Santi d'Italia
In un articolo pubblicato sulle pagine de «La Civiltà cattolica» nel gennaio del 1861, Carlo Maria Curci descriveva le asprezze naturali della penisola italiana come una metafora dell’impossibilità di una sua omogeneità culturale e statuale:
«Al prim’occhio che gittiate sopra quella gamba, di cui reca sembianza molto risentita, voi ravvisate subito (poste fuori le isole che sparsamente le nuotano intorno), la membratura che incastra il ginocchio alla coscia, traversata da un’arteria che tutta la dimezza, far corpo da sé fin sotto il poplite; e quindi nascere la gamba, spartita pur essa in due porzioni per una rilevata ossatura che sorge dalla rotella, serpeggia tra la fibula e lo stinco, si annoda alla caviglia e s’intreccia ai muscoli del tallone arcuato»1.
Il tono forzatamente grottesco denuncia lo sforzo di sovrapporre questa immagine a quella promossa dai «partigiani dell’unità nazionale» i quali avevano gioco più facile a descrivere l’Italia come una patria dai limiti certi e definiti attorno alla quale, per usare le parole di Giuseppe Mazzini, Dio ha steso «linee di confini sublimi, innegabili»2.
Se la Chiesa di Pio IX metteva in campo tutta la sua forza propagandistica per decostruire dalle fondamenta l’idea di un’Italia morfologicamente – e dunque etnicamente – strutturata, ben altro valore la penisola ricopriva per il pontefice Gregorio XIII quando nei primi anni Ottanta del Cinquecento volle dedicarle un’ampia ala dei palazzi del Vaticano commissionando al matematico e cosmografo domenicano Egnazio Danti gli affreschi raffiguranti l’Italia – Antiqua e Nova – e quelli dedicati alle singole regioni e alle grandi isole che la circondano, che compongono la celebre Galleria delle carte geografiche3. L’importanza rivestita per la Curia romana dalla Galleria – testimoniata dalla cura costante riversata su di essa dai papi di età moderna, tra i quali spicca la figura di Urbano VIII, che affidò al cartografo Luca Holsten la correzione di alcune delle piante del Danti – si lega al ruolo preponderante che gli Stati italiani a partire dalla fine del secolo XVI acquisirono all’interno delle strategie della Chiesa romana. Essi divennero una «zona grigia intermedia» tra lo Stato pontificio e l’intero orbe cattolico4, non solo attraverso una più rigida e capillare azione controriformista e inquisitoriale, ma anche attraverso il consolidarsi di un ceto dirigente italiano sovrastatale all’interno del quale le gerarchie ecclesiastiche risultavano organicamente inserite. A ciò si aggiunga che letterati quali Scipione Ammirato e Tommaso Bozio, rovesciando l’assunto del Machiavelli, vagheggiavano un’Italia politicamente divisa, ma spiritualmente compatta sotto l’occhio vigile del pontefice, unica garanzia di pace e di unità sovrastatale per un paese martoriato dalle invasioni straniere5. La dimensione politica non doveva essere del resto estranea all’idea d’Italia sottesa alle carte del Danti se in queste, a differenza di quanto in precedenza avevano fatto Biondo Flavio e Leandro Alberti nei loro Itinerari6, si prediligono i confini statali a quelli ecclesiastici.
L’elemento cartografico, seppur preponderante, non è che la parte più evidente di un complesso programma iconografico. Alzando gli occhi sulla volta, come suggeriva il poemetto Ambulatio gregoriana scritto in occasione dell’inaugurazione della Galleria7, è possibile infatti contemplare gli altri cicli di affreschi tra i quali hanno una indubbia centralità i 51 scomparti rettangolari relativi ai Miracoli, una raccolta di medaglioni agiografici posti in corrispondenza delle carte dei territori che furono teatro dell’evento prodigioso. I santi, colti nel momento in cui la loro virtus dispiega tutta la sua potenza, si configurano così come una milizia celeste posta a baluardo della penisola, sentinelle contro gli avversari passati e presenti della Chiesa di Roma. Negli stessi anni in cui l’Holsten era ospite di papa Barberini, Ferdinando Ughelli scriveva i nove volumi dell’Italia sacra, un’opera monumentale in cui ancora una volta l’Italia, suddivisa in province ecclesiastiche e diocesi, diviene il luogo d’incontro tra la geografia e l’erudizione agiografica, trovando nella solidità delle istituzioni ecclesiastiche e nel carisma dei santi i due pilastri su cui fonda la propria storia8.
Tra queste due opere di più ampio respiro si inserisce il Catalogus sanctorum Italiae di Filippo Ferrari pubblicato a Milano nel 1613, la prima raccolta di biografie di santi dedicati alla «provinciarum omnium regina»9. Se l’ordine seguito è quello del calendario, non manca un corposo indice topografico che fornisce per ogni luogo l’elenco dei santi e il loro dies natalis. La stretta connessione tra indagine geografica e promozione agiografica permea del resto gran parte della produzione erudita dell’agiografo servita, autore di un Lexicon geographicum10 e di una Nova topographia in Martyrologium Romanum11, con cui intese fornire una chiave di accesso su base territoriale al Martirologio romano. La scelta attuata quattro anni dopo con il Catalogus di restringere il campo del suo lavoro al solo territorio italiano va inserita all’interno del medesimo progetto culturale che ha portato all’elaborazione della Galleria vaticana e dell’opera ughelliana, teso a costruire – attraverso gli spazi sacri, le gerarchie ecclesiastiche, gli uomini illustri per santità di vita – una rinnovata identità italiana imperniata sull’azione spirituale esercitata nei secoli dalla Chiesa di Roma.
Fa da sfondo alla costruzione di un pantheon agiografico specificamente italiano il moltiplicarsi tra la fine del Cinquecento e il secolo successivo di raccolte agiografiche territoriali a carattere per lo più municipale, pur non mancano eruditi interessati a ridefinire attraverso la memoria dei santi più vaste entità regionali. Un filone agiografico inaugurato nel 1593 dallo storico camaldolese Silvano Razzi, autore delle Vite de’ santi, e beati toscani, il quale disegnò in chiave antimedicea una Toscana che si estendeva fino a Viterbo sulle tracce dell’antica Etruria12, e che trovò la sua più completa espressione alla metà del secolo successivo in opere come le Vitae sanctorum Siculorum di Ottavio Gaetani13, il Leggendario de’ Santi Martiri di Calabria di Giovanni Paolo Gualtieri14, la raccolta agiografica marsicana di Muzio Febonio15 e soprattutto nei volumi dedicati da Ludovico Jacobilli alle Vite de’ santi e de’ beati dell’Umbria16. Un fenomeno che non risponde solo a motivazioni campanilistiche: gli eruditi italiani quando esaltavano un singolo territorio attraverso le infinite modalità in cui esso si intrecciava con le vicende terrene e celesti dei santi, si sentivano comunque parte di un disegno più vasto sottoposto alla ferrea regia pontificia ed erano coscienti che in una biblioteca erudita la loro opera, se meritevole, sarebbe stata affiancata da altre analoghe, riproducendo sugli scaffali quel medesimo continuum spazio-temporale rappresentato dalle carte del Danti17. La gran parte di queste opere è introdotta da ampie premesse – il cui esempio più celebre è il Discorso della provincia dell’Umbria che apre la raccolta jacobilliana – nelle quali si delineano le coordinate geografiche e storiche che fanno da sfondo alle biografie dei santi: le singole regioni, e l’Italia nel suo complesso, troverebbero la loro identità etnica e culturale negli antichi popoli italici che le abitarono i quali a loro volta, secondo una credenza già medievale, discenderebbero direttamente dai nipoti di Noè che «giunsero in Italia impadronendosi di tutto il Paese»18. Descritti in maniera stereotipata quali genti dai costumi rozzi ma dall’indole buona e generosa, i popoli prelatini, accomunati dalla discendenza noachide, divengono parte integrante della storia sacra italiana, anello intermedio tra il popolo eletto e i santi cristiani19.
Nonostante il Ferrari avesse concepito la sua opera come propedeutica a un più vasto progetto culturale20, solo nella seconda metà del secolo XVIII trovò un epigono nel senatore veneziano Flaminio Corner che nel 1773, ormai anziano, diede alla luce l’Hagiologium Italicum, scritto con l’intento di ampliare ed emendare il Catalogus alla luce della moderna erudizione agiografica così come si era delineata al tempo di papa Lambertini21, della cui amicizia e stima egli si fregiava. L’Hagiologium non sembra però risentire, se non nelle intenzioni, delle novità apportate da quella stagione erudita e si configura come un’opera del tutto marginale scritta quando ormai le accresciute esigenze della scienza storico-agiografica rendevano troppo complessa ogni impresa che non avesse i limitati confini di una cinta urbana22. Risulta dunque superata nell’impianto e nelle valenze ideologiche in un periodo in cui, come avevano dimostrato anche i tentativi non andati in porto di sottoporre a revisione l’Italia sacra dell’Ughelli sotto la direzione di Ludovico Muratori, si assiste a un graduale abbandono dell’idea di uno spazio sacro specificamente italiano già prima della rottura segnata dalla Rivoluzione francese e dal triennio giacobino.
Nel secolo successivo il lento processo di unificazione nazionale e la ‘questione romana’ cancelleranno per lungo tempo dall’orizzonte culturale della Chiesa la stessa idea di una santità italiana per recidere ogni possibile percorso identitario che avesse l’avallo della Chiesa di Roma. Se Gioberti aveva ripreso nel Primato morale e civile degli italiani il mito delle origini noachidi alla ricerca di primitivi tratti di santità insiti nella ‘nazione’ italiana, alla vigilia della proclamazione del regno d’Italia, Curci descrive l’Italia preromana come una babele di popoli a loro volta contaminati da invasioni e «mescolanze»23. Ma lo scontro più duro si giocava sulla propaganda e sul confronto di modelli contrapposti: sulla scorta del culto dei martiri della Rivoluzione francese24 si andava diffondendo la promozione di eroi e martiri patrioti che attingeva a piene mani dal linguaggio e dalla propaganda agiografica, anche all’interno di quelle frange della Chiesa che auspicavano un ritorno al cristianesimo delle origini innestandolo nel più ampio dibattito dell’unità dello Stato nazionale. Suggestioni che prenderanno una forma alta nell’opera rosminiana, con l’auspicio di una Chiesa non più prigioniera dei propri privilegi e ispirata al modello precostantiniano, ma che è possibile rintracciare anche in quella letteratura destinata a una maggiore diffusione, data la sua funzione marcatamente pedagogica e politica.
Nel 1882 Giovanni Faldella pubblicava un divertito quadretto dell’osteria romana di Giovanni Filomarino sulla via Salaria e delle sue caratteristiche decorazioni:
«Fra i vari generi di pittura registrati nei libri d’arte e nelle Rassegne artistiche [...] manca la denominazione del genere di pittura decorativa dell’osteria di Filomarino. È una pittura che chiamerei patriottica [...]. In una parete di fianco l’affresco rappresenta l’Italia ritta fra la convergenza di due scudi, in uno dei quali c’è il ritratto del gran Re, e nell’altro quello di Garibaldi. L’Italia superba, come una Madonna Assunta, pesta i piedi a un serpente, sul cui dorso fu stampato dal pittore: Potere temporale dei papi [...]. Invece una mano febbrile da donna o da mitingaio scrisse sul ritratto leonio di Garibaldi: Vero Galantuomo, Gesù Cristo della nostra epoca»25.
Non mancano studi che mettono in evidenza come alla costruzione del mito di Garibaldi concorrano anche elementi ricalcati dal linguaggio e dalla iconografia religiosa26. La sovrapposizione delle immagini del Redentore celeste – o di un santo o di un arcangelo27 – a quella del liberatore terreno, veicolate principalmente dai giornali satirici, aveva innanzitutto una funzione di rovesciamento dell’immaginario devozionale cattolico in chiave anticlericale. Ne è un esempio la litografia a colori che raffigura il busto di Garibaldi su un altare circondato da fucili disposti come ceri: i tradizionali ex voto sono qui sostituiti dai ringraziamenti delle città italiane liberate e dalla richiesta di un’analoga grazia da parte di Roma e Venezia come spiega anche la scritta posta a commento della vignetta satirica: «Figli d’Italia, se asciugar volete / di Venezia e di Roma il lungo pianto / poco v’importi se non canta il prete / queste son le candele e questo è il santo»28.
Tale rovesciamento in chiave più marcatamente antipapale è evidente anche nell’altra immagine descritta da Faldella e che troviamo riprodotta nel frontespizio de I misteri del Vaticano o la Roma dei papi di Franco Mistrali, un’opera che in quattro volumi intende riassumere l’intera storia della Chiesa dai tempi eroici dei martiri fino agli esiti infelici del pontificato di Pio IX. Qui l’allegoria dell’Italia sostituisce la figura della Vergine nella tradizionale iconografia dell’Immacolata Concezione, e il serpente – che nella apologetica cattolica che accompagnò la proclamazione del dogma nel 1854 doveva rappresentare gli errori dei tempi moderni – diviene il simbolo del potere temporale della Chiesa che giace sugli strumenti del martirio come un novello persecutore29. Del resto l’identificazione del papa con l’anticristo e della Roma pontificia con Babilonia era un topos molto frequentato dagli avversari del potere temporale fino alle atmosfere orrorifiche del romanzo Lamoricière, Pio IX, Antonelli, di Benedetto Castiglia: i tre protagonisti al termine del racconto si ritrovano insieme ai cardinali, lì convocati dalle oscure trame di una donna, Eulalia Bred, in una cappella Sistina piena dei corpi dei nemici della Chiesa usciti da sepolcri posti sul pavimento, che sono pestati furiosamente dai convocati, in una sorta di cerimonia satanica che si conclude con la stessa Eulalia che «abbigliata in figura di Religione» si erge su uno sgabello formato da cadaveri, mentre un’altra donna, «con i capelli irti come di serpenti», da tutti riconosciuta come la Rivoluzione, viene ricacciata all’interno dei sepolcri30.
