Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella Napoli aragonese spicca la figura del poeta e umanista Iacopo Sannazaro, sodale di Pontano, attivo a corte e fedele al re Federico d’Aragona, che segue nell’esilio in Francia. La sua fama è legata al romanzo pastorale dell’Arcadia, con il quale rinnova la fortuna della tradizione bucolica in tutta Europa. Autore di rime petrarcheggianti, particolarmente apprezzate nel Cinquecento, si dedica anche alla produzione in latino, con il poema sacro De partu virginis le Eclogae Piscatoriae.
Biografia
Jacopo Sannazaro
Le muse estinte
A la Sampogna, 4-6
4. Le nostre Muse sono estinte; secchi sono i nostri lauri; ruinato è il nostro Parnaso; le selve son tutte mutole; le valli e i monti per doglia son divenuti sordi. Non si trovano più Ninfe o Satiri per li boschi; i pastori han perduto il cantare; i greggi e gli armenti appena pascono per li prati, e coi lutulenti piedi per isdegno conturbano i liquidi fonti, né si degnano, vedendosi mancare il latte, di nudrire più i parti loro. Le fiere similmente abandonano le usate caverne; gli ucelli fuggono dai dolci nidi; i duri e insensati alberi inanzi a la debita maturezza gettano i lor frutti per terra; e i teneri fiori per le meste campagne tutti communemente ammarciscono. Le misere api dentro ai loro favi lasciano imperfetto perire lo incominciato mele. Ogni cosa si perde, ogni speranza è mancata, ogni consolazione è morta.
5. Non ti rimane altro omai, sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno con ostinata perseveranza attristarti. Attrístati adunque, dolorosissima; e quanto più puoi, de la avara morte, del sordo cielo, de le crude stelle, e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta. E se tra questi rami il vento per aventura movendoti ti donasse spirito, non far mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta.
6. Né ti curare, se alcuno usato forse di udire più exquisiti suoni, con ischifo gusto schernisse la tua bassezza o ti chiamasse rozza; ché veramente, se ben pensi, questa è la tua propria e principalissima lode, pur che da boschi e da luoghi a te convenienti non ti diparta. Ove ancora so che non mancheran di quegli, che con acuto giudicio examinando le tue parole, dicano te in qualche luogo non bene aver servate le leggi de’ pastori, né convenirsi ad alcuno passar più avanti che a lui si appertiene. A questi, confessando ingenuamente la tua colpa, voglio che rispondi, niuno aratore trovarsi mai sì experto nel far de’ solchi, che sempre prometter si possa, senza deviare, di menarli tutti dritti. Benché a te non picciola scusa fia, lo essere in questo secolo stata prima a risvegliare le adormentate selve, e a mostrare a’ pastori di cantare le già dimenticate canzoni. Tanto più che colui il quale ti compose di queste canne, quando in Arcadia venne, non come rustico pastore ma come coltissimo giovene, benché sconosciuto, e peregrino di amore, vi si condusse. Senza che in altri tempi sono già stati pastori sì audaci, che insino a le orecchie de’ romani consuli han sospinto il loro stile; sotto l’ombra de’ quali potrai tu, sampogna mia, molto ben coprirti e difendere animosamente la tua ragione. […]
J. Sannazaro, Arcadia, 1504
Poeta tra i più celebri dell’umanesimo volgare, Iacopo Sannazaro (1455-1530) nasce nella Napoli di Alfonso il Magnanimo da famiglia nobile. Alla morte del padre, nel 1462, la famiglia torna nei feudi materni nel salernitano. La vita nella quiete della campagna a stretto contatto con la natura segna l’animo del futuro poeta, insieme alla scomparsa della madre Masella e alla morte prematura di una giovane di cui egli si è invaghito: di questi eventi luttuosi e del mondo rurale si trova infatti eco nel suo capolavoro, l’Arcadia. Il giovane Sannazaro è nuovamente a Napoli intorno alla metà degli anni Settanta per seguire i corsi di umanità impartiti da Giuniano Maio presso lo Studio.
Importante testimonianza del suo apprendistato umanistico sono gli “zibaldoni” autografi recentemente studiati da Carlo Vecce. In questo periodo, con il nome di Actius Sincerus, è accolto da Pontano nell’Accademia Pontaniana, di cui diventa negli anni uno dei membri più attivi; dal 1481 entra al servizio di Alfonso II di Napoli, duca di Calabria. Inizia anche a comporre versi sciolti, in particolare egloghe, primo nucleo dell’Arcadia. Si lega successivamente all’ultimo dei sovrani aragonesi, il futuro re Federico I, protettore dei poeti e destinatario della Raccolta aragonese, che regala a Sannazaro la villa di Mergellina.
