SANT'EUSTACHIO
SANT’EUSTACHIO. – Le origini di questo casato romano, che ebbe il suo massimo fulgore nei secoli XIII e XIV (potendosi collocare allora a buon diritto nella ristretta cerchia dei lignaggi baronali romani), sono incerte.
I più remoti esponenti del casato non possono essere, infatti, identificati con la dovuta certezza tra i vari romani che a partire dagli ultimi anni del X secolo sono indicati dalle fonti come «de Santo Eustachio», «a Sancto Eustachio» o simili locuzioni; è impossibile discernere se tale espressione, accompagnata a un nome di battesimo, stesse a indicare un già consolidato nome di famiglia o un semplice riferimento all’area cittadina romana dove sorgeva la chiesa dedicata a sant’Eustachio, non distante dal Pantheon.
La fortuna della famiglia appare comunque in tutta evidenza con le attestazioni relative a Enrico de Santo Eustachio (a partire dal 1088) e ai suoi due figli, Enrico e Ottaviano, attivi nella politica romana del XII secolo, inseriti prevalentemente nello schieramento filoimperiale. Essi infatti appoggiarono decisamente prima Enrico IV e Clemente III e successivamente l’antipapa imperiale, Silvestro IV, contro Pasquale II; nel 1130, i due fratelli figurano tra i vari «Romane urbis potentes» che inviarono una missiva all’imperatore Lotario in sostegno dell’antipapa Anacleto II (C. Baronio, Annales Ecclesiastici, a cura di A. Theiner, 1869, p. 422). Nel 1178, il rilievo del lignaggio era ormai tanto acclarato che il pontefice Alessandro III non esitava a definire quello dei «nobiles viri filii et nepotes Henrici de Sancto Eustachio» uno dei maggiori casati romani (Epistolae pontificum..., a cura di S. Loewenfeld, 1885, pp. 161 s., n. 282). Il papa interveniva allora in loro favore affinché l’arcivescovo Cristiano di Magonza provvedesse a risarcire dei danni subiti un esponente della famiglia che, nel territorio di uno dei suoi castelli, era stato disarcionato e spogliato delle armi dagli uomini dello stesso rappresentante imperiale in Italia.
Non risultano affatto chiari i fattori che permisero ai Sant’Eustachio di assumere e mantenere un livello pari a quello dei grandi casati baronali romani, che dall’inizio del secolo XIII si stavano affermando prepotentemente al vertice dell’aristocrazia romana.
Diversamente dagli altri barones, per i quali una determinante spinta propulsiva derivò dal ‘nepotismo’, ossia dai favori accordati loro da papi e cardinali, i Sant’Eustachio – così come gli Anguillara e i Normanni – non annoverarono tra le loro fila né cardinali né, tanto meno, papi: ma dovette giocare a favore del lignaggio (o almeno dei suoi rami principali) la sua relativa antichità, che gli permise di conservare ancora per tutto il Duecento e i primi decenni del Trecento parte del potere e dei domini accumulati nel corso del XII secolo, quando indubbiamente aveva toccato il suo apogeo.
La genealogia non è ricostruibile con certezza se non a partire dalla discendenza di Oddone Sancti Eustachii, defunto anteriormente al 1238, anno in cui l’omonimo figlio ricoprì un importante ufficio in seno alle magistrature capitoline, quello di magister edificiorum Urbis (circostanza già indicativa di un rango elevato). I loro discendenti sostennero apertamente l’imperatore Federico II e successivamente Manfredi e Corradino. Angelo di Oddone, ad esempio, fu podestà di Pisa nel 1252, allorquando la città era impegnata nella guerra contro la guelfa Firenze.
È lecito supporre che proprio il tracollo militare degli ultimi Svevi dovette irretire, o quanto meno rallentare, lo slancio espansivo della famiglia. Da questo punto di vista, il personaggio che desta maggior interesse è Alcheruzio di Sant’Eustachio che Saba Malaspina ricorda tra i «capita gebellinorum Urbis», definendolo «vir animosus et valde pugnabilis» (Die Chronik des Saba Malaspina, a cura di W. Koller - A. Nitschke, 1999, pp. 199 e 201). Apertamente schierato con Manfredi (come altri esponenti del ghibellinismo romano) e per questo scomunicato, Alcheruzio tuttavia chiese e ottenne il perdono papale prima ancora della capitolazione dello svevo a Benevento, avendo ormai ben chiaro che per il figlio di Federico II non vi erano speranze di successo nei confronti di Carlo d’Angiò. La scelta si ripeté due anni più tardi (1268), quando, alla discesa in Italia di Corradino, la fazione ghibellina romana, e anche i Sant’Eustachio, si unirono con lui; e alla cosiddetta battaglia di Tagliacozzo Alcheruzio perse la vita.