Al pari dell’eroe dei due mondi anche la duttile immagine dell’Italia31 nella pubblicistica anticlericale si trasforma assumendo le sembianze ora di una santa32, ora di un angelo, ora del Cristo. Spesso le due icone risorgimentali costituiscono una coppia come nelle illustrazioni della Via Crucis dell’Italia pubblicate a puntate sul bisettimanale genovese il «Rigoletto» nel 1863, nelle quali la figura di Garibaldi è quasi sempre presente sullo sfondo con scene che ricordano l’esilio o il ferimento in Aspromonte (con un’evidente trasposizione della sua sofferenza con quella del crocifisso secondo un topos in quegli anni ricorrente33) oppure in primo piano nei panni del Cireneo34. Il volto di Garibaldi diviene l’effige dello scudo di una Italia ‘angelo vendicatore’ in un’altra vignetta del «Rigoletto»35, mentre il volto dell’Italia sormontato da una fiamma diviene il ‘sacro cuore’ di Garibaldi in una stampa del pittore milanese Enrico Francioli altrimenti specializzato in arte religiosa36. La coppia si ripropone anche nella preghiera di un volantino fatto circolare durante la conquista garibaldina del Regno di Napoli: «Dio ti salvi, o Italia, piena di gloria, tu sei benedetta fra tutte le città, e benedetto il frutto del tuo ventre Garibaldi. Vergine Italia, madre di Garibaldi, prega per i veri figli tuoi, adesso, sino all’ora della morte dell’ultimo nostro tiranno»37. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Tali provocazioni trovavano, come è ovvio, ampia risonanza nella pubblicistica cattolica intransigente, già abituata dalla penna di Antonio Bresciani a immaginare blasfemi rituali di ‘settari’38. Così nelle sue memorie ‘antigaribaldine’ Paolo Mencacci scrive:
«Un [...] garibaldino, essendo salito sul pulpito, ne pigliò il Crocifisso; e, dopo di aver arringato i circostanti con parole contro la Religione e con bestemmie, li esortò più volte ad invocare il Dio Garibaldi! Il che essendo stato fatto più volte dagli astanti egli aggiunse: “In nome dunque di Garibaldi io vi do la benedizione!”. Ed essendosi alcuni messi in atto d’insultante riverenza, egli fece segno col Cristo di benedirli. Quindi con impeto scagliò dal pulpito sul pavimento la sacra immagine, che andò rotta in più pezzi»39.
Le ragioni dell’utilizzo di una simbologia legata all’immaginario cultuale cattolico non si esauriscono però nella polemica anticlericale, ma vanno cercate anche nella sedimentazione plurisecolare di linguaggi e rituali capaci più di altri di veicolare la propaganda risorgimentale. La persona di Garibaldi era oggetto di una reale venerazione con evidenti connotati devozionali, richieste di benedizioni e miracoli, conservazione di ‘reliquie’, e via dicendo40. Celebre la leggenda palermitana di un rapporto di fratellanza tra Garibaldi e s. Rosalia veicolata dallo scrittore garibaldino Francesco Dall’Ongaro che, sull’onda dell’accoglienza festante avuta da Garibaldi a Palermo, fa esclamare ad alcune popolane: «E me l’ha detto una monaca pia, / ch’egli è fratello a santa Rosalia! / La santa gli ha dato un talismano / tessuto in cielo con la propria mano»41. La coppia di fratelli, che Don Pirrone nel Gattopardo vede a braccetto dipinta di fresco sui pannelli di un carretto («pittura patriottica» la definisce, come il Faldella, Giuseppe Tomasi di Lampedusa), fu protagonista di altri racconti popolari, raccolti nel 1882 da Salvatore Salomone Marino, i quali narravano di colloqui serali in merito alle azioni belliche da intraprendere o della donazione da parte della santa di un cinturino di cuoio – leggenda quest’ultima in parte ripresa anche da un giovane Luigi Capuana al suo esordio letterario42 – con il quale Garibaldi, agitando la mano, «si cacciava d’attorno le palle e le bombe che a lui dirigevansi ne’ momenti terribili del combattimento»43. Lucy Riall mette bene in evidenza come lo stesso Garibaldi dia consapevole impulso a questi fenomeni inserendosi nei riti e nelle feste patronali, presenziando ai festeggiamenti per s. Rosalia il 15 luglio del 1860 a Palermo o alla liquefazione del sangue di s. Gennaro il 19 settembre nella cattedrale di Napoli44.
Quelle messe in atto da Garibaldi a Palermo e a Napoli sono studiate forme di sincretismo tra una ritualità tradizionale e quel fenomeno di ‘secolarizzazione della santità’45 che investì in profondità, attraverso il culto degli eroi e dei martiri risorgimentali, la cultura e la società del tempo con ‘feste funebri’, monumenti sepolcrali e la costruzione di un martirologio nazionale. A un diverso livello non mancò chi indicò nei morti per la liberazione dell’Italia dal giogo straniero i veri eredi dei primi testimoni della fede come nel già citato Misteri del Vaticano di Mistrali – che dedica molte pagine a riscrivere antiche passioni nell’intento di trarre dall’immaginario agiografico allegorie capaci di descrivere la moderna lotta contro i tiranni – e con più evidenza in opere come il Martirologio italiano di Giuseppe Ricciardi o I martiri della libertà italiana di Atto Vannucci46 nella cui prefazione leggiamo:
«I martiri della loro religione cristiana dicevano ai loro carnefici: Voi volete distruggerci, e non avete forza né modo di raggiunger l’intento. Noi coltiviamo i vostri campi, sediamo nei vostri tribunali e nei vostri consigli, combattiamo nei vostri eserciti, popoliamo le vostre città e le vostre campagne: noi siamo legioni. Lo stesso potevano dire e hanno detto in Italia i Martiri della libertà. Anch’essi erano in tutte le classi, in tutte le condizioni sociali, tra i soldati, tra i magistrati, tra i sacerdoti, in palazzi e capanne: e da per tutto combattevano strenuamente per lo stesso principio, e confermavano l’ardente fede col sangue»47.
La pericolosità di queste posizioni non sfuggì ai redattori de «La Civiltà cattolica» che in occasione della stampa dei due volumi di Ricciardi e Vannucci per l’editore Le Monnier nel 1860 affidarono al giovane Raffaele Ballerini la stesura di una lunga recensione in cui si denunciava la sottile e perniciosa astuzia dei «novatori» di «storcere a sensi o profani o maligni l’augusto linguaggio del Vangelo»48. Per il gesuita era inaccettabile l’uso del termine ‘martire’ – «vocabolo in tutti i secoli dell’era cristiana […] privilegiato a denominare i fedeli morti confessando Gesù Figliuolo di Dio»49 – non «per figura» ma «in proprio stretto significato liturgico» da parte dei due autori e in particolare del Vannucci50. Nella prospettiva del Ballerini la categoria di martirio e più in generale quella di santità potevano trovare una propria legittimazione solo all’interno della più ampia categoria di romanitas51, in un quadro ideologico unitario che poneva al centro la figura del pontefice e le sue prerogative spirituali e temporali52.
Va considerata in quest’ottica la promozione di culti che si legano alla città Roma e ai suoi spazi sacri: i fasti della Roma barocca erano ogni anno rievocati nei festeggiamenti in onore di Filippo Neri che, a partire dal 26 maggio del 1861, si trasformarono in una esaltazione del pontificato di Pio IX. Sotto l’egida dell’‘apostolo di Roma’ si celebrò nel 1861 la beatificazione di Giovanni Leonardi, tra i fondatori del Collegio di Propaganda Fide, il cui decreto fu letto quello stesso 26 maggio presso il sepolcro del Neri alla Vallicella53. Negli stessi anni la Congregazione dei riti portava agli onori degli altari altri santi e beati che a diverso titolo avevano contribuito alla sacralizzazione della Roma settecentesca: da Benoît-Joseph Labre54 a Leonardo di Porto Maurizio55 a Giovanni Battista de Rossi beatificato il 13 maggio del 1860 e sepolto nella chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini. Di un altro celebre santo fondatore, Paolo della Croce, Pio IX celebrò sia la beatificazione nel 1853 che la canonizzazione nel 1867, volendo premiare il ruolo centrale che i Passionisti avevano ricoperto a Roma a partire dal loro insediamento nel 1773 nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio56. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo si cercò inoltre di dare organicità ideologica, attraverso la scrittura o riscrittura agiografica, a un gruppo di nuovi ‘apostoli di Roma’ vissuti tra l’occupazione napoleonica e gli inizi del pontificato di Pio IX. Un corpus letterario dal quale emerge la fisionomia di un gruppo, seppur estremamente variegato nei modelli di santità proposti, comunque compatto nel mettere i propri doni soprannaturali a difesa della Chiesa di Roma e del successore di Pietro: un fitto intreccio che troverà il suo scioglimento narrativo nella nuova era segnata dal ritorno di Pio IX dall’esilio e il suo sbocco devozionale nella realizzazione di nuovi spazi sacri proposti alla pietà dei romani. Sono questi i sepolcri di Vincenzo Maria Strambi nella basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, di Gaspare del Bufalo a S. Maria in Trivio, di Maria Luisa Maurizi nel convento delle mantellate alla Lungara, di Elisabetta Canori-Mora a S. Carlino alle Quattro Fontane, di Anna Maria Taigi a S. Crisogono, di Vincenzo Pallotti a S. Salvatore in Onda, per citare solo quelli dedicati a coloro che hanno avuto un riconoscimento formale della santità di vita negli anni qui presi in considerazione57.
Un significativo esempio di come le tensioni politiche che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo XIX si riflettessero anche nella scrittura agiografica è rappresentato dalle riletture che in questi anni furono proposte della figura di una santa non martire, Caterina da Siena58. Se nel 1860 nella prefazione alla sua edizione delle Lettere della santa senese Niccolò Tommaseo, con un neologismo risorgimentale, affermava che intenzione di Caterina era quella di «italianare il papato e la Chiesa»59, a Roma, con la solenne traslazione delle reliquie il 5 agosto del 1855 nel nuovo altare maggiore nella chiesa di S. Maria sopra Minerva60, si avviava un iter che avrebbe portato alla sua proclamazione a compatrona dell’Urbe il 13 aprile del 1866. Nel breve apostolico che sanciva il patronato sulla città si azzardava un paragone tra la situazione di Roma durante il periodo della cattività avignonese – «Era un vedere i sacri tempi screpolati, e squallidi, contaminati gli edifizi, e le contrade per le sanguinose stragi delle fazioni» – e il suo destino nel caso di annessione al Regno d’Italia:
«Ora rinnovatasi a questa infelicissima età l’orrida e perfidissima guerra contro la Chiesa, e i nemici della cattolica professione sforzandosi di spodestare i Romani Pontefici del civil Principato, che per divin consiglio di Provvidenza fu lor largito per compiere co’ piena libertà di esercizio l’apostolico ministero, e a ciò anche mirando, che nuovamente ne vadano in bando i Successori di Pietro, il Romano Senato, a tener lungi sì grave sciagura, e a sventare le frodi degli empi, deliberò di implorare il celeste patrocinio di s. Caterina da Siena e umilmente a Noi porse preghiere, perché l’annoverassimo fra i Comprotettori dell’Alma Roma»61.
Il precipitare degli eventi bellici fornì alla polemica del Ballerini contro i martirologi italiani uno sbocco inaspettato: chiamato a commemorare per il fascicolo di ottobre i caduti nelle file dell’esercito pontificio sconfitto nelle colline tra Castelfidardo e Loreto il 18 settembre 1860, egli rivendicò per loro, soprattutto per i numerosi volontari stranieri che accorsero a Roma per mettersi agli ordini del generale Lamoricière62, «la palma ambita che guiderdona in cielo i Morti per la Chiesa»63. Tale espressione, usata dallo stesso Pio IX nell’allocuzione al concistoro segreto del 28 settembre64, fu intesa come un via libera alla celebrazione dei nuovi martiri di Castelfidardo che non tardarono a trovare i propri apologeti: primo fra tutti il marchese Anatole de Ségur, fratello del più celebre monsignor Louis-Gaston de Ségur65, che diede alle stampe a Parigi nel 1861 una raccolta di vite esemplari e di passioni di volontari pontifici francesi subito tradotta in italiano. Tornano nelle pagine introduttive la contrapposizione con i «martiri della idea italiana», qui assimilati ai “martiri” francesi della Rivoluzione, e la rivendicazione della corona del martirio per i proprio eroi:
«In questo secolo di confusione e di turbolenza il gran nome di martire si scrive, si pronunzia, si scolpisce per ogni parte. I rivoluzionari svergognatamente lo profanano applicandolo ai più malvagi da Marat e Robespierre, martiri del vantato loro amore pel popolo, fino agli assassini degl’imperatori e de’ re martiri della idea italiana. Né si conviene stupircene; poiché Satana, impotente a creare, va scimmiottando, e questo scimmiottatore di Dio, come fu detto da un celebre scrittore, vuole egli pure avere i suoi martiri, i suoi apostoli e i suoi santi […] ma io non considero così basso il significato di sì gran nome da me posto in capo di questo libro, essendo che la sua significazione strettamente cattolica importa, che abbiasi a dir martire quel cristiano, il quale, avendo testimoniata la verità coll’effusione del proprio sangue, sale per ciò medesimo alla gloria dell’eterna beatitudine; e tali furono, per quanto è a credersi con tutta probabilità, gli eroi della breve, ma immortale giornata di Castelfidardo. Essi versarono il loro sangue per la causa del Papa, e lo versarono volenterosi e giulivi»66.
Ciò che soprattutto premeva agli ambienti ecclesiastici romani era tenere ben salda la legittima devozione verso i nuovi martiri al culto di Pio IX che a partire dagli anni dell’esilio e in modo più sistematico dopo il 1859 era diventato un tratto imprescindibile della pubblicistica cattolica e della produzione letteraria agiografica in particolare. Nel romanzo l’Olderico ovvero il zuavo pontificio di padre Bresciani, il protagonista, al di là del personaggio fittizio che dà il titolo all’opera, è l’intero corpo dei volontari dell’esercito pontificio, che molto assomiglia a quella «milizia dei tempi moderni» vagheggiata da Taparelli d’Azeglio disposta anche all’estremo sacrificio in nome della difesa del potere temporale della Chiesa67. A una sola voce i volontari invocano «l’onor del martirio»68 ed esclamano: «Viva il Santo Padre Pio IX, per cui combattiamo e che ci apre anticipatamente il paradiso»69. E i loro giovani morti sono novelli Maccabei le cui madri, accorse a Roma per il funerale, «con animo più che romano» avevano versato «nel cuore de’ loro figliuoli cogli esempi e colle parole torrenti di fuoco, che mettevano in quelli un ardor santo d’immolarsi ostie vive sull’altar dell’amore a Gesù Cristo»70.