Nel momento della caduta della dinastia, l’umanista resta fedele al “suo” re, vendendo per lui buona parte dei suoi beni e seguendolo in esilio in Francia nel 1501. L’esilio costituisce uno spartiacque ben preciso nella produzione di Iacopo Sannazaro: in Francia egli si dedica alla ricerca di preziosi codici di rari autori della tarda antichità e, una volta tornato a Napoli, trascorre gli ultimi 25 anni di vita curando la stesura del suo capolavoro latino, il De partu Virginis (1526), poema dell’armonica fusione tra classicità e cristianità, e occupandosi della revisione costante delle sue opere latine, Elegiae, Epigrammi e le notissime cinque Eclogae Piscatoriae con le quali trasferisce il genere bucolico dall’Arcadia al golfo di Napoli. Muore nel 1530 a Napoli nella casa della nobile Cassandra Marchese, che ne ha confortato la vecchiaia. È sepolto nella chiesetta di Santa Maria del Parto, fatta costruire dall’artista a Mergellina, a ricordo perenne del poema latino da cui si attendeva gloria imperitura.
L’ Arcadia
In realtà, l’opera che consegna alla fama della letteratura mondiale Iacopo Sannazaro è l’Arcadia, romanzo pastorale composto da un prologo, 12 prose, 12 egloghe e un congedo indirizzato A la sampogna; un prosimetro in volgare, quindi, sulla scorta di precedenti illustri quali la Vita nova di Dante e soprattutto l’Ameto di Boccaccio. All’Arcadia va il merito di aver innestato in una forma narrativa l’eredità del codice bucolico e di averla trasmessa alla letteratura occidentale; a essa si richiama l’Accademia di Arcadia nel Settecento.
Le vicende redazionali si possono suddividere in due momenti: a metà degli anni Ottanta il poeta raccoglie alcune sue egloghe sciolte, precedentemente composte sulla scia del successo della produzione pastorale senese, come quella di Francesco Arzocchi e Filenio Gallo. A esse ne aggiunge altre fino a un totale di dieci che, precedute da un prologo e inserite in una cornice di altrettante prose, vengono a costituire la prima redazione dell’opera, il Libro pastorale nominato Arcadio. Successivamente, intorno al 1496, il poeta compone altre due prose e le egloghe corrispondenti nonché l’epilogo, sottoponendo inoltre il testo a una revisione linguistica, che, grazie alla sostituzione di forme dialettali e di latinismi con termini toscaneggianti, lo rende particolarmente apprezzabile nel Cinquecento, in primis da Pietro Bembo (1470-1547). Nel 1501, mentre Sannazaro era in Francia, compare un’edizione scorrettissima dell’Arcadia, senza l’approvazione dell’autore. Pertanto, nel 1504, non ancora tornato a Napoli, egli dà il consenso perché l’amico Pietro Summonte curi quella che diventa l’edizione definitiva per i tipi di Sigismondo Mayr (? - 1516), da cui dipende buona parte della tradizione a stampa dell’opera.
La trama è piuttosto semplice, molto più complesse risultano invece le allusioni, letterarie e politiche, di cui essa è intessuta, richieste dal genere stesso. La regione greca dell’Arcadia, patria mitica dei pastori, dei loro canti e della loro vita idilliaca, è il luogo di evasione in cui si rifugia il pastore napoletano Sincero, che vi trova conforto dalle pene di un amore infelice nella solidarietà con i pastori; le egloghe presenti nel romanzo corrispondono ai canti che questi intonano secondo la migliore tradizione bucolica, mentre le prose della prima parte del romanzo, a carattere eminentemente descrittivo, formano lo sfondo per le attività arcadiche. Con la prosa VII, che segna la svolta narrativa nella struttura prosastica, si rivela chiaramente l’identificazione del protagonista con lo scrittore, secondo una delle regole dello statuto bucolico, quella per cui, sotto il velo dell’allegoria pastorale, si nascondono personaggi, luoghi, situazioni della realtà dell’autore. Da questo momento il romanzo presenta un Sincero nostalgico della patria e desideroso di lasciare l’Arcadia e il suo poetare umile per conseguire fama eterna con un più alto genere di poesia; nell’ultima prosa, in seguito a un sogno premonitore di eventi luttuosi, egli compie un prodigioso viaggio-visione sotterraneo per riemergere nella Napoli umanistica nella quale riecheggia il canto dolente di Meliseo-Pontano per la moglie Filli (egloga XII). La vicenda, calata in un’atmosfera sospesa, ruota attorno a due fulcri essenziali nel vissuto di ogni uomo: la tensione verso il sogno e l’accettazione della realtà. Nel congedo A la sampogna è evidente l’intenzione del poeta di superare l’esperienza bucolica: nella riflessione critica sul genere bucolico, sulla propria vocazione poetica e sulle sorti della poesia si riconosce uno dei temi principali del romanzo pastorale, che si intreccia parimenti con la consapevolezza di una svolta culturale e politica nella Napoli di fine secolo.