Pur se solamente a partire dal Duecento, è possibile individuare con sicurezza le dominazioni castrali dei Sant’Eustachio, sin dall’XI secolo orientate verso la Sabina come spazio di affermazione territoriale. In comparazione con altri casati baronali, i castelli di tale area sottoposti nei secoli XIII e XIV al dominatus di Sant’Eustachio sono in numero ristretto; cionondimeno, costituirono una base di potere territoriale che permise alla famiglia di giocare in molti casi un ruolo di primo piano nelle vicende politiche romane.
Le strategie di penetrazione del lignaggio in Sabina risultano invero diversificate, non limitate a possibili acquisti o fondazioni di castelli. Il controllo sul castrum di Aspra (oggi Casperia in Sabina; un piccolo comune rurale limitrofo ai castelli che più tardi costituirono il dominio familiare) fu ad esempio acquisito da Tebaldo di Oddone, nel 1250, ottenendo la podesteria. Prima del 1264, inoltre, quattro Sant’Eustachio (Alcheruzio, Luca, Angelo e Giovanni) occuparono con la violenza un castello dipendente dall’abbazia di Farfa, Bocchignano, senza curarsi, almeno in un primo tempo, delle disposizioni papali che imponevano di restituire e di risarcire. Cantalupo, Forano, Catino, e poi Poggio Catino, Collenero, il castrum Filiorum Hugonis (Montefiolo), tutti limitrofi e situati in Sabina, tra Due e Trecento passarono in un modo o nell’altro sotto la signoria dei Sant’Eustachio. Il castrum Gualche o Valche, situato lungo il percorso della via Flaminia a poco più di dieci chilometri da ponte Milvio, proprio di fronte a Castel Giubileo, costituiva il dominio familiare più prossimo a Roma; compare nelle fonti solo nel 1279-81 come «casale seu castrum quod dicitur Gualca» (odierno casale Valchetta), quale proprietà di Oddone e Paolo, figli di Angelo Sant’Eustachio; al suo interno era operante una gualchiera («vasca ad vascandos pannos», V. Federici, Regesto del monastero..., 1900, p. 412).
Come nel caso degli altri lignaggi baronali romani, anche vari Sant’Eustachio ricoprirono l’ufficio di podestà in città comunali dell’Italia centrale. Così, ad esempio, Oddone di Oddone a Spoleto nel 1230; Angelo a Pisa nel 1252; Matteo a Macerata nel 1256; Oddone a Rimini nel 1289 e a Narni nel 1296. Inoltre Giovanni, proconsul Romanorum, nel 1280 fu capitaneus et conservator pacis et gubernator populi di Firenze.
Relativamente inferiore risulta il numero degli incarichi nell’ambito dell’amministrazione comunale capitolina. Angelo figura nella lista dei consiliarii Urbis del 1242; Luca fu magister edificiorum Urbis nel 1262; Oddone fu senatore di Roma in coppia con Pietro di Stefano di Raniero Stefaneschi nel 1293-94, così come Tebaldo che ricoprì la carica senatoria nel 1309-10 (in coppia con Giovanni di Pietro Stefaneschi) e nel 1340-41 (in coppia con Martino di Francesco Stefaneschi).
Proprio la figura di Tebaldo risulta essere quella più rilevante – e anche meglio testimoniata – tra tutte quelle dei vari esponenti del casato tra i secoli XIII e XIV. Egli può a ragione considerarsi uno dei maggiori esponenti del ‘ghibellinismo’ romano dei primi decenni del Trecento, insieme a Sciarra Colonna e a Giacomo Savelli. Nel 1305, appare tra coloro che, insieme ai Colonna, ai Savelli, a molti Annibaldi e a diversi altri baroni romani, denunciarono di aver subito torti dalla politica perseguita a favore dei propri congiunti dal defunto pontefice Bonifacio VIII. Non per questo Tebaldo trascurò lo scenario territoriale. Nel 1310, infatti, reagì con estrema violenza al disegno che un altro romano, Riccardo di Pietro Iaquinti, stava mettendo in atto da circa un lustro, ovvero di dar vita a una propria potente signoria territoriale nella Sabina, sottomettendo con scaltre mosse politiche e con il ricorso alla più dura violenza armata taluni comuni rurali di quel territorio, sul quale Sant’Eustachio non desiderava avere così potenti rivali.
Quando Enrico VII di Lussemburgo, intenzionato a ricevere la corona imperiale a Roma, entrò in città con le sue numerose truppe il 7 maggio 1312, suscitando gravissimi tumulti e scontri armati, Tebaldo si schierò dalla parte di Enrico e con un manipolo di armati presidiò militarmente l’area della chiesa di S. Maria Sopra Minerva. E molti anni dopo ebbe a confermare i suoi orientamenti ‘ghibellini’: nel febbraio del 1328 partecipò, occupando la Sabina, alle azioni militari delle truppe di Ludovico il Bavaro, in marcia per Roma per ottenere la corona imperiale. Solo due anni dopo, Tebaldo ottenne il perdono dal papa.