Non mancò tra le vittime degli zuavi chi fu oggetto di un culto particolare, come Jean-Luis Guérin, cui Antonio Bresciani dedica un paragrafo nell’Olderico71 e il cui «nome imperituro» è posto a conclusione dell’opera del De Ségur: a Roma circolavano fotografie che lo ritraevano distribuite come santini e si diffondevano già i primi miracoli attribuiti al giovane zuavo72, mentre a Nantes la tomba che ne conservava le spoglie acquistò in breve tempo una discreta fama taumaturgica divenendo luogo di pellegrinaggio e di distribuzione di reliquie. Il suo agiografo, Julien Allard, canonico della cattedrale di Nantes, incoraggiato nel 1862 a continuare nella sua opera di divulgazione del culto dallo stesso Pio IX – il quale gli indirizzò un breve in cui si diceva affatto meravigliato «se nel numero di quegli uomini prescelti, che perirono nella mischia, se ne rinvenisse uno da Dio favorito di grazie speciali»73 –, allegò in appendice alla biografia una corposa raccolta di miracoli in vista di più importanti riconoscimenti74. Ma anche in questo caso va sottolineato come l’Allard fosse consapevole che il culto del Guérin avrebbe trovato un avallo ufficiale solo in quanto emanazione del culto per Pio IX: non mancò infatti di sottolineare come il giovane fosse parte di una più folta schiera di eroi che erano stati «sublimati e consecrati dal supremo Gerarca con le lagrime, ch’Egli sparse sopra quei gloriosi vinti e col proporli al mondo cattolico siccome modelli di perfetta fede, e di eroica divozione»75. Il loro martirio è il martirio dello stesso Pio IX che in prima persona, come scriverà il Bresciani nella sua dedica a s. Pietro anteposta all’edizione del 1862 dell’Olderico, «regge la Chiesa contra gli urti, le insidie, i lavori e le furie di tutto l’inferno scatenato ai suoi danni»76. Sono gli anni in cui nella pubblicistica cattolica le biografie di Pio IX abbandonano il trionfalismo che aveva accompagnato la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione per abbracciare la retorica del papa-martire. Un percorso misurabile nella distanza che, fin dai titoli, segna due scritti di don Giacomo Margotti77 pubblicati a soli tre anni di distanza: il volume Le vittorie della Chiesa nel primo decennio del pontificato di Pio nono, del 185778, e l’articolo La passione di Pio IX, pubblicato su «L’Armonia» nel 186079, in cui sulla falsariga di un opuscolo del canonico Henry Sauvé80, il teologo e pubblicista torinese ripercorreva la Via Crucis adattandola ai più recenti avvenimenti che avevano colpito lo Stato Pontificio e il suo sovrano81.
Anche il revival paleocristiano che investì in questi anni la città di Roma82 si inserisce in questo processo: i restauri della basilica di S. Lorenzo coincisero con un rilancio del culto per il martire romano, la cui figura era descritta come un modello del miles fedele all’autorità pontificia che, a rischio della propria vita, seppe difendere i tesori della Chiesa dall’avidità dei nemici di Cristo, ma al contempo come un’allegoria delle persecuzioni che colpivano la figura stessa di Pio IX83. Nel testamento redatto nel 1875, è lo stesso papa Mastai, nel momento in cui indica la basilica di S. Lorenzo come la futura sede della propria sepoltura, a suggerire una sorta di identificazione tra le proprie sofferenze e quelle del compatrono di Roma:
«Il mio corpo divenuto cadavere, sarà sepolto nella Chiesa di San Lorenzo fuori le mura, e precisamente sotto il piccolo arco esistente contro la così detta graticola, ossia pietra, nella quale si distinguono anche adesso le macchie prodotte dal martirio dell’illustre Levita»84.
La dipendenza tra culto dei martiri e culto del pontefice coinvolgeva del resto anche i nuovi canonizzati, come dimostra, fin dal titolo, l’opuscolo La gloria del Vaticano nel trionfo dei martiri giapponesi pubblicato in occasione della glorificazione dell’8 giugno 1862 dei ventisei crocifissi a Nagasaki il 5 febbraio 1597, nel quale si afferma senza mezzi termini che il trionfo dei nuovi santi «non è per ventura nelle presenti congiunture l’oggetto precipuo delle nostre ammirazioni» bensì:
«Ciò che più sublima i nostri pensieri è il trionfo stupendo di quel medesimo Pontificato, a’ danni del quale principalmente stanno oggidì accampate tutte le forze dei moderni persecutori. Pio IX assiso pacificamente sul benefico soglio a lui donato dalla Provvidenza, invitto ed inerme, mitissimo e formidabile, minacciato e sicuro, dopo lo spogliamento più ricco, dopo i sacrileghi oltraggi più venerato, dopo le impudenti calunnie più glorioso, come da altissima vedetta volge a sé dintorno uno sguardo a contemplare il turbine che lo circonda; vede troni abbattuti, sovrani fuggiaschi, chiese vedovate, porporati prigioni, vescovi esuli, claustrali raminghi, popoli gementi, tirannici soprusi, ipocrite protestazioni, empietà, incendii, stragi, lutto, desolamento in ogni dove; ed orridito a quella vista non per tema di sé, ma per pietà de’ suoi figli, mosso da istinto celeste risolve di porgere agli oppressi un esempio di cristiana fortezza, che religiosamente li consoli e li rincuori con la speranza del guiderdone»85.
Se volgiamo lo sguardo alla letteratura minore e d’occasione scritta per commemorare i martiri di Castelfidardo risulta ancor più evidente come questi siano relegati al ruolo di comprimari del pontefice in concomitanza con un accentuarsi degli accenti apocalittici che pur abbiamo visto pervadere molte delle pagine fin qui analizzate86. Nel poema in tre canti Il trionfo di Pio IX pubblicato nel 1863, l’anonimo verseggiatore, rapito da una visione, può ammirare in cielo il papa circondato da «que’ forti, che difeser col sangue le tremanti basi del trono del gran Pio»87. Tra questi spiccano «il glorioso De-Pimodan», capo di stato maggiore dell’esercito pontificio88, e il «fortunato Garzon», il Guérin appunto, il cui santo zelo «Che sì l’accese in terra, or lo solleva fra quanti Iddio rimiran senza velo»89. Ma la scena finale è tutta per «l’invitto Pio» il quale ingaggia una personale lotta contro il drago «che mosse guerra al cielo» fino a ucciderlo sotto il suo calcagno, in una evidente sovrapposizione tra la figura dell’Immacolata e quella del pontefice che ne aveva promulgato il dogma90. Toni escatologici troviamo anche nel poema I martiri di Castelfidardo del pastore arcade Coridemo Pratilio, al secolo Giacomo Piccioni, pubblicato nel 186391, lo stesso anno in cui padre Liberatore rileggeva l’Apocalisse di Giovanni alla luce dei più recenti avvenimenti azzardando una identificazione della bestia con Garibaldi: «E non si udì recentemente in alcune contrade italiane l’orrida bestemmia che gridava Garibaldi: Uomodio?»92 e poco dopo in nota: «È notevole come il Garibaldi ferito mortalmente, si è poi guarito; e della bestia nell’Apocalisse sta scritto: Et vidi unum de capitibus suis quasi occisum in mortem: et plaga mortis eius curata est, Apoc. XIII, 3»93.
I nuovi ‘martiri della Chiesa’ si dispongono del resto all’interno di moduli narrativi e iconografici di stampo apocalittico incentrati sulla figura di Pio IX già consolidati, che avevano trovato piena legittimazione nella celebrazione annuale del 12 aprile in cui si rievocava la coincidenza di due avvenimenti, il ritorno del pontefice dall’esilio nel 1850 e, cinque anni dopo, lo scampato pericolo dal crollo del pavimento di una stanza nel complesso della basilica di S. Agnese che provocò la caduta nell’ambiente sottostante del papa insieme ad altre centocinquanta persone – tra esponenti del clero e alunni del Collegio di Propaganda Fide ammessi alla cerimonia del bacio del piede –, tutte rimaste illese94. Mentre la sala dove era avvenuto il crollo veniva trasformata in un monumento alla memoria, con un grande affresco di Domenico Toietti che ricordava «il prodigioso salvamento di tante persone alla ben nota catastrofe»95, il giorno 12 aprile divenne la celebrazione per antonomasia del potere temporale del pontefice sovrano96 dalle esplicite valenze politiche. L’evento miracoloso fu interpretato come l’ennesima vittoria della Chiesa sull’Idra rivoluzionaria, come testimoniano i componimenti poetici che ogni anno coronavano la visita di Pio IX a S. Agnese. La proclamazione di quei versi era significativamente affidata alla giovane voce del novizio Edgardo Pio Mortara, il bambino ebreo sottratto ai familiari dai gendarmi pontifici dopo essere stato battezzato in segreto da una domestica cattolica97, di cui il pontefice ebbe a dire che neanche «tutte le baionette del mondo» lo avrebbero obbligato a consegnarlo «alle grinfie della Rivoluzione e del Demonio»98. Ecco un significativo esempio di tali esercizi retorici in cui il prodigio è rievocato attraverso un sovrapporsi di immagini apocalittiche:
«Ruggì mugghiando e ne fremé di rabbia / “Il gran nemico delle umane genti” / E come un angue irato / Che si contorce e fischia / Agli estivi calor sull’arsa sabbia, / Tal fu Satanno: e in esecrandi accenti / Vendetta e morte ti giurò, gran Pio. / Già le sue forze arrischia / Lieto di fausti eventi… / Ma invan si cozza col poter di Dio!!! / Qui presso all’ara dell’invitta Agnese / Fermò vendetta il volo; / Qui Padre e Figli rovesciar col suolo / A nostro danno intese. / Vinta credé Satan l’ordita pugna / Ma vuota strinse la terribil ugna. / Precipitasti, o Pio: ma all’insolente / Angue d’Averno soggiogò l’orgoglio / La fortissima Donna: / E Tu per noi più grande / Dal periglio sorgesti e più possente […]».
Altrettanto farraginose nella loro contorta simbologia risultavano le allegorie iconografiche e le macchine architettoniche realizzate indifferentemente da artisti affermati o da modesti artigiani per le strade di Roma. Ne sono un chiaro esempio due ‘trasparenti’ esposti il 12 aprile del 1860: nel primo, commissionato al pittore Gabriele Cavazzi, Pio IX è ritratto nell’atto di pregare presso un altare dedicato all’Immacolata Concezione, mentre al lato si svolge un combattimento tra il «Cerebro tricipite della rivoluzione» e l’arcangelo Michele che «lo preme d’un piede, lo ferisce nel cuore, e salva le chiavi, il triregno ed il papa»99. Il secondo è opera del celebre Johann Friedrich Overbeck, pittore particolarmente apprezzato da Pio IX, e fu esposto presso il palazzo dove risiedeva l’anziano artista nei pressi di S. Maria Maggiore; qui è lo stesso papa Mastai a ingaggiare la lotta vittoriosa con le bestie dell’Apocalisse:
«Il Pontefice preme col sinistro piede il leone, che gli resta dietro, atterrato, coll’arruffata chioma, coll’impotente furore che gli spira dagli occhi e dalla faccia, colla coda e coll’ugna che posa. Ma avanti al Pontefice stanno altri mostri, avvinghiato l’uno coll’altro. Il primo che si avanza, è un drago alato che attortiglia il collo, vibra la bipartita lingua, spiega l’artiglio, e già stende una zampa sul manto pontificale (faccia conto il lettore che il manto sia il governo temporale del papa); mentre un altro mostro nascosto nel gruppo, cioè l’aspide si avventa al pastorale (governo spirituale). Il Pontefice calpesta il primo con piede franco e spiegato, e fortemente impugna il pastorale colla sinistra, e colla destra si appoggia al petto una palma»100.
Si trovano soggetti analoghi anche nella pittura di più diretta commissione pontificia come nell’affresco realizzato da Vincenzo Pasqualoni per l’abside della chiesa di S. Nicola in Carcere alla metà degli anni Sessanta del secolo, in cui sotto a una cornice di nubi che sorreggono il trono di Cristo con ai lati la Vergine e s. Nicola, sono raffigurati a destra l’Arcangelo che combatte con il drago e a sinistra Pio IX sulla nave, «figura della Chiesa militante», nell’atto di remare e portare al sicuro il clero e il popolo di Roma verso la basilica di S. Pietro posta sullo sfondo101. Si tratta di una rivisitazione dell’allegoria della ‘navicella di Pietro’ qui contrapposta alle bestie dell’Apocalisse contrastate dalle milizie angeliche, che si ritrova anche nella tela eseguita da Alexander-Maximilian Seitz nel 1867 in occasione delle celebrazioni del diciottesimo centenario della morte di s. Pietro102: passeggeri del sicuro rifugio sono questa volta i vescovi convenuti per le celebrazioni del 29 giugno, giorno in cui alla ricorrenza petrina, trionfo del pontificato di papa Mastai, si univa la festa dei nuovi santi canonizzati, tra i quali ancora una volta spiccava un gruppo di martiri, i compagni ‘gorcomiesi’, impiccati a Brielle il 19 luglio 1572 e raffigurati nella celebre tela di Cesare Fracassini103. Un atto con cui si celebrava la restaurazione della gerarchia ecclesiastica in Olanda, sancita quattordici anni prima con il breve Ex qua die arcano del 4 marzo 1853104, ma che serviva anche a riaffermare il valore del sangue versato in nome del «Principato sacro di Roma» – come si legge nell’opuscolo Il centenario di S. Pietro e i Martiri Gorcomiesi, del minore osservante Anacleto da Sanfelice105, – che è al contempo simbolo del «tributo di sangue» di coloro «che accorrono ad arrolarsi sotto lo stendardo della Santa Sede»106 tra i quali sempre più numerosi erano i giovani olandesi.
Alla luce di questa retorica del martirio va forse considerata la riproduzione fotografica di una stampa in cui è raffigurata la nave con a bordo Pio IX, il Cristo e due zuavi nell’atto di issare le vele107, a meno che essa non sia da collocarsi cronologicamente dopo la vittoria dell’esercito pontificio sulle truppe di Garibaldi a Mentana il 3 novembre 1867, quando la Chiesa di Roma era tornata con toni trionfalistici a percepirsi, sia pur per un breve periodo, quel luogo sicuro sotto la protezione del cosmopolita esercito pontificio.
