms of human hematopoiesis, in Bone marrow transplantation (a cura di S. J. Forman, K. G. Blume ed E. D. Thomas), Cambridge, Mass., 1994, p. 49.
Thomas, E. D., Lochte, H. L. Jr., Lu, W. C., Ferrebee, J. W., Intravenous infusion of bone marrow in patients receiving radiation and chemotherapy, in ‟New England journal of medicine", 1957, CCLVII, pp. 491-496.
Zaia, J. A., Viral infections associated with bone marrow transplantation, in ‟Hematology-oncology clinics of North America", 1990, IV, pp. 603-623.