La continua rielaborazione cui il poeta sottopone le sue opere porta alla creazione di una forma lirico-narrativa dallo stile equilibrato: nelle prose prevale una sintassi moderna, paratattica e musicale, evocativa nella sua liricità, caratterizzata da quello che Maria Corti ha definito “movimento ad onde”; nelle egloghe si incontra tanto la polimetria caratteristica del genere bucolico (la terzina sdrucciola o l’endecasillabo con la rimalmezzo), quanto l’influenza lirica di modelli metrici petrarcheschi, quali la canzone e la sestina. Le fonti che fanno dell’Arcadia una summa del genere pastorale non si esauriscono con gli autori di egloghe della classicità o del tardo antico, Teocrito, Virgilio, Calpurnio e Nemesiano: ad essi vanno aggiunte, tra le altre, anche le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio, la Naturalis historia di Plinio (23/24-79), e, tra i moderni, il Bucolicum carmen del Petrarca, le “opere minori” del Boccaccio e la produzione dei bucolici toscani del Quattrocento.
Fortuna europea
L’Arcadia è in un rapporto di reciproca influenza con la Pastorale del poeta napoletano Pietro Jacopo De Jennaro, una raccolta di 15 egloghe precedute da una prosa narrativa iniziata nel 1482 e pubblicata nel 1508; anche la produzione bucolica cinquecentesca è in buona parte debitrice a Sannazaro: basti ricordare la fioritura del dramma pastorale, dall’Aminta (1573) di Torquato Tasso al Pastor Fido (1589) di Giovan Battista Guarini. Ma la fortuna dell’opera oltrepassa i confini nazionali, dando origine a una lunga schiera di letterati, soprattutto in Spagna, Francia e Inghilterra, che a essa si ispirano: solo nel Cinquecento si contano numerosi romanzi pastorali quali Diana Enamorada (1542) di Jorge de Montemayor, Bergerie (1565) di Rémy Belleau, Stepherd’s Kalendar (1579) di Edmund Spenser, Galatea di Cervantes (1585), Arcadia (1590) di Phlip Sidney, fino alla notevole fortuna editoriale dell’Astrea di Honoré d’Urfé (pubblicata postuma in forma completa nel 1632-1633).
Sonetti e canzoni
Se con l’Arcadia il poeta ripercorre la sua avventura amorosa ma soprattutto poetica giovanile e se la lascia alle spalle, le rime, iniziate fin dagli anni Novanta del Quattrocento, testimoniano il passaggio alla produzione esclusivamente lirica del Sannazaro. Esse furono pubblicate postume, a stampa nel 1530, sotto il titolo di Sonetti e canzoni: la raccolta è costituita da 101 componimenti in metri vari (sonetti, canzoni, sestine, madrigali) ed è divisa in due parti, in coda alle quali sono stati aggiunti, presumibilmente dal curatore della princeps, tre capitoli in terza rima. Secondo Carlo Dionisotti tale organizzazione non segue un ordinamento cronologico né rispecchia la struttura che il poeta avrebbe dato alla silloge. La seconda parte, seguita dalla lettera di dedica a Cassandra Marchese, racchiude il maggior numero di componimenti e sembra costituire un canzoniere più compatto in cui prevalgono i motivi legati a un’avventura sentimentale ormai lontana. In entrambe le parti si rileva la raffinatezza formale che tende al monolinguismo di stampo petrarchesco e che ne sancisce la fortuna nel Cinquecento.