La battaglia di Mentana rappresenta infatti il punto di arrivo del filone martiriale inaugurato a Castelfidardo in cui gli elementi fin qui evidenziati troveranno il proprio scioglimento narrativo. Il richiamo ai Maccabei, comunque ripreso nelle sue valenze consolatorie108, lascia decisamente il posto al più trionfalistico modello del combattente crociato, esaltato nella lunga epopea de I crociati di S. Pietro narrata da Giovanni Giuseppe Franco, pubblicata sulle pagine de «La Civiltà cattolica» per circa tre anni e ristampata contestualmente in tre volumi con «moltissime giunte»109, e dal già citato Paolo Mencacci che agli ‘eroi pontifici’ di Mentana dedicò una corposa memoria storica110. Se nel 1860 il Bresciani si chiedeva retoricamente, di fronte alla caduta della ‘Casa di Nazareth’ nelle mani sacrileghe dell’esercito piemontese, il senso di quella disfatta – «Ma allora, o Dio mio, tu concedesti ai crociati di liberare il tuo sepolcro dalla schiavitù de’ musulmani, ed ora permettesti che il santo loco, ove tu pigliasti l’umana carne cadesse nelle mani ladre de’ tuoi nemici!»111 –, sette anni dopo il Franco poteva ricostruire a ritroso il disegno provvidenziale che legava le due battaglie:
«Appena si può credere quante e quanto ardenti vocazioni si ispirassero dalla sublime sconfitta di Castelfidardo […]. Ben fu profetica la voce di quel crociato di frano petto, che alla vigilia di Castelfidardo, mirando i piani e i colli di Loreto, coperti da cinquantamila Piemontesi, e i fitti squadroni di cavalli, e i formidabili parchi d’artiglieria in vista, si volse ai commilitoni, novello anzi miglior Leonida, dicendo: “Forse dimani saremo trucidati tutti: ma non trionferanno per questo: il nostro sangue e la nostra vita non saranno spesi invano”. E fu vero! La voce di quel martirio echeggiò, non che nelle circomposte regioni, fino all’estrema Lapponia che ci mandò due de’ suoi figli, fu intesa dai Russi e dai Polacchi, i quali sotto la bandiera di Pietro, si riconobbero fratelli; Mori e Persiani, Americani ed Oceanici vennero a indossare le spoglie dei morti di Castelfidardo. E così di quel sangue e di quelle vite, sì eroicamente prodigalizzate alla Sede di S. Pietro, crebbe una stirpe mondiale, infiammata degli spiriti di La Moricière, dei Pimodan, dei Guérin, dei Lanascol, degli Héliand, e di cent’altri, stirpe che fu la gloria dei novelli combattimenti, e infine sulle vette di Mentana strappò il velo funereo alla bandiera velata di Ancona»112.
La pubblicazione del racconto storico terminava nel luglio del 1870 con la descrizione del gruppo in marmo scolpito da Vincenzo Luccardi su disegno di Virginio Vespignani e inaugurato il 14 giugno del 1870 da Pio IX al cimitero comunale nel campo Verano. Esso raffigurava Pietro nell’atto di consegnare la spada a un guerriero con in mano il vessillo crociato su cui si leggono le parole Orbis catholicus – «In Pietro è Pio; nel guerriero l’esercito cristiano» scrive l’autore a commento del monumento – mentre sul basamento ottagonale sono incisi i nomi de «i valorosi che, o sul campo, o di poi per le ferite morendo eseguirono gli ordini di S. Pietro»113.
Se in Francia, terra d’elezione dei nuovi martiri, il culto per i ‘morti della Chiesa’ ebbe una fortuna più durevole – ancora nel 1896 Teresa di Lisieux esclamava in una lettera: «Je sens en mon âme le courage d’un Croisé, d’un Zouave Pontifical, je voudrais mourir sur un champ de bataille pour la défense de l’Église»114 –, dopo il 20 settembre anche a Roma si perse ben presto la memoria dei volontari pontifici mentre la città si trasformava in un ‘palcoscenico patriottico’115 riempiendosi di lapidi, statue e monumenti che dovevano commemorare martiri ed eroi del Risorgimento cambiando radicalmente l’assetto urbanistico e la sua toponomastica116. Alla vigilia del nuovo secolo Pio Vittorio Ferrari nelle sue memorie della battaglia di Villa Glori, già trasformata in un sacrario della patria con il monumento ai fratelli Cairoli117, ricordava la figura dello scultore Luccardi: «Era in complesso un buon uomo: non fu però buon italiano quando accettò da Pio IX l’incarico di fare il monumento commemorante i soldati pontifici di Mentana, monumento che, in omaggio alla politica di tolleranza, si ammira ancor oggi a Campo Verano»118. La bonaria accondiscendenza nei confronti di una scultura che avrebbe dovuto suggellare il trionfo del potere temporale del papa e che ora giaceva ignorata nel cimitero monumentale di Roma è il segno più evidente della fine di una stagione.
A partire dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento anche negli ambienti del cattolicesimo più intransigente erano in pochi a considerare l’unità d’Italia come un processo reversibile e la categoria di romanitas che aveva orientato fino ad allora la politica delle canonizzazioni e la propaganda agiografica lasciò gradualmente il posto all’idea di una santità collocata su uno sfondo nazionale, seppur all’interno dei medesimi schemi che avevano caratterizzato la polemica antirisorgimentale. Al popolo romano, che la pubblicistica cattolica a partire dall’Edmondo del Bresciani aveva esaltato come «popolo fedele» connotato dalle innate virtù della bontà e della generosità119, andò sostituendosi l’idea di un popolo italiano genuinamente cattolico, profondamente antiliberale e antimassone: «L’Italia sarà sempre il popolo naturale di Maria e del Cattolicesimo, ond’essere per eccellenza il popolo della fedeltà e dell’onore, il popolo di Dio» si leggeva per esempio nel 1884 nel periodico «Memorie domenicane» in un articolo dal titolo Il Santuario di Loreto e la predestinazione dell’Italia in cui si sottolineava come il miracoloso trasferimento della casa di Nazareth nel cuore della penisola fosse «il pegno dell’immutabile alleanza tra Dio e il popolo fedele»120. Negli anni in cui i Gesuiti de «La Civiltà cattolica» insistevano sulla distinzione tra «Italia reale» e «Italia legale»121, iniziava a farsi nuovamente strada, nell’orizzonte di una concezione cattolica dell’amor di patria, l’idea di una santità che attingesse a supposti valori originari del popolo italiano a partire dalla fedeltà alla Chiesa di Roma. Un nazionalismo religioso che pervade la pubblicistica ecclesiastica del tempo e si posa come una patina sulla scrittura agiografica senza mutarne però l’impianto ideologico, con l’intento di sostituire i più tangibili confini dello Stato Pontificio con demarcazioni di carattere sociale e religioso che portarono a un inasprimento della polemica antigiudaica e antiprotestante.
Furono soprattutto gli agiografi e gli scrittori ecclesiastici votati all’educazione dei fanciulli e dei giovani, preoccupati dall’avvento di una scuola pubblica non confessionalmente orientata, a mobilitarsi. Essi erano in tal senso agevolati dall’esempio di Giovanni Bosco, il «cauto divulgatore dell’intransigentismo»122, ma anche colui che fin dagli anni Cinquanta dal privilegiato osservatorio torinese aveva pragmaticamente indicato nell’Italia il teatro dell’azione pedagogica123 suggerendo con le sue opere – da Il giovane provveduto alle biografie dedicate a Domenico Savio e agli altri giovani morti in odore di santità – i binari su cui si sarebbe mossa la letteratura cattolica per l’infanzia, sia quella specificamente agiografica, sia i racconti e i romanzi edificanti che ne riprendevano i moduli applicandoli a più duttili protagonisti fittizi. L’obiettivo di questa imponente opera di propaganda era duplice: da una parte proporre un ideale di vita cristiana legato allo spazio protetto dell’oratorio, dall’altra tracciare un confine etico che separasse i giovani cattolici da coloro che per nascita o per convinzione provenivano dalle fila degli avversari della Chiesa, i protestanti, i massoni e soprattutto gli ebrei che nella pubblicistica ecclesiastica più intransigente andavano rivestendo un ruolo sempre più da protagonisti all’interno del mito della ‘grande cospirazione’ contro la Chiesa di Roma124. Non è un caso che dopo l’affaire di Damasco del 1840 – quando l’assassinio del cappuccino sardo Tommaso da Calangianus provocò una recrudescenza delle false accuse agli ebrei di compiere sacrifici umani a scopo rituale125 – e la ratifica del culto medievale del beato fanciullo «a Iudaeis necatus» Lorenzino da Marostica a opera di Pio IX nel 1867126, si moltiplicarono i racconti tratti dalle passioni di questa categoria di martiri nella letteratura devozionale dedicata ai lettori più giovani. Le ragioni della riproposta di questo filone agiografico le troviamo scritte nella edizione del 1848 della Storia ecclesiastica ad uso delle scuole di don Bosco, in una nota in calce al racconto del martirio del beato Werner da Oberwesel in cui si specifica che la pratica dell’‘omicidio rituale’, ancora viva come dimostrerebbe il caso di Damasco, deve «far rendere i cristiani avvertiti a guardarsi bene dal trattare e famigliarizzare con questa razza di gente»127. Una motivazione che è anche alla base degli articoli che il gesuita Stefano Oreglia di S. Stefano dedica su «La Civiltà cattolica» ai processi contro gli ebrei di Trento accusati nel 1475 di aver assassinato il beato Simonino. Infatti, come egli stesso scrive in una lettera in cui intende giustificare di fronte ai superiori l’eccessiva violenza dei suoi scritti, il suo scopo ultimo è «alienare almeno alcuni da quella sì pericolosa famigliarità e stima e dimestichezza cogli ebrei che è tanto vietata dalla Chiesa»128.
Il recinto protettivo che gli scrittori ecclesiastici intendevano costruire intorno alla gioventù degli oratori e delle parrocchie era valicabile solo per coloro che, provenendo dalle file degli avversari della Chiesa, avessero voluto abbracciare la fede cattolica, mentre il percorso inverso avrebbe condotto fatalmente alla perdizione come nell’apologo, del tutto speculare ai numerosi racconti di conversione, Valentino o la vocazione impedita, che don Bosco pubblicò nel 1866, in cui si narra di un giovane aspirante salesiano caduto nel vortice del vizio a causa della cattiva influenza di un padre miscredente129. Alla fine del secolo nel tentativo di entrare da protagonisti all’industria in espansione del libro per l’infanzia, non furono pochi gli scrittori per varie vie riconducibili al mondo salesiano che cercarono di trasporre nella più appetibile forma del romanzo tali istanze: il racconto Nella tribù di Giuda130 di Cesare Algranati, pubblicato nel 1895 con lo pseudonimo di Rocca D’Adria, narra con toni fortemente antisemiti la conversione del giovane ebreo Giorgio Vitali a opera di don Vincenzo, un prete impiegato alla Propaganda Fide: il vivace mondo dell’oratorio, da cui si sentirà attratto, diviene emblema di una Italia sana, umile, popolare, profondamente cattolica, antitetica a quella delle élites economiche e politiche del Paese qui rappresentate dal padre di Giorgio un facoltoso ebreo, banchiere e senatore del regno. Dopo aver spiegato a Giorgio, che i rabbini anche nella civile Italia durante la Pasqua ebraica sogliono cibarsi di azzimi intrisi nel sangue di un bambino cristiano, don Vincenzo aggiunge: «Ora Giorgio [...] comprendi tu perché un cattolico tema pei suoi figli il contatto d’un israelita, e li ammonisca di non dar mai retta, specialmente alla scuola, ai compagni ebrei?»131.
Le due figure del ‘giovane provveduto’ e dell’ebreo, o in alternativa del protestante, antagonista ingaggiano un’impari lotta in giro per il mondo nei romanzi del prolifico sacerdote triestino Ugo Mioni132, autore a partire dalla fine dell’Ottocento di romanzi d’avventura con ambientazioni esotiche in parte tratte dai resoconti dei missionari, in parte prese in prestito dai romanzi di Emilio Salgari nell’esplicito tentativo di intercettarne il pubblico.
A differenza del suo più celebre collega, Mioni mette in scena protagonisti rigorosamente italiani e cattolici professi. Finanche l’eroe western Fortebraccio, personaggio che vede per la prima volta la luce nel 1895 ne Le iene del deserto, descritto come il più celebre cacciatore della prateria, amico di indiani e implacabile giustiziere, esclama con orgoglio di essere «cattolico e italiano»133, dichiarazione che alcuni anni dopo nella Fanciulla della prateria del 1901 sarà ulteriormente specificata: «italiano, e perciò naturalmente cattolico»134. Attraverso i personaggi negativi l’autore veicola elementi codificati dalla lunga tradizione antigiudaica e antiprotestante: in una cornice che ricorda Les cinq cents millions de la Bégum di Jules Verne, si ambienta l’avventura newyorkese de La ridda dei milioni di quattro cugini, che ricevono una cospicua eredità da uno zio d’America e che devono difendersi dagli intrighi dell’ebreo Isacco Levi135, mentre ne Il gabbiano fantasma, del 1923136, si descrive la condizione degli immigrati italiani negli Stati Uniti in mano a ebrei senza scrupoli. Le descrizioni fisiche e morali degli ebrei riprendevano secolari stereotipi con la funzione di creare paura e ribrezzo nei giovani lettori: la malvagità di Isacco Levi è per esempio annunciata dalle sue fattezze: «un uomo piccolo ma enormemente pingue, colle estremità superiori sproporzionatamente lunghe, il volto astuto, il naso a rampino, e due occhietti scaltri, coperti da sopracciglia lunghe, folte, nerissime»137; mentre a proposito dell’ebreo Efraim, che compare ne Le iene del deserto, si riporta la diceria popolare «che avrebbe commerciato in anime e venduta come prima la sua, se avesse trovato qualche compratore»138. Più volte ne Il gabbiano fantasma gli ebrei sono chiamati vampiri o sanguisughe in ricordo dell’antica accusa di praticare l’usura, ma anche di quella più infamante di compiere omicidi rituali. E L’omicidio rituale è anche il titolo di un suo romanzo del 1895 dedicato al caso di Damasco139. Nel corso dei decenni altri autori per ragazzi si affiancheranno al sacerdote triestino riproducendone con diverse sensibilità i medesimi moduli, alternando opere agiografiche a romanzi d’avventura. Tra questi i salesiani Celestino Testore140 e Rufillo Uguccioni141, fino al Giuseppe Fanciulli dei romanzi missionari, quale Olka figlio di Dio142, un’esaltazione dell’opera dei missionari salesiani nella Terra del Fuoco.
Il gioco di rimandi tra eroi fittizi e nuove proposte cultuali svolto da autori che passavano con disinvoltura e senza soluzione di continuità dalla stesura di biografie di giovani santi a quella di romanzi per ragazzi, determinò il fissarsi di uno schema narrativo e di un modello agiografico la cui pervasività è testimoniata dalla rilettura che il salesiano Antonio Cojazzi fece della figura di Piergiorgio Frassati nel 1928, a soli tre anni dalla sua morte143: la vita del giovane torinese, il cui processo di beatificazione sarà aperto nel 1932, viene qui compressa in stereotipi che il salesiano aveva già utilizzato nella stesura di molti profili biografici di giovani e la sua santità esaltata attraverso il contrasto con il padre Alfredo – uomo in vista nella Torino dell’età giolittiana, direttore de «La Stampa» di Torino, senatore, avversario del fascismo –, rappresentante di quel mondo secolarizzato da cui Piergiorgio riuscirà ad affrancarsi144. Cojazzi scriveva alla vigilia dei patti Lateranensi che, come disse Pio XI, ridiedero Dio all’Italia e l’Italia a Dio mettendo fine ai «disordinamenti liberali»145. Sono anche gli anni che vanno dalla beatificazione di don Bosco nel 1926 alla sua canonizzazione nel 1934, in cui la macchina mediatica messa in moto dall’Ordine salesiano raggiunge il suo apice; un iter che, attraversando lo snodo del Concordato, scandisce l’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Il 3 aprile del 1934 in un incontro pomeridiano alla presenza del duce e del cardinale Gasparri, l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Cesare Maria De Vecchi146 chiamava il fondatore dei Salesiani «il più italiano dei santi» e continuava: «Soltanto in regime fascista si può comprendere nella sua chiara interezza la storia miracolosa del risorgimento, dove tutti, anche i santi, portano la loro pietra alla grande costruzione nazionale, primo fra questi Don Bosco»147.
