SANSOVINO
. Iacopo Tatti, detto il S., architetto e scultore, nacque a Firenze il 2 luglio 1486, morì a Venezia il 27 settembre 1570. Entrò giovinetto nella bottega di Andrea Contucci, detto, dalla sua patria, il Sansovino e, probabilmente, lo seguì a Roma, ove dimostrò il suo attaccamento al maestro da cui ebbe il soprannome, iniziando il monumento funebre del cardinale di Sant'Angelo (1503) in San Marcello al Corso, scolpendo poi il Bacco, allogatogli da Giovanni Bartolini per la villa di Gualfonda, la statua di S. Giacomo Maggiore per S. Maria del Fiore e quella di S. Giacomo di Compostella, ora nella chiesa della nazione spagnola di S. Maria di Monserrato a Roma. A Firenze, dove tornò malato dal 1510 al 1511, stette sino al 1518, anno in cui fece ritorno a Roma, per dimorarvi sino ai giorni del Sacco. Rifugiatosi a Venezia, vi fissò definitiva dimora, divenendo in breve "proto" della basilica di San Marco e stringendosi in amicizia con Tiziano e con l'Aretino, che lo consigliarono a non arrendersi alle lusinghe della corte di Francia, né a quelle di Sebastiano del Piombo e di prelati romani per il ritorno a Roma. Stabilitosi a Venezia, fu a Padova prima per compiere il rilievo marmoreo, interrotto dalla morte di Antonio Minelli, nella basilica del Santo, poi per fare l'altro della Miracolosa guarigione della giovane Carilla, rilievo che maturò lungamente avanti di compierlo, come fu di tante altre sue opere. Prima dei due rilievi, datò la Madonna col Bambino nell'atrio della Galleria dell'Arsenale (1534); e, subito dopo aver iniziato il rilievo della giovane Carilla nella basilica del Santo, architettò la libreria di S. Marco, iniziò la costruzione della "Loggetta al Campanile", gettò i rilievi in bronzo per il pergolo di destra nel presbiterio della basilica (1537). Sette anni dopo, compì il secondo gruppo delle storie di San Marco, per il pergolo di sinistra; nove anni dopo, fuse in bronzo la porta della sagrestia della basilica.
Nel 1550 gli fu allogata dal duca di Ferrara una statua d' Ercole, ora sulla Piazza di Brescello, e nel 1554 accettò di eseguire due statue di giganti, Marte e Nettuno, sullo scalone del Palazzo ducale, più tardi compiute (1566-67); in quell'anno consegnò anche al fonditore il modello in cera per la statua sul portale di San Giuliano, rappresentante Tommaso Rangone. Mentre l'attività di scultore pareva moltiplicarsi, quella di architetto dava un suo proprio carattere a Venezia cinquecentesca: il "proto" della basilica marciana soprintendeva a tutte le fabbriche di Venezia e fuori di Venezia dipendenti dai procuratori di S. Marco de supra; compiva le Procuratie vecchie, faceva i progetti per l'erezione del grande edificio della scuola di S. Maria di Val Verde e della Misericordia, per la costruzione della chiesa di S. Francesco delle Vigne, per la riedificazione della Zecca prospiciente il Molo, e per l'erezione del palazzo della Libreria di San Marco. Sul modello del grande architetto, si gettano le fondazioni del nuovo palazzo Cornero, della "Ca' Grande" a S. Maurizio sul Canal Grande; si ricostruisce la chiesa di San Gimignano al fondo della Piazza di S. Marco, si compie una parte delle Fabbriche nuovissime di Rialto, prospicienti il Canal Grande, si restaurano sotto la sua direzione il palazzo dei duchi d'Urbino a Venezia e la cupola della Cappella emiliana in S. Michele in Isola. L'architetto principe è chiamato nel Cadore, a Belluno per mappe topografiche, a Vicenza per consiglio sulla ricostruzione del Palazzo comunale e per esame delle condizioni della tribuna del duomo; a Firenze va alla corte di Cosimo I; a Padova è consultato per la tribuna della cattedrale, a Pola per i restauri all'antica chiesa di S. Maria Formosa o del Canneto, a Brescia per il compimento del palazzo del Comune. E non solo consigli, ma esempî diede a quanti accorrevano a Venezia magnificamente rinnovata, non solo di edifici, ma d'altari, di cori, di absidi, di mausolei, come quelli del vescovo Livio Podocataro in S. Sebastiano, del doge Francesco Venier in San Salvadore.