Giovanni Cavallini, in una delle sue note apposte al Vaticano latino 1927 (c. 20 v), afferma – riferendosi alle prepotenze compiute nei confronti dei religiosi e canonici del Pantheon, tra i quali lui stesso – che Tebaldo «vivit mala vita, auferendo et spoliando altare ecclesie Sancte Marie Rotunde oblationibus largitis ibidem a fidelibus christiana contra canones et instituta sanctorum, ergo morietur mala morte quia cupidus, pecuniarum amator, inflatus, volens aliis tyrannice dominari, blasphemus Deum spolians heretico more; ingratus beneficii Dei et hominum, malum pro honore tribuens; scelestus modum peccati transcendens, et interficiens animam suam furtis rapinis, et sacrilegiis» (citato da Miglio, 1991, pp. 46 s).
Nel corso del Trecento, tuttavia, i profondi mutamenti degli assetti del potere e delle dinamiche economiche portarono a una selezione tra i lignaggi baronali, e i più potenti riuscirono a impadronirsi con il denaro o la violenza di molti domini territoriali delle famiglie meno rilevanti; così fecero i Savelli a danno dei Sant’Eustachio. E una testimonianza del declino incipiente dei Sant’Eustachio può essere considerata una rara controversia giudiziaria che la casata sostenne per lungo tempo (sino al 1344) con un altro lignaggio baronale, i Venturini (un ramo dei Romani-Bonaventura), «super magis et minus antiquam nobilitatem unius vel alterius partis» (I. Schuster, Un protocollo..., 1912, p. 579).
Sono ignoti i prodromi della controversia, ma già durante gli anni del pontificato di Niccolò III (1277-80) il camerlengo papale incaricato di dirimerla sentenziò sulla maggiore vetustà e sul più elevato livello di nobiltà dei Sant’Eustachio e in modo analogo si espresse anni dopo anche il potente cardinale Giovanni Boccamazza (m. 1309), al quale i Venturini si erano nuovamente appellati. Nel 1344, si arrivò a una nuova sanzione, quando una ‘commissione’ composta da due dei più influenti esponenti del baronato romano, Pandolfo Savelli e Napoleone Orsini, e da un nobile reatino, dopo aver raccolto per mesi prove indiscutibili, si pronunciò a favore dei Sant’Eustachio, la cui nobiltà era «magis, melius atque tutius certiusque probata» (ibid., p. 582); affermando tra l’altro che nessuna testimonianza poteva suffragare la discendenza dalla gens Ottavia e dal princeps Alberico che si attribuivano rispettivamente i Sant’Eustachio e Venturini, ma non scartando altre e altrettanto fantasiose ascendenze e collateralità. Nel 1390 (evidentemente i Venturini, ancora non si erano rassegnati del tutto), l’abate di Farfa confermava l’arbitrato di quasi mezzo secolo prima.
Fonti e Bibl.: Fermo, Sezione Archivio di Stato di Fermo, Archivio comunale, Diplomatico, doc. 54 H; L.Tonini, Storia civile e sacra, III, Rimini 1862, p. 219; C. Baronio, Annales Ecclesiastici, a cura di A. Theiner, XVIII, Barri-Ducis 1869, pp. 422, 522; M. Tabarrini, Sommario cronologico di carte fermane anteriori al secolo XIV, in G. De Minicis, Cronache della città di Fermo, Firenze 1870, p. 503, n. 518 (con data 1293); A. Sansi, Documenti storici inediti in sussidio allo studio delle memorie umbre, Foligno 1879, pp. 247 s., n. 29; Epistolae pontificum romanorum ineditae, a cura di S. Loewenfeld, Lipsiae 1885, pp. 161 s., n. 282; Il Regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, a cura di I. Giorgi - U. Balzani, III, Roma 1883, pp. 149-151, n. 437, pp. 199-202, n. 492, V, 1892, p. 116, n. 1115; V. Federici, Regesto del monastero di S. Silvestro de Capite, in Archivio della Società romana di storia patria, 1900, vol. 23, pp. 410-455 (in partic. pp. 412 s., n. 165); Les registres de Urbain IV (1261-1264), a cura J. Guiraud, II, Paris 1901, p. 313, n. 652; P. Egidi, Necrologi e libri affini della Provincia romana, I, Roma 1908, p. 41; I. Schuster, Un protocollo di notar Pietro di Gregorio nell’archivio di Farfa, in Archivio della Società romana di storia patria, 1912, vol. 35, pp. 542-582 (in partic. pp. 544-548, 552, 556 s., 579-582); Codice diplomatico del Senato romano dal MCXLIV al MCCCXLVII, a cura di F. Bartoloni, I, Roma 1948, p. 165; Il fondo diplomatico dell’Archivio storico comunale di Narni. Inventario, regesti, note storiche, indici, a cura di A. Diamanti - C. Mariani, Foligno 1986, pp. 105-107, nn. 76-77; Le carte di Casperia (già Aspra). 1099-1349, a cura di A. Pellegrini, Roma 1990, pp. 43 s., n. 26; Die Chronik des Saba Malaspina, a cura di W. Koller - A. Nitschke, in MGH, Scriptores, XXXV, Hannover 1999, pp. 199, 201, 211.
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