Nel 1923 il marchese Piero Misciattelli, noto studioso di Caterina da Siena e membro della Società di Studi Francescani, nel pieno della polemica intrapresa sulle pagine del «Giornale di Roma» contro le posizioni di ostilità nei confronti del Governo fascista assunte da Luigi Sturzo e dagli altri dirigenti del Partito popolare italiano, salutava l’avvento del fascismo come un movimento mistico-religioso giunto a liberare l’Italia dal «fermento bolscevico leninista»148. A Mussolini dedicava questo medaglione agiografico:
«Dal punto di vista storico religioso è importante di osservare come il Mussolini sia un convertito; cioè, per usare la definizione di Wiliam James, un uomo “nato per la seconda volta”, come furono sempre i grandi mistici. La crisi della sua conversione dalla fede socialista alla fede nazionale culminò nell’esperienza durissima della guerra da lui accettata, misticamente compresa, poi sofferta nel fango delle trincee, nella comunione diuturna con l’umile fante ignoto ed eroico. Il figlio del popolo ch’era stato, durante la prima giovinezza, un agitatore delle masse abbagliate dal sole dell’avvenire, ed, in buona fede, un ribelle all’ordine costituito, un capo nelle agitazioni della lotta di classe, comprese allora, pienamente, il valore del sacrificio supremo offerto da uomini umili e grandi, poveri e ricchi, affratellati e combattenti insieme per la salvezza e la grandezza della Patria; sentì la forza infrangibile del nodo che lega per la vita e per la morte i nati della stessa terra. Questo fatto, che può considerarsi una vera e propria esperienza mistica, dovette, io penso, determinare nella mente e nel cuore di Mussolini il definitivo e radicale capovolgimento dei valori ideologici già presentito nel fondo della sua coscienza [...]. La campagna fascista del dopoguerra ha i caratteri d’una lotta religiosa combattuta contro gli eretici negatori della Patria»149.
L’avvento del fascismo per Misciattelli non è un semplice evento politico, ma il tempo in cui si afferma «lo spirito e la poesia dell’Idea francescana, che è tutta gloria italica»150. Nelle sue parole si sente forse l’eco dell’auspicio di Gabriele D’Annunzio che dalla terrazza del Campidoglio nel maggio del 1919 aveva esclamato: «Venga Francesco d’Assisi, il più italiano dei Santi, il più Santo degli italiani e glorifichi con le voci di tutti i suoi beati questa potentissima povera Italia!»151, ma anche la tradizione del cattolicesimo liberale che egli, studioso appassionato di Caterina da Siena, ben conosceva e a cui già aveva attinto per trovare i germi di quella saldatura tra santità e patriottismo che pervade la sua opera agiografica fin dagli anni dell’impresa libica152. Qualche anno dopo in occasione dei festeggiamenti del settimo centenario della morte di Francesco d’Assisi, interrogandosi sulla paternità della frase resa celebre dal Vate, «tanto ripetuta e tanto sfruttata, specie ai nostri giorni», suggerisce di andarla infatti a cercare in quell’ambiente culturale pur non sapendo se attribuirla a Cesare Cantù o a Tullio Dandolo o infine a Niccolò Tommaseo153. Tra i nomi proposti non compare quello di Francesco Prudenzano che pure nel 1857 aveva pubblicato una biografia di Francesco, in cui l’assisiate viene definito il «più grande e più popolare Santo Italiano»154 e posto al servizio dell’ideale neoguelfo cui già Tommaseo e Alfonso Capecelatro avevano consacrato la santa senese155. La coppia Caterina-Francesco sembra essere la più idonea a infrangere antiche barriere ideologiche come nell’anticipatrice opera di Teresita Friedmann Coduri dal titolo Santi ed eroi, in cui le figure di Garibaldi e del santo di Assisi si sovrappongono in nome degli ideali che seppero infondere nei loro contemporanei:
«Parrà curioso di mettere assieme questi due uomini, l’umile patriarca dei Poveri e l’eroe che fu ne’ suoi ultimi anni purtroppo così nemico della Chiesa; eppure nulla di più affine di queste due nature italiane, di questi due condottieri di popoli e fascinatori d’anime, innamorati entrambi della natura e della vita libera, priva di ceppi che la società e soprattutto i vizii della società impongono – e non per misantropia, perché l’animo loro è anzi ripieno di amore per i loro simili, e per essi operano, lavorano, danno la loro vita e sacrificano perfino il loro tesoro più caro, la libertà e l’indipendenza della loro solitudine […].
Essi seppero, ognuno a modo suo nell’opera propria, suscitare un meraviglioso moto ideale, far nascere un entusiasmo collettivo che mobilitò una massa innumerevole di individui umani e li riunì ad un’opera disinteressata e bella»156.
E del resto è al filone agiografico conciliatorista, seppur minoritario, che si farà ricorso nel momento in cui bisognerà supportare con la forza di una tradizione l’inserimento dei due santi medievali, cui si aggiungerà presto Giovanni Bosco, nei piani più alti del composito pantheon del fascismo. Attorno a questa triade si colloca l’intero universo devozionale italiano a partire dai santi più popolari come Rita da Cascia, Antonio da Padova e l’Arcangelo Michele – alle quali furono affidati patronati di specifici settori dell’esercito o delle forze di polizia in occasione delle campagne militari –, ma anche figure come Benedetto da Norcia, la cui promozione cultuale si lega al riordino delle famiglie benedettine sotto l’egida del cardinale Ildefondo Schuster. Non mancano infine figure scelte ad hoc per essere poste a servizio di specifiche campagne di stato quali Maria Goretti, assimilata alla capillare azione propagandistica per la bonifica dell’Agro Pontino157, o il cardinale Guglielmo Massaia, l’Abuna Messias su cui si concentrò l’attenzione di una schiera di agiografi, romanzieri e drammaturghi, monopolizzando la letteratura missionaria degli anni Trenta, che ne rielaborarono la figura in chiave colonialista e imperialista158. Profondi mutamenti investirono anche le forme cultuali e le strutture architettoniche dei principali santuari italiani: valgano per tutti gli esempi del Divino Amore di Umberto Terenzi o della Madonna di Pompei di Bartolo Longo159, o le trasformazioni che interessarono Loreto ora insignito, su proposta di Gabriele D’Annunzio, del patronato dell’Aviazione militare160, ora promosso a piccola Lourdes autarchica dopo il ritorno nel 1934 alla giurisdizione della Santa Sede e il dirottamento sul santuario marchigiano del treno dell’Unitalsi161. Ma anche l’Assisi città-santuario celebrata dal suo sindaco, poi podestà, Arnaldo Fortini nel volume Il ritorno di San Francesco162. Del resto le cerimonie religiose pubbliche si trasformeranno in momenti privilegiati di incontro tra autorità ecclesiastiche e politiche, tra liturgia e religione civile, e ciò a tutti i livelli, dalle feste patronali alle grandi manifestazioni tra cui certamente il settimo centenario della morte di Francesco d’Assisi del 1926 occupa un posto di riguardo per aver ricoperto il ruolo di incubatore dei patti Lateranensi163. In questi anni si moltiplicano anche gli strumenti della propaganda: fu rinnovato l’immaginario pittorico, monumentale e musicale legato ai santi e fu data nuova linfa a quell’immenso serbatoio documentale rappresentato da opuscoli, riviste, santini, cartoline. Gli agiografi infine non si trovarono del tutto impreparati nel confronto con i nuovi mezzi di comunicazione quali il cinema e soprattutto la radio, mezzo su cui si riponevano le speranze di una nuova omiletica che potesse raggiungere capillarmente gli italiani164. Del resto l’incontro tra il microfono radiofonico e l’arte omiletica avvenne nel nome di Francesco, quando il francescano Vittorino Facchinetti, futuro vescovo di Tripoli, si recò negli studi dell’Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche) in Corso Italia a Milano per proporre un omaggio radiofonico al Centenario francescano, consapevole, come scrive in una memoria di quei giorni, «che nessun sacerdote, certo in Italia e fors’anche in Europa, non s’era ancora accostato al microfono per trattare argomenti religiosi»165. Il 31 gennaio nel 1926 il francescano così esordiva:
«Signori ed amici, nel prendere per la prima volta, la parola dinnanzi a questo meraviglioso strumento di comunicazione del proprio pensiero a milioni e milioni di spiriti e di cuori, invisibili e pur presenti, non posso fare a meno di riflettere che se l’umilissimo Santo d’Assisi Giullare del buon Dio e mite Araldo del Gran Re, avesse avuto a sua disposizione un apparecchio radiotelefonico, se ne sarebbe giocondamente servito per lanciare al mondo intero il suo messaggio augurale di bene e di pace: Bonum et pax! E forse, nell’adorabile semplicità del suo spirito, avrebbe sentito il bisogno di aggiungere una nuova strofa al Cantico delle Creature, per lodare e magnificare l’Altissimo onnipotente bon Signore a motivo di questa modernissima invenzione che rende possibile una così rapida, intima, universale irradiazione di bontà e di amore. Ciò che non poté fare il piccolo frate medioevale, grande apostolo dei più sublimi ideali, permettete, o amici che lo compia un suo discepolo, ripetendo in suo nome a ognuno di voi, chiunque voi siate e dovunque vi troviate il suo cristiano e francescano saluto: Bene e pace, ora e sempre!»166.
Il nazionalismo non è un elemento distintivo dei santi nati sul suolo italiano, ma un tratto caratterizzante le nuove canonizzazioni celebrate sotto il pontificato di Pio XI in un delicato equilibrio con la vocazione universalistica della Chiesa: se i martiri inglesi John Fisher e Tommaso Moro sono definiti da Pio XI «egregi rappresentanti e decoro della propria nazione»167, le canonizzazioni del gesuita Andrea Bobòla, di Giovanni Leonardi e di Salvatore da Horta riflettono (ancora nel 1938) la simpatia delle gerarchie ecclesiastiche per i regimi autoritari a cui si riconosceva la capacità di coniugare «influenza cattolica, nazionalismo e anticomunismo»168. Così commentava su «La Civiltà cattolica» Domenico Mondrone la celebrazione dei tre nuovi santi: «Un polacco, un italiano, uno spagnolo [che vengono glorificati] in un momento storico, nel quale i loro rispettivi Paesi si trovano impegnati – sia pur diversamente – in una lotta epica per la difesa della civiltà cristiana». E prosegue:
«Alla Polonia, che da vent’anni resiste alla minaccia di essere travolta dal bolscevismo della Russia confinante; all’Italia, che tiene esemplarmente alta la bandiera contro la barbarie dei senza-Dio; alla Spagna, che a prezzo inaudito di vittime e di sangue si va svincolando dai tentacoli della piovra bolscevica: a ciascuna di queste tre nazioni Iddio largisce quest’anno il dono significativo d’un Santo»169.
Certo è che l’Italia, come ebbe a dire Pio XI nel suo messaggio inviato il 4 ottobre del 1926, era la «madre privilegiata di santi e di eroi» e Mussolini colui che aveva «sapientemente rialzato le sorti della Nazione, accrescendole prestigio in tutto il mondo»170. Nell’agiografia francescana del periodo ben si riflette il graduale avvicinarsi della Chiesa alla politica mussoliniana nell’ottica di quella pacificazione universale legata all’avvento del Regno sociale di Cristo auspicata da Pio XI171. In anticipo con i tempi, nel 1923, in un opuscolo del colonnello Ettore Grasselli sull’erigendo monumento milanese dedicato all’Assisiate che troverà significativamente posto nel 1926 nella piazza intitolata al Risorgimento, Mussolini appare già come il tramite politico di quella pacificazione sociale insita nel messaggio francescano:
«La patria di frate Francesco, l’Italia nostra risente più viva che mai non solo la necessità della pacificazione, ma la propria missione nel mondo di esercitare questa azione pacificatrice, essa, che, come disse in un suo discorso l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri: “è l’unica nazione che svolga una politica di vera pace”»172.
L’araldo del gran Re è il titolo del poema in versi di Eugenio Vallega dedicato nel 1925 a Francesco il cui sottotitolo recita l’Apostolo della “pace di Cristo nel Regno di Cristo”. Nella dedica al lettore leggiamo:
«[...] l’on. Mussolini ha avuto, pare, questo nobile intento: Dopo vinta la guerra, adoperarsi a vincere la pace. E il suo programma, mentre dà tutto il valore alla vittoria delle armi, sembra convergere anche al disarmo degli spiriti e alla rivalutazione dell’economia nazionale: impresa, questa, che senza il ritorno alla calma e al lavoro non potrebbe attuarsi»173.
L’interesse di questo verseggiatore, autore tra l’altro del Vangelo dell’agricoltura, era porre Francesco a capo spirituale di un vasto movimento di fascistizzazione del mondo rurale affidandogli il patronato dei contadini nella convinzione, come esprimerà anni dopo174, che nelle campagne il braccio lungo del regime potesse essere rappresentato dal clero. Non mancano bonari ammonimenti al fascismo ad abolire le «irrequietezze di partito» e le «bardature di guerra» e l’esortazione a «tesoreggiare sempre più e sempre meglio le energie» della religione cattolica175, segno di un rapporto ancora dialettico tra Chiesa e regime che sembra sparire quasi del tutto nelle agiografie del 1926, come quella di fra Ginepro da Pompeiana (al secolo Antonio Conio) dal titolo Francesco d’Assisi il più italiano dei santi176, in cui si respira già un clima pienamente concordatario con la descrizione di un Francesco precursore di Mussolini; o in quella di Paolo Ardali in cui la vita dei due personaggi viene ripercorsa alla ricerca di arditi quanto grotteschi parallelismi: nel volumetto San Francesco e Mussolini, che usciva nella «Biblioteca di cultura fascista» dell’editore Franco Paladino pochi mesi dopo Mussolini e Pio XI dello stesso autore177, si sottolineava lo spirito francescano del Duce in questi termini:
«la sua vita di grandi rinuncie, di sofferenze, di sacrifici, interiori ed esterni, la volontà superatrice, l’alta visione di un fine superiore da conseguire tenacemente a costo di tutto, anche della vita, l’amore degli umili, l’anima cavalleresca, l’ardore della lotta, l’operosità instancabile, l’attività e virtù trasformatrice e dominatrice del tempo suo, l’armonizzarsi, infine, di tutte le sue qualità in una intima atmosfera superiore, calma, serena e luminosa, lo accostano più di quanto non si creda al Santo di Assisi»178.