Il primo monumento creato dal S. in San Marcello a Roma, per il cardinale di Sant'Angelo, Giovanni Michiel (1503), fu proseguito in momenti diversi; vi fu associato il sepolcro del vescovo Antonio Urso, rimasto incompiuto, quando Iacopo fuggì da Roma saccheggiata. La composizione primitiva comprende la gran nicchia mediana, come nei monumenti Sforza e Riario di Andrea Sansovino, il sarcofago con il defunto e la lunetta con la Madonna fiancheggiata da pilastri dalla lunetta in giù, da pilastrini in su fino alla cimasa. Di qua e di là dalla finta cella di mezzo, sono due santi entro un nicchio col catino a conchiglia, come nelle tombe di Andrea. Tutta la composizione del sepolcro è in corrispondenza con i mausolei del maestro: la figura di S. Pietro e quella in alto del Battista sono le più prossime ad Andrea, e la stessa Madonna nella lunetta è quanto di più quattrocentesco si sia riflesso nell'arte di Iacopo; anche in S. Iacopo apostolo, allogatogli per S. Maria del Fiore, nel 1511, il S. s'attiene agli esemplari del maestro, ma li anima con movimento più agitato di ombre, li dispone in modo più ritmico; e sempre più ricco, più fluido, più pittorico, si mostra nel S. Giacomo di Compostella. Tra le due statue è un crescendo d'ampiezza e di potenza per influsso di Michelangelo che lo sospinge verso la forma atletica. Nel Bacco destinato alla villa di Gualfonda, passato poi in dono al granduca Cosimo, scolpito circa il 114, quando il S. compiva la prima statua di S. Iacopo, egli dimostrò d'aver fatto suo sangue l'arte del maestro, e di esser andato oltre, guardando a Michelangelo e all'antico, cui s'era dedicato restaurando statue classiche, fra altre il Laocoonte. Nel periodo 1511-1517, a Firenze, senti il gran lievito dell'arte di Michelangelo, e, tornato nel 1518 a Roma, nella Madonna detta "del Parto" in S. Agostino, grande, colossale, romana, si andò sempre più allontanando dalle forme tranquille, miti, raffaellesche, di Andrea. A Venezia, dopo un periodo di prevalenza dell'attività architettonica sopra ogni altra, egli chiude, nel 1534, entro un tabernacolo classico, la Madonna col Bambino dell'Arsenale, squisita per misurato ritmo architettonico e grazia femminea. Siamo lontani dalla Madonna di S. Agostino a Roma, tutta ricerca d'imponenza classica, in quest'opera che riflette una delicata sensibilità e s'avviva di ricchezza pittorica nel panneggio mosso da ombre. Le forme gracili della Madonna dell'Arsenale si fanno, nel gruppo in terracotta di Madonna con Bambino leggente, del Museo di stato a Berlino, ampie, gagliarde; quadre sono le spalle, eretto il seno, che s'appunta ai drappi come nelle statue michelangiolesche; e la terracotta emula il bronzo nelle pieghe dei tessuti, nel modo di rendere le chiome. Vicina di tempo a quest'opera è la lunetta della Ca' d'Oro a Venezia, ove la personalità del S. s'esprime nello scatto della vergine che si tende verso l'alto, solleva di slancio il fanciullo, lo stringe contro sé, rendendogli il bacio con un senso d'acuta impressionabilità, più tardi riflesso nello slancio nervoso della figura di S. Giovanni Battista (chiesa de' Frari a Venezia), il cui volto, oscurato dai veli dell'agonia, teso da spasimo, è tra le più sublimi evocazioni di martirio suggerite dalla Controriforma.
Un anno dopo aver modellato la Madonna dell'Arsenale, Iacopo compì a Padova, per la chiesa del Santo, il Miracolo del fanciullo Parrasio, già condotto a buon punto da Antonio Minelli. Si studiò di adattarsi alle forme lombardesche dominanti nella cappella Antoniana, senza venir meno alle proprie tendenze d'architetto e di plastico, come dimostrò appieno in un secondo rilievo, tutto suo, raffigurante la Miracolosa guarigione della giovane Carilla.
Scultura e architettura compongono un insieme di calma bellezza, tipicamente sansovinesca, nella loggetta di Piazza San Marco. È tutta una decorazione ispirata da motivi classici, che l'eleganza innata del Sansovino fa proprî: la statua d'Apollo, di greca hellezza, deriva, nello slancio delle forme agili, armoniose, dall'Apollo del Belvedere; quella della Pace richiama tipi michelangioleschi, ma temperati da una mesta grazia muliebre d'atteggiamento e dal ritmo dolcissimo, che piega il corpo agile e gagliardo e si ripercuote nel cader languido del manto e delle braccia. Pallade soffusa d'ombre, Mercurio alipede, le sono compagni. Nell'interno della loggia, la decorazione in pietra grigia, di cui rimane qualche frammento, dimostra come il S. risusciti il senso romano della massività del rilievo, pur vestendolo di nuova luce di bellezza. A contrasto con quella imponenza antica, il Fiorentino, che a Venezia rievoca decorazioni romane, modella scherzando con l'agile stecca il sorridente gruppo della Madonna, Gesù e San Giovannino, raggiungendo una morbidezza, una facilità di movimento, una fluidità di pieghe, che il marmo non avrebbe consentite; anche il tipo michelangiolesco della Vergine s'ingentilisce, s'affina, si schiara d'una luce di sorriso.