E più sotto:
«Le pagine più belle di questa virtù, che lo rivela italianissimo tra gli italiani sono quelle della guerra. Ho sotto gli occhi una fotografia di Mussolini in tenuta di marcia: il suo volto patito, sofferente, ma sereno, ma forte, mi richiama alla memoria una pittura di Francesco d’Assisi di scuola Senese del secolo XIII: identica vivezza nello sguardo, identica nobiltà di atteggiamento, manca solo l’aureola»179.
Parole che svelano una versione agiografica in senso proprio del mito mussoliniano che andrebbe ulteriormente approfondita a partire dalle biografie del duce prodotte da agiografi di professione, quale per esempio il celebre scrittore di romanzi per ragazzi Giuseppe Fanciulli, autore nel 1926 di una vita di Francesco per la collana da lui diretta «Le vite dei santi narrate ai giovani» e due anni dopo della biografia il Duce del popolo italiano, tassello autorevole di quella «favola del Duce»180, a cui non era estraneo l’elemento miracolistico: nel libro per la seconda elementare di Armando Petrucci, pubblicato nel 1939, un fanciullo riacquista la parola alla presenza del duce; moduli narrativi che, come scrive Antonio Gibelli, «aiutano a capire meglio il “culto dei santi” promosso dal fascismo, e la ben nota collocazione dei santi stessi accanto agli eroi e ai navigatori nella costellazione dei mitici pilastri dell’italica grandezza»181.
L’accenno dell’Ardali alla fotografia di Mussolini richiama inoltre la vasta produzione di santini e cartoline in cui figure di santi o rappresentazioni di devozioni mariane e cristologiche vengono accostate alle immagini di Mussolini o di simboli fascisti, a veicolare in modo capillare e popolare un patronato che poteva essere letto in senso bidirezionale182. Tra i numerosi esempi è emblematica la cartolina che rappresenta Francesco nell’atto di proteggere il duce da eventuali attentati, mentre in un’altra si leggono alcuni versi in cui Mussolini è definito «il gran protettore della fede francescana» e si chiede al santo di proteggerlo sotto il suo mantello183.
Con la caduta del fascismo fiumi di inchiostro furono usati per disarmare i santi in nome di una pacificazione che sanasse le ferite della guerra, attraverso un’opera di riscrittura che coinvolse piccoli e grandi centri cultuali in tutta Italia. Si trattava talvolta anche di rimuovere una memoria imbarazzante come nel caso del culto antiebraico di Lorenzino da Marostica intorno al cui corpo si riunì la cittadinanza per un voto collettivo il 15 aprile del 1945. Nella preghiera recitata per l’occasione non si fa alcun cenno all’assassinio rituale degli ebrei, che secondo la leggenda avrebbero crocifisso il fanciullo, ma si nomina un impersonale «odio nemico» all’interno di una condanna della guerra «che fa piangere e morire i padri, le mamme e i bimbi innocenti»184.
Nel 1944 in un convegno organizzato da Jolanda De Blasi alla presenza del vescovo di Firenze, nomi illustri come Giovanni Papini e Giulio Facibeni lessero le loro ricostruzioni agiografiche volte a delineare una storia della santità italiana da Paolo di Tarso e Giovanni Bosco185. Nell’Italia dilaniata dalla guerra i relatori chiedevano ai santi di far cessare le ostilità e ricomporre l’unità nazionale per inaugurare un nuovo corso storico in cui la Chiesa, lasciandosi alle spalle ambiguità e silenzi, potesse entrare da protagonista.
1 [C. Curci], La carta geografica dell’Italia, «La Civiltà cattolica» 9, s. IV, 1861, pp. 415-436.
2 G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, in Id., Scritti editi e inediti, Imola 1935, pp. 60-62; cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia, Torino 2000, pp. 63-65. Sull’uso ideologico della carta dell’Italia durante il Risorgimento cfr. G. Pécout, La carta d’Italia nella pedagogia politica del Risorgimento, in Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti, R. Bizzocchi, Roma 2002, pp. 69-87.
3 Cfr. La Galleria delle carte geografiche in Vaticano, a cura di L. Gambi, A. Pinelli, 2 voll., Modena 1994; R. Almagià, Le pitture murali della Galleria delle Carte Geografiche, Città del Vaticano 1952 (Monumenta cartographica Vaticana, III). Sull’immagine cartografica dell’Italia tra Cinque e Seicento R. Almagià, L’“Italia” di Giovanni Antonio Magini e la cartografia dell’Italia nei secoli XVI e XVII, Napoli-Città di Castello-Firenze 1922.
4 P. Prodi, Il sovrano pontefice, Bologna 1982, p. 324.
5 S. Ammirato, Opuscoli, in Fiorenza, nella nuova stamperia d’Amadore Massi e Lorenzo Landi, 1637, II, pp. 48-62, 81-88; T. Bozio, De antiquo et novo Italiae statu libri quatuor Adversus Machiavellum, Romae, apud Johannem Gymnicum, 1595. Cfr. S. Bertelli, Storiografi, eruditi, antiquari e politici, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi, N. Sapegno, V, Milano 1967, pp. 349-350.
6 Cfr. L. Gambi, Per una rilettura di Biondo e Alberti geografi, in Il rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari 1977, pp. 259-275; R. Fubini, La geografia storica dell’Italia illustrata di Biondo Flavio e le tradizioni dell’etnografia, in La cultura umanistica a Forlì fra Biondo e Melozzo, Bologna 1997, pp. 89-112 e Id., L’idea di Italia fra Quattro e Cinquecento: politica, geografia storica, «Geographia Antiqua», 7, 1998, pp. 53-66.
7 Cfr. R. Ferri, Una passeggiata in Italia. L’anonima Ambulatio gregoriana, in La Galleria delle carte geografiche, cit., I, pp. 73-81.
8 F. Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiae et insularum adiacentium, rebusque ab iis praeclare gestis deducta serie ad nostram usque aetatem, 9 voll., Romae, apud Bernardinum Tanum, 1644-1662. In proposito cfr. S. Ditchfield, Liturgy, sanctity and history in Tridentine Italy. Pietro Maria Campi and the presevation of the particular, Cambridge 1995, pp. 328-356.
9 Cfr. S. Spanò Martinelli, Il Catalogus Sanctorum Italiae di Filippo Ferrari, in Europa sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di S. Boesch Gajano, R. Michetti, Roma 2002, pp. 136-145.
10 F. Ferrari, Lexicon Geographicum [...], Mediolani, apud Io. Iacobum, 1627
11 Id., Nova topographia in Martyrologium Romanum [...], Venetiis, apud Bernardum Iuntam, Io. Baptistam Ciottum, & socios, 1609.
12 S. Razzi, Vite de’ santi, e beati toscani, de’ quali insino à hoggi comunemente si ha cognizione, in Fiorenza, per gli eredi di Iacopo Giunti, 1593. Cfr. O. Redon, Hagiographies croisées dans la Toscane de la fin du XVIème siècle, in Raccolte di vite dei santi dal XIII al XVIII secolo. Strutture, messaggi, fruizioni, a cura di S. Boesch Gajano, Fasano (Brindisi) 1990, pp. 143-157. Sui prodromi moderni del sentimento nazionale cfr. inoltre M. Sciarrini, “La Italia natione”. Il sentimento nazionale italiano in età moderna, Milano 2004.
13 O. Gaetani, Vitae Sanctorum Siculorum [...], 2 voll., Panormi, apud Cirillos, 1657; cfr. S. Cabibbo, Il Paradiso del Magnifico Regno. Agiografi, santi e culti nella Sicilia spagnola, Roma 1996 e M. Modica, La santità femminile nelle “Vitae sanctorum siculorum” di Ottavio Caetani, in Raccolte di vite dei santi, a cura di S. Boesch Gajano, cit., pp. 197-213.
14 G.P. Gualtieri, Il glorioso trionfo, ò vero Leggendario de’ Santi Martiri di Calabria, In Napoli, Matteo Nucci, 1630; cfr. B. Clausi, Le «feconde piante di santità» della Calabria: il «Glorioso trionfo» di Paolo Gualtieri (1630), in Italia Sacra, a cura di T. Caliò, M. Duranti, R. Michetti (in corso di pubblicazione).
15 M. Febonio, Vita di S. Berardo Cardinale del titolo di S. Grisogono e d’altri Santi della diocesi dei Marsi [...], in Roma, per Niccolò Angelo Tinassi, 1673.
16 L. Jacobilli, Vite de’ santi e beati dell’Umbria e di quelli, i corpi de’ quali riposano in essa Provincia, 3 voll., Foligno, appresso Agostino Alterij, 1647-1661; cfr. R. Michetti, “Ventimila corpi di santi”: la storia agiografica di Ludovico Jacobilli, in Erudizione e devozione, cit., pp. 73-158. Alle opere prettamente regionali vanno aggiunte quelle raccolte che si saldano a realtà statuali quali il Santuario dell’alma città di Genova, dove si contengono le vite de’ santi protettori, e cittadini di essa [...], di Mariano De’ Grimaldi (in Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1613) e le Historie delle Miracolose Imagini, e delle vite de’ Santi, i corpi de’ quali sono nella città di Lucca di Cesare Franciotti (in Lucca, Appresso Ottaviano Guidoboni, 1613). Sull’opera di Guglielmo Baldessano e il ruolo dell’erudizione geografica nella costruzione di uno spazio regionale piemontese cfr. il saggio P. Cozzo, Vite di santi nella «più occidentale Italia». Agiografia, territori e dinastia nel Piemonte sabaudo di età moderna, in Italia sacra, cit.
17 Per una trattazione più completa di questi temi rimando a T. Caliò, R. Michetti, Un’agiografia per l’Italia, in Europa sacra, cit., pp. 147-180. Sono in via di pubblicazione gli Atti del convegno Italia sacra, cit., dedicato al fenomeno delle raccolte territoriali italiane.
18 L. Jcobilli, Vite de’ santi e beati dell’Umbria, cit., p. 7.
19 Sulle origini medievali del mito G. Ortalli, Scenari e proposte per un Medioevo europeo, in Storia d’Europa, III, Il Medioevo. Secoli V-XV, a cura di G. Ortalli, Torino 1994, p. 23, e sui risvolti nell’erudizione di età moderna: R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia sull’Europa moderna, Bologna 1995, pp. 26-49.
20 Cfr. S. Spanò Martinelli, Il Catalogus Sanctorum Italiae, cit., p. 145.
21 Cfr. M. Rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia 1999, pp. 149-184. Sulla figura di Flaminio Corner cfr. A. Costadoni, Memorie della vita di Flaminio Cornaro, senatore veneziano, Bassano, Remondini, 1780; per alcuni aspetti della sua opera rinvio al mio La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antiebraico dal medioevo ad oggi, Roma 2007, pp. 95-102.
22 Ne sono un esempio la Verona illustrata di S. Maffei (in Verona, per Jacopo Vallarsi e Pierantonio Berno, 1731-1732), le Memorie antiche di Rovereto, e de’ luoghi circonvicini di G. Tartarotti (in Venezia, appresso Marco Cargnioni, 1754) i Monumenta Ecclesiae Tridentinae di B. Bonelli (Tridenti, ex typographia episcopali Joannis Baptistae Monaumi, 1760-1765), ma anche le opere agiografiche giovanili dello stesso Corner quali le Ecclesiae Venetae antiquis monumentiis [...] (Venetiis, typis Jo. Baptistae Pasquali, 1749).
23 [Curci], La carta geografica, cit., pp. 424-425. Sul tema cfr. P. Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Bologna 1998, pp. 272-293 e A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., p. 65. Sulla concezione giobertiana dell’Italia come ‘nuovo Israele’ e sulle polemiche con i Gesuiti e con padre Curci in particolare che seguirono alla pubblicazione del Primato cfr. F. Traniello, Religione, nazione e sovranità nel Risorgimento, in Id., Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007, pp. 59-112. Più in generale sull’atteggiamento de «La Civiltà cattolica» nei confronti del processo di unità nazionale cfr. D. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, in St.It.Annali, 22, 2007, pp. 451-478.
24 Cfr. C. Langlois, Les Martyrs de la Liberté comme contre-modèles de sainteté, in Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarietà, a cura di G. Barone, M. Caffiero, F. Scorza Barcellona, Torino 1991, pp. 415-428.
25 G. Faldella, Roma Borghese, Roma 18852, pp. 221-222.
26 Cfr. D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Manduria-Bari-Roma 2008; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., pp. 172-173; L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari 2007, passim. Utili spunti anche in O. Calabrese, Garibaldi tra Ivanhoe e Sandokan, Milano 1982 e R. Certini, Il mito di Garibaldi. La formazione dell’immaginario popolare nell’Italia unita, Milano 2000, in partic. pp. 106-114.
27 Sull’assimilazione di Garibaldi all’arcangelo Michele cfr. L. Riall, Garibaldi, cit., pp. 336-337.
28 Cfr. M.P. Saci, Calendario dell’anno 1863, in Garibaldi arte e storia, catalogo della mostra (Roma, Museo del Palazzo di Venezia e Museo Centrale del Risorgimento, 23 giugno-31 dicembre 1982), Roma 1982, p. 239.
29 F. Mistrali, I misteri del Vaticano o la Roma dei papi, I, Milano, presso i fratelli Borroni, e Napoli, presso Giustino Merolla, 1866, p. 1.
30 B. Castiglia, Lamoricière, Pio IX, Antonelli. Nuova edizione riveduta dall’autore, Palermo, presso i fratelli Pedone Lauriel, 1860, p. 160.
31 Cfr. I. Porciani, Stato e nazione: l’immagine debole dell’Italia, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di S. Soldani, G. Turi, Bologna 1993, pp. 385-428; F. Mazzocca, L’iconografia della patria tra l’età delle riforme e l’Unità, in Immagini della nazione, cit., pp. 89-111; C. Brice, Italia: una allegoria debole? Sistema iconografico e identità nazionale nell’Italia della fine del XIX secolo, «Memoria e Ricerca», 25, 2007, pp. 171-186. N. Bazzano, Donna Italia, in Simboli della politica, a cura di F. Benigno, L. Scuccimarra, Roma-Viella 2010, pp.45-84.
32 Cfr. M.P. Saci, Commemorazione della gloriosa martire Santa Italia, in Garibaldi arte e storia, cit., p. 241.
33 Cfr. L. Riall, Garibaldi, cit., p. 394.
34 Cfr. M.P. Saci, Passione d’Italia: Stazione VII. L’Italia cade sotto la Croce per la seconda volta, in Garibaldi arte e storia, cit., p. 239. Cfr. «Rigoletto. Giornale serio-umoristico con caricature» dal 26 febbraio 1863 al 5 aprile 1863.
35 Ibidem, 28 ottobre 1863.
36 Cfr. Id., Garibaldi come il Sacro Cuore, ibidem, p. 238.
37 I periodici popolari del Risorgimento, a cura di D. Bertoni Jovine, II, Il decennio di preparazione (1850-1859). I problemi dell’Unità (1860-1870), Milano 1959, p. 140. Cit. anche in L. Riall, Garibaldi, cit., p. 336. Sull’idea dell’Italia come madre cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., pp. 66-70.
38 Cfr. T. Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino, cit., pp. 158-160.
39 P. Mencacci, La mano di Dio nell’ultima invasione contro Roma. Memorie storiche per Paolo Mencacci romano, II, Roma, coi tipi del Salviucci, 1868, p. 302, cit. in C. Brezzi, La «mano di Dio» a Mentana, in Garibaldi condottiero. Storia, teoria, prassi, a cura di F. Mazzonis, Milano 1984, p. 432.
40 Cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., p. 173. Sulle reliquie in particolare cfr. D. Mengozzi, Reliquie, cimeli e souvenir della religione politica garibaldina, in Giuseppe Garibaldi tra storia e mito, a cura di C. Ceccutti, M. Degl’Innocenti, Manduria-Bari-Roma 2007, pp. 131-139, Id., Garibaldi taumaturgo, cit., in partic. pp. 45-81.
41 Poeti minori dell’Ottocento, II, a cura di L. Baldacci, G. Innamorati, Milano-Napoli 1963 (La letteratura italiana. Storia e testi, 58), p. 1102.
42 L. Capuana, Garibaldi. Leggenda drammatica in tre canti, Catania 1861 ristampato in Id., Semiritmi, a cura di E. Ghidetti, Napoli 1972, pp. 129-151. Nel breve poemetto, in cui l’autore immagina che Garibaldi sia figlio di un angelo, Elim, e di una donna siciliana, torna la «correggia» donata questa volta da Elim al figlio: «Quando il periglio stenderà le orrende / Mani, e ti chiuderà cerchio di foco, / E mieterà la strage a te d’intorno, / Stringila pien di fede, ... le mortali / Schegge ti lambiranno senza offesa, / E volerà spumante il destriero / In mezzo a file sgominate e sperse» (vv. 131-136). Pirandello nell’Umorismo, interessato agli aspetti epico-popolari della figura di Garibaldi racconta invece di un «capello di Santa Roalia» incastonato nella sua spada «proprio come Orlando aveva in Durendala un capello della Vergine» (L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Firenze 1994, pp. 53-54). Su questi aspetti cfr. G. Tricoli, Il mito di Garibaldi in Sicilia, «Archivio storico siciliano», s. IV, 9, 1983, pp. 79-106.
43 Cfr. S. Salomone Marino, Garibaldi e le tradizioni popolari, «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», 1, 1882, pp. 458-460. Cit. in L. Riall, Garibaldi, cit., p. 340. Cfr. inoltre G. Tricoli, Il mito di Garibaldi, cit.
44 Cfr. L. Riall, Garibaldi, cit., p. 277-278, D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo, cit., p. 69.
45 Cfr. P. Finelli, «È divenuto un Dio». Santità, Patria e Rivoluzione nel «culto di Mazzini» (1872-1905), in Il Risorgimento, cit., p. 669.
46 G. Ricciardi, Martirologio italiano dal 1792 al 1847. Libri dieci, Firenze, 1860; A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848. Memorie raccolte da Atto Vannucci. Terza edizione, accresciuta e corretta, Firenze 1860 (prima ed. 1848).
47 A. Vannucci, I martiri della libertà, cit., p. XII. A proposito dell’opera del Vannucci e del culto dell’‘eroe-martire’ nella letteratura e nell’iconografia risorgimentale cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento, cit., pp. 170-182 e Id., La memoria degli eroi, in Il Risorgimento, cit., pp. 643-645. Cfr. inoltre E. Irace, Itale glorie, Bologna 2003, p. 139-150.
48 [R. Ballerini], Rivista della stampa italiana, in «La Civiltà cattolica», 8, s. IV, 1860, p. 72.
49 Ibidem, p. 75.
50 Ibidem, p. 74.
51 Cfr. G. Battelli, La tipologia del prete romano fra tradizione e ‘romanitas’ nell’Otto-Novecento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 7, 1988, pp. 219-224.
52 Esemplari in tal senso le vicende relative al culto di s. Giuseppe, fino alla sua elevazione nel 1870 a patrono della Chiesa universale, descritte in D. Menozzi, Un patrono per la Chiesa minacciata dalla Rivoluzione. Nuovi significati del culto a san Giuseppe tra Otto e Novecento, in Contro la secolarizzazione. La promozione dei culti tra Pio IX e Leone XIII, «Rivista di storia del cristianesimo», 1, 2005, pp. 39-49.
53 Cfr. P. Palazzini, Beatificazioni e canonizzazioni del pontificato di Pio IX, in «Pio IX. Studi e ricerche sulla vita della Chiesa dal Settecento ad oggi», 5, 1976, 2, p. 173. Per un’analisi complessiva dei santi e beati proclamati da Pio IX cfr. inoltre G.M. Vian, Papi e santi tra Rivoluzione francese e primo dopoguerra. Per una storia delle canonizzazioni tra Pio VII e Benedetto XV (1800-1922), in Santi della Chiesa nell’Italia contemporanea, a cura di R. Rusconi, «Cristianesimo nella storia», 18, 1997, 3, pp. 585-591.
54 Cfr. M. Caffiero, La politica della santità. Nascita di un culto nell’età dei Lumi, Roma-Bari 1996.
55 Cfr. S. Nanni, Roma religiosa nel Settecento. Spazi e linguaggi dell’identità cristiana, Roma 2000, pp. 77-111 e passim.
56 Ibidem, pp. 135-173.
57 Cfr. T. Caliò, Corpi santi e santuari a Roma nella seconda Restaurazione, in Monaci, ebrei, santi. Studi per Sofia Boesch Gajano, Atti delle giornate di studio «Sophia kai historia» (Roma 2005), a cura di A. Volpato, Roma 2008, pp. 347-360; F. De Palma, Santi romani e processi di canonizzazione a Roma nell’età della secolarizzazione, in La comunità cristiana di Roma, III, La sua vita e la sua cultura tra età moderna ed età contemporanea, a cura di M. Belardinelli, P. Stella, Città del Vaticano 2002, pp. 205-217 e Id., Il modello laicale di Anna Maria Taigi, in Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino 1997, pp. 529-546.
58 Per un approfondimento rinvio ai saggi A. Scattigno, Caterina da Siena: modello civile e religioso nell’Italia del Risorgimento, in Immagini della nazione, cit., pp. 175-200; Id., Per il papa, per la Chiesa cattolica, per le donne italiane. La devozione a Caterina da Siena ai tempi dell’apostasia del mondo moderno, in Contro la secolarizzazione, cit., pp. 69-93 e al capitolo dedicato alla santa nel volume di F. De Giorgi, Il Medioevo dei modernisti. Modelli di comportamento e pedagogia della libertà, Brescia 2009, pp. 193-255. Più concentrati sulla situazione senese i volumi di G. Parsons, Siena, Civil Religion and the Sienese, Aldershot-Burlington 2004 e The Cult of Saint Catherine of Siena. A Study in Civil Religion, Aldershot-Burlington 2009.
59 N. Tommaseo, Lo spirito, il Cuore, la Parola di Caterina da Siena, in Le lettere di S. Caterina da Siena ridotte a miglior lezione e in ordine nuovo disposte con Proemio e note di Niccolò Tommaseo, G. Barbera, Firenze, 1860, I, p. LX. Scrive Anna Scattigno: «Le lettere di Caterina da Siena erano ormai un campo di battaglia; chiosate, amputate, ridotte a frammento, non restituivano più un’immagine univoca, ma semmai più volti. Mentre la “Civiltà Cattolica” invocava la santa vendetta del perdono contro il «gretto, sofistico, rabbioso» profanatore della «colomba angelica di paradiso», il profilo di Caterina vergato da Tommaseo veniva ristampato a Milano ed entrava a far parte di una galleria di “illustri donne italiane”, accanto a quello di Anita Garibaldi» (Scattigno, Caterina da Siena, cit., p. 193). Su questi temi cfr. inoltre F. De Giorgi, Il Medioevo dei modernisti, cit., pp. 193-202.
60 Cfr. in proposito G.T. Masetti, Memoria istorica delle varie traslazioni delle sacre ossa di Santa Caterina da Siena e delle feste celebrate in onore di Lei nella chiesa di S. Maria sopra Minerva in Roma l’anno 1855. Seconda edizione, Siena, Tip. Arciv. di Giovanni Baroni e figli, 1856, pp. 19-26 e G. Moroni, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, LXXV, Venezia, dalla tipografia Emiliana,1855, pp. 216-217.
61 S. Caterina da Siena annoverata dal regnante augusto Pontefice Pio IX fra i protettori dell’eterna città. Breve apostolico con analoghe iscrizione ed inno, Roma, Tipografia Monaldi, 1866, pp. 6-7.
62 Sul corpo degli zuavi pontifici, istituito in realtà ufficialmente solo il 1° gennaio del 1861, cfr. Ph. Boutry, s.v. Zuavi pontifici, in Dizionario storico del papato, diretto da Ph. Levillain, Milano 1996, pp. 1560-1564.
63 [R. Ballerini], I morti per la Chiesa. A Dragonara il 1053 e nel Piceno il 1860. Riscontro storico, «La Civiltà cattolica», 8, s. IV, 1860, p. 187.
64 Cfr. Pii IX Pontificis Maximi Acta. Acta exhibens quae ad Ecclesiam Universam spectant, Romae, ex typographia bonarum artium, s.d., III, pp. 180-189.
65 Sul suo ruolo nell’entourage di Pio IX cfr. G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma 1986 (Miscellanea Historiae Pontificiae, 51), pp. 154-155, 179-185.
66 A. De Ségur, I martiri di Castelfidardo. Prima versione italiana, Bologna 1862 (tit. or. Les Martyrs de Castelfidardo, Paris, Ambroise Bray Libraire éditeur, 1861), pp. 11-12.
67 Il riferimento è all’articolo [L. Taparelli], La milizia nei tempi moderni, «La Civiltà cattolica», 11, s. IV, pp. 685-689 cit. in D. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione, cit., pp. 465-466, Cfr. inoltre J. Guenel, La dernière guerre du pape: les zuaves pontificaux au secours du Saint-Siège. 1860-1870, Rennes 1998.
68 [A. Bresciani], Olderico ovvero il zuavo pontificio, racconto del 1860, in «La Civiltà cattolica», 11, s. IV, 1861, p. 185.
69 Ibidem, p. 174.
70 Ibidem, 9, s. IV, 1861, p. 411.
71 Ibidem, 12, s. IV, 1861, pp. 303-324.
72 Cfr. Un prodigio, «Il Veridico. Foglio popolare», II, 13, 28 marzo 1863, p. 50 e J.S. Allard, Il volontario Giuseppe Luigi Guérin del corpo de’ zuavi pontificii nato a Sainte-Pazanne li 5 Aprile 1838 morto in Osimo li 30 Ottobre 1860. Narrazione dell’Ab. G.S. Allard canonico della cattedrale di Nantes. Traduzione dal francese per L.G.R., Roma, dalla Tipografia Forense, 1863, pp. 349-354.
73 Cfr. S.J. Allard, Il volontario Giuseppe Luigi Guérin, cit., p. 328.
74 Ibidem, pp. 327-329.
75 Ibidem, pp. 12-13.
76 A. Bresciani, Olderico ovvero il zuavo pontificio, racconto del 1860, Roma, Coi tipi della Civiltà Cattolica, 1862, p. 6.
77 Sulla figura di don Margotti cfr. P. Stella, Cultura e associazioni cattoliche tra la Restaurazione e il 1864, in Storia di Torino, VI, La città nel Risorgimento (1798-1864), a cura di U. Levra, Torino 2000, pp. 493-525 e P. Cozzo, Protestantesimo e stampa cattolica nel Risorgimento. “L’Armonia” e la polemica antiprotestante nel decennio preunitario, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1, 2000, pp. 77-113 e G. Lupi, s.v. Margotti Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXX, Roma 2008, pp. 176-180.
78 G. Margotti, Le vittorie della Chiesa nel primo decennio del pontificato di Pio Nono, Milano, Tipografia e Libr. Arcivescovile Ditta Boniardi-Pogliani di E. Besozzi, 1857.
79 [G. Margotti], La passione di Pio IX, «L’Armonia della religione colla civiltà», XIII, 257, 4 novembre 1860, pp. 1-2.
80 H. Sauvé, Pie IX dans la voie du Calvaire, ou les XIV stations du Chemin de la Croix appliquées à N.T.-S.P. le Pape […], Laval, impr. De Mary-Beauchêne, 1861.
81 Sul culto di Pio IX durante il pontificato e negli anni immediatamente dopo la morte cfr. soprattutto il cap. IV (Dal martire della Rivoluzione al «prigioniero del Vaticano») del volume di R. Rusconi, Santo padre. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2009, pp. 317-385. Cfr. inoltre B. Horaist, La dévotion au Pape et les catholique français sous le pontificat de Pie IX (1846-1878), Rome 1995 (Collection de l’École Française de Rome, 212).
82 Sul processo di esaltazione della Roma costantiniana cfr. A. Pastorino, L. Pastorino, I restauri delle chiese ad impianto basilicale a Roma durante il pontificato di Pio IX, «Ricerche di storia dell’arte», 56, 1995, pp. 61-72.
83 Cfr. per esempio per una comparazione tra gli antichi tiranni e i moderni avversari del pontefice C. Giorgi, Discorsi intorno al glorioso martire S. Lorenzo comprotettore di Roma […], Roma, Tipografia di Monaldi, 1864.
84 Citato in Il sepolcro di Pio IX in S. Lorenzo fuori delle mura di Roma, Milano, Tip. Pont. Di S. Giuseppe, 1890, p. 6. Sulle vicende relative al testamento cfr. G. Martina, Pio IX (1867-1878), Roma 1990 (Miscellanea Historiae Pontificiae, 58), p. 512 in nota.
85 La gloria del Vaticano nel trionfo dei martiri giapponesi […], s.l. 1862, p. 7.
86 Rimando per una più ampia trattazione di questi temi al fondamentale saggio di P.G. Camaiani, Il diavolo, Roma e la rivoluzione, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 8, 1972, pp. 485-516.