Nella creta e nella cera l'architetto principe di Venezia cinquecentesca, maestro di ritmi, classico nell'espressione di calma e di fiorita beltà, rivaleggia coi grandi maestri del pennello veneziano per il rapido tocco, la vivida fantasia. Certo, lo schietto discendente della tradizione disegnativa fiorentina fu conquiso dalla grandiosità delle forme michelangiolesche, ma più che verso la massa soverchiante e l'immane forza scultoria del Buonarroti egli tese verso gli effetti di ricchezza decorativa, d'intensità drammatica, di scioltezza pittorica, che l'arte veneziana sempre più nel tempo sviluppa. Son queste appunto le qualità che adattano alla terra veneta un capolavoro dell'arte sansovinesca: la porta tra il presbiterio e la sagrestia di S. Marco, ove trionfa la virtù pittorica, che il Fiorentino, benché ispirato da Michelangelo nell'energia dei profili e nelle gonfie muscolature, ha tratto dalla sua città d'adozione: Venezia.
Oltre la portella, Iacopo eseguì le statue dei quattro Evangelisti per la cancellata del presbiterio, fra essi il cupo San Giovanni, invasato da spirito divino, creato di getto, a colpi di stecca simili a pennellate tintorettesche. Anche i rilievi bronzei della tribuna di San Marco, con le storie di questo santo, rispecchiano l'intensità della visione drammatica di Iacopo nelle masse delle figure, insieme travolte da ondate di passione. Michelangelo si riflette nella modellatura ombrata delle teste, nel vigore dei muscoli, nello slancio energetico delle forme; ma lo scultore interpreta il michelangiolismo in senso veneto, tanta è la rapidità di visione che nasce dall'incatenarsi dei movimenti, dalle stesse gradazioni del rilievo su piani ondeggianti, fluidi, come se tracciati dai solchi di un impetuoso pennello.
La grandezza di Iacopo S. scultore vien meno nello sforzo accademico dei colossi marmorei di Marte e Nettuno, al sommo della scala dei giganti in Palazzo ducale a Venezia, eseguiti poco tempo dopo ch'egli ebbe fornito un esempio solenne di facciata di tipo commemorativo con quella di S. Giuliano, ove collocò sulla lunetta della porta la nobile figura del ravennate Tommaso Rangone.
La Sacra conversazione del Museo di stato a Berlino, il Cristo risorto nel Museo Nazionale di Firenze, i camini della villa Donà delle Rose, la figura del vescovo Livio Podocataro, composta in augusto atteggiamento di pace nel mausoleo di S. Sebastiano, la Speranza del mausoleo Venier, mostrano come si svolga nel tempo l'attività del grande scultore, che in quella figura, esempio di ritmica eleganza per la sovrana dignità della posa, ci dà l'ultima incarnazione del suo ideale di bellezza classica, sereno e profondo.
Mentre tante sue opere di scultura adornavano Venezia, la città veniva magnificamente ingrandita dal "proto" di San Marco, che non solo nell'interno della basilica lavorò a rafforzare la cupola e la tribuna dell'abside, ma all'esterno sistemò decorosamente la Piazzetta, la prossima Pescaria, la Beccaria, Calle Largo di S. Marco e la grande piazza stessa. Intanto il genio dell'architetto aveva fatto sorgere il Palazzo della zecca, nobilissimo nell'imponenza delle masse grandiose e semplici, e la Libreria marciana, regalmente adorna; aveva rinnovata la chiesa di San Gimignano di fronte a S. Marco; dato nobile aspetto a "un ridutto Lobia dei Nobili", con la "loggetta al Campanile", ove si sarebbe accolta, secondo l'Aretino, "la forma composta di tutte le bellezze dell'architettura". La libreria di san Marco fu compiuta dopo la morte del suo autore, ma ne fu rispettato il disegno, così che gli edifici trionfali si estesero lungo la Piazzetta e, con tre arcate, sul Molo.
Mentre sorgeva tutto quel gruppo magnifico di costruzioni, veniva eretta la chiesa di S. Giuliano dal S., con la collaborazione di Alessandro Vittoria; si spiegava il prospetto dell'organo in S. Salvatore; si ricostruiva la chiesa di S. Faustino, si elevavano San Francesco della Vigna e la Scuola grande di S. Maria della Misericordia, la chiesa di S. Martino; sorgeva, sul modello del S., il palazzo Dolfin a Rialto e l'altro Corner "Ca' Grande". Tutte queste fabbriche dettero la nuova impronta cinquecentesca a Venezia, una grand'aria trionfale. Il Fiorentino, eletto figlio adottivo di Venezia, portò nell'architettura le forme pittoriche; col rilievo e l'addentramento dei piani, col ritmo di pieni e di vuoti che si completano a vicenda, diede all'architettura colore, realizzando negli elementi costruttivi stessi il pittorico derivato dal giuoco di luci e d'ombre. Venezia e le città dipendenti dalla Serenissima sentirono e seguirono il grande rinnoiatore e maestro. (V. tavv. CLI-CLI).
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