87 Il trionfo di Pio IX nella sconfitta delle schiere pontificie a Castelfidardo per un giovane maceratese, Roma 1863, p. 78.
88 Cfr. l’opuscolo scritto per commemorarne la morte Il marchese Giorgio Pimodan generale della Santa Sede morto nella battaglia di Castelfidardo, Roma 1860.
89 Il trionfo di Pio IX, cit., p. 79.
90 Ibidem, p. 82.
91 [G. Piccioni], I martiri di Castelfidardo del pastore arcade Coridemo Pratilio, s.d., s.l.
92 [M. Liberatore], Dell’ultima epoca del mondo, «La Civiltà cattolica», 5, s. V, 1863, p. 142; cfr. R. Rusconi, Devozione per il pontefice e culto per il papato al tempo di Pio IX e di Leone XIII nelle pagine di «La Civiltà Cattolica», in Contro la secolarizzazione, cit., p. 12.
93 [M. Liberatore], Dell’ultima epoca del mondo, cit., p. 143.
94 Cfr. G. Radice, Pio IX e il «disastro accaduto in S. Agnese il dì 12 Aprile», «Pio IX. Studi e ricerche sulla vita della Chiesa dal Settecento ad oggi», IV/1, 1975, pp. 115-121. Pochi giorni dopo «La Civiltà cattolica» così descriveva la mirabolante caduta del papa: «Pare ad alcuni che il Papa cadesse seguendo il cadere di quel pezzo di trave su cui poggiava la sedia, e, per quanto si può congetturare, sembra che, sdrucciolando pian piano sopra di esso, il Papa con tutta la sedia venisse insieme colla trave a terra, dove la sedia medesima (mirabile provvidenza!) rovesciatasi sopra il Santo Padre, senza offenderlo per nulla, gli servì anzi come di tetto a difesa del capo e di tutta la persona dai cadenti rottami», Relazione del disastro accaduto in S. Agnese il dì 12 di Aprile, «La Civiltà cattolica», 10, s. II, 1855, p. 341.
95 Cfr. «Giornale di Roma», 82, 13 aprile 1858, p. 329. Cfr. C. Bon Valsassina, Arte a Roma attorno ai giubilei del XIX secolo, in La storia dei giubilei, IV, 1800-2000, a cura di F. Margiotta Broglio, Prato 2000, p. 72.
96 Per una minuziosa descrizione della festa dal 1860 al 1870, tratta dai documenti dell’epoca, cfr. G. Sacchi Lodispoto, La luminaria del 12 aprile nell’ultimo decennio di Roma papale, in Feste e cerimonie nella tradizione romana e laziale, Roma 1976, pp. 407-444.
97 Sul caso Mortara cfr. D.I. Kertzer, Prigioniero del Papa Re. Storia di Edgardo Mortara, ebreo, rapito all’età di sei anni da Santa Romana Chiesa nella Bologna del 1858, Milano 1996, cui rimando per ulteriore bibliografia.
98 Sono parole che si trovano nel memoriale scritto in lingua spagnola da Edgardo Mortara nel 1888 quando già aveva preso gli ordini sacerdotali con il nome di Pio Maria. Cfr. V. Messori, «Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX». Il Memoriale inedito del protagonista del «caso Mortara», Milano 2005, pp. 87-88.
99 Il 12 aprile ed il popolo romano 1860, Roma, dalla Tipografia Forense, 1860, pp. 52-54. Un altro ‘trasparente’ di Gabriele Cavazzi dal titolo Allegoria del papato con Pio IX, San Pietro e Roma con la lupa e i gemelli è conservato nel Museo di Roma (cfr. M. Fagiolo, Pio IX: il canto del cigno della religione, in La festa a Roma dal Rinascimento al 1870, a cura di Id., I, pp. 154-157 e 244 e G. Capitelli, Icone del culto in difesa dell’identità anti-moderna, in Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 7 marzo-29 giugno 2003), Milano 2003, p. 255.
100 Il 12 aprile ed il popolo romano, cit., pp. 51-52.
101 Dichiarazione delle pitture a fresco eseguite nella venerabile chiesa di S. Niccolò al Carcere Tulliano in Roma, Roma, dallo stabilimento tipografico di Giuseppe Via, 1865, pp. 4-5. Cfr. in proposito C. Bon Valsassina, La pittura a Roma nella seconda metà dell’Ottocento, in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, pp. 441-442.
102 Cfr. G. Capitelli, Icone del culto, cit., p. 255. Sui giubilei straordinari di Pio IX a partire da quello del 1867 rimando alle considerazioni in R. Rusconi, Devozione per il pontefice, cit., pp. 13-20.
103 Il quadro apparteneva a quei dipinti d’occasione con cui il postulatore della causa omaggiava il papa e fu posto nella nuova “Galleria dei Santi e dei Beati” fatta allestire in Vaticano da Pio IX e inaugurata il 21 giugno del 1857 (cfr. M.C., Nuova Galleria de’ santi e beati in Vaticano, in P. Cacchiatelli, G. Cleter, Le Scienze e le Arti sotto il pontificato di Pio IX, Roma, Stabilimento Tipografico di G. Aureli, Roma 1860, p. 200). Sulla Galleria cfr. G. Capitelli, Raccontare il sacro: la galleria dei Santi e dei Beati in Vaticano, in La pittura di storia in Italia. 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli, C. Mazzarelli, Milano 2008, pp. 195-209.
104 Pii IX Pontificis Maximi Acta. Acta exhibens quae ad Ecclesiam Universam spectant, Romae, ex typographia bonarum artium, s.d., I, pp. 416-425.
105 [A. Chicaro], Il centenario di S. Pietro e i Martiri Gorcomiesi canonizzati lo stesso dì 29 Giugno 1867. Orazione panegirica detta dal P. Anacleto da Sanfelice Minore Osservante nel secondo giorno del solenne quatriduo nel Tempio d’Aracieli, Roma, Tipografia dei fratelli Monaldi, 1867, p. 11.
106 Cfr. [M. Liberatore], Un nuovo tributo a S. Pietro, «La Civiltà cattolica», 10, s. VI, 1867, p. 641.
107 Una riproduzione in P. Raggi, La nona crociata. I volontari di Pio IX in difesa di Roma, 1860-1870, Ravenna 1992, p. 181.
108 Si vedano per esempio le parole pronunciate dallo stesso Pio IX nell’allocuzione del 20 dicembre del 1867 per commemorare i morti pontifici: «Quamplurimi autem viri nobilissimo etiam genere nati, ex omnibus fere regionibus, religionis causa excitati, propriis familiis, ac etiam uxoribus, filiisque relictis, ad hanc urbem certatim concurrunt, et omnibus despectis incommodis ac periculis, Nostrae militiae nomen dare, et pro Ecclesia, pro Nobis, ac pro civilis Nostri, et huius Sanctae Sedis Principatus defensione vitam ipsam profundere non dubitant. Nec desunt catholici parentes, qui religionis spiritu incensi filios suos etiam unigenitos ad huius Sanctae Sedis causam tuendam mittum, et illustre Machabaeorum matris aemulantes exemplum, illos pro hac causa sanguinem fudisse gloriantur et gaudent» (Pii IX Pontificis Maximi Acta, cit., IV, pp. 384-385).
109 Cfr. G. Martina, Interpretazioni di Pio IX: storia di una storiografia, in Primo Convegno di ricerca storica sulla figura e sull’opera di papa Pio IX (Senigallia 1973), a cura del Centro Studi Pio IX, Senigallia 1974, p. 67.
110 Il Mencacci pubblicò parte del suo lavoro (P. Mencacci, La mano di Dio, cit.) sul «Divin Salvatore», periodico inaugurato il 20 settembre del 1864 sotto la sua direzione, per poi ampliarlo e raccoglierlo in tre volumi nel 1869.
111 [Bresciani], Olderico, cit., «La Civiltà cattolica», 11, s. IV, 1861, p. 182.
112 G.G. Franco, I crociati di San Pietro storia e scene storiche della guerra di Roma anno 1867 […]. 2ªͣ edizione, ricavata dalla Civ. catt., con rettificazioni e molte aggiunte, Roma, coi tipi della Civiltà Cattolica, 1870, I, p. 95.
113 G.G Franco, I crociati, cit., III, p. 547. Una descrizione del monumento nel «Giornale di Roma», 135, 15 giugno 1870, p. 539 e del progetto, ivi, 127, 4 giugno 1868, p. 508. Cfr. inoltre R. De Cesare, Roma e lo Stato del Papa. Dal ritorno di Pio IX al XX settembre 1850-1870, Milano 1970, pp. 196-197.
114 Teresa di Lisieux, Œuvres completed, diretto da L. Lonchampt, Paris 1992, p. 224.
115 L’espressione in B. Tobia, Una patria per gli italiani, Roma-Bari 1991, in partic. pp. 93-99.
116 Cfr. L. Berggren, L. Sjöstedt, L’ombra dei grandi. Monumenti e politica monumentale a Roma (1870-1895), Roma 1996; sulla nuova toponomastica risorgimentale a Roma S. Raffaelli, I nomi delle vie, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1998, p. 222.
117 Cfr. L. Berggren, L. Sjöstedt, L’ombra dei grandi, cit., pp. 67-81.
118 P.V. Ferrari, Villa Glori. Ricordi ed aneddoti dell’autunno 1867, Dante Alighieri, Roma, 1899, p. 143.
119 Il riferimento è al romanzo di A. Bresciani, Edmondo o dei costumi del popolo romano, Milano, Tipografia e Libreria Arcivescovile, 1862, pubblicato a puntate su «La Civiltà cattolica» nel 1859. Cfr. in proposito T. Caliò, Corpi santi e santuari, cit., pp. 331-346 e A. Di Ricco, Padre Bresciani: populismo e reazione, «Studi storici», 4, 1981, pp. 833-860 (ora anche in Id., Studi su letteratura e popolo nella cultura cattolica dell’Ottocento, Pisa 1990, pp. 73-112).
120 Il santuario di Loreto e la predestinazione dell’Italia, «Memorie domenicane», 1, 1884, p. 530, cit. in A. Volpato, S. Caterina e il laicato domenicano fra Crispi e la Prima guerra mondiale, in Santi, culti, simboli, cit., p. 382.
121 Cfr. G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 1998, pp. 35-59; D. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione, cit., p. 465 e L. Demofonti, Fede religiosa e amor di patria nell’episcopato italiano dopo l’Unità, in Chiesa, laicità e vita civile. Studi in onore di Guido Verucci, a cura di L. Ceci, L. Demofonti, Roma 2005, pp. 95-111.
122 L’espressione in P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, II. Mentalità religiosa e spiritualità, Roma 1981, p. 93.
123 Cfr. F. Traniello, Mondo cattolico e cultura popolare nell’Italia unita, in Id., Religione cattolica, cit., in partic. pp. 200-205, e Id., Don Bosco e l’educazione giovanile: la «Storia d’Italia», in Don Bosco nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Brescia 1991, pp. 61-87.
124 Cfr. G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, II, Dall’emancipazione ad oggi, in St.It.Annali, XI, 1997, pp. 1408-1418.
125 Cfr. J. Frankel, The Damascus Affair: “ritual murder”, politics, and the Jews in 1840, Cambridge 1997 e T. Caliò, La leggenda dell’ebreo, cit., pp. 117-150.
126 Cfr. Ibidem, pp. 163-166.
127 G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, Torino, Tipografia dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, 1848, p. 122 [prima ed. 1845]. Cfr. T. Caliò, La leggenda dell’ebreo, cit., p. 170, p. 180 n.
128 Lettera del 8 marzo 1882 scritta da Giovanni Oreglia, cit. in A.M. Canepa, Cattolici ed ebrei nell’Italia liberale (1870-1915), «Comunità», 179, 1978, pp. 43-109.
129 G. Bosco, Valentino o la vocazione impedita. Episodio contemporaneo [...], Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, 1866. Cfr. P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità, cit., pp. 212-215; sulla figura del santo giovane nell’Ottocento cfr. Id., Santi per giovani e santi giovani, in Santi, culti, simboli, cit., pp. 563-586.
130 Rocca D’Adria [pseud. C. Algranati], Nella tribù di Giuda, Genova, Gio. Fassicomo e Scotti librai editori, 1895. Cfr. A.M. Canepa, L’immagine dell’ebreo nel folclore e nella letteratura del postrisorgimento, «La Rassegna mensile di Israel», XLIV, 5-6, 1978, pp. 383-399.
131 Rocca D’Adria [pseud. C. Algranati], Nella tribù di Giuda, cit., p. 179.
132 Cfr. Mons. Ugo Mioni scrittore, Atti del Convegno promosso dalla Società istriana di archeologia e storia patria nel 50° della morte, Trieste 1986; F. Pozzo, Ugo Mioni tra Verne e Salgari, «LG Argomenti», XIX, 1, 1983, pp. 30-34; P. Boero, C. De Luca, La letteratura per l’infanzia, Roma-Bari 1995, pp. 85-87.
133 U. Mioni, Le iene del deserto. Avventure, Torino-Roma, 1934 [prima ed. 1897], p. 254.
134 Id., La fanciulla della prateria. Romanzo, Alba, 1902 [prima ed. 1901], p. 188.
135 Id., La ridda dei milioni. Avventure, Milano, Prem. Scuola Tip. Artigianelli, 1908.
136 Id., Il Gabbiano fantasma. Romanzo americano, Alba, 1923.
137 Id., La ridda dei milioni, cit., p. 7.
138 Id., Le iene del deserto, cit., p. 44.
139 Id., L’omicidio rituale. Appunti di un viaggio sul Libano ed a Damasco, Parma, Tipografia Vesc. Fiaccadori, 1895.
140 Cfr. per esempio il western cattolico C. Testore, L’oro del Klondike (con disegni di Edel), Venezia, 19302 (Racconti di terre lontane, XXIV), in cui è preponderante la polemica antiprotestante.
141 Cfr. R. Uguccioni, L’avvoltoio sul nido, Milano, 1939, ambientato in Russia al tempo della rivoluzione bolscevica, che narra del rapimento da parte di un usuraio ebreo del bambino di un suo creditore.
142 G. Fanciulli, Olka figlio di Dio. Romanzo della Terra del Fuoco (illustrazioni di Filiberto Mateldi), Torino, 1935.
143 A. Cojazzi, Pier Giorgio Frassati. Testimonianze, Torino 1928.
144 Cfr. M.A. Genovese, Pier Giorgio Frassati: un “caso” agiografico, in Santi del Novecento. Storia, agiografia, canonizzazioni, a cura di F. Scorza Barcellona, Torino 1998, pp. 83-102.
145 Discorsi di Pio XI, a cura di D. Bertetto, II, Torino 1961, p. 17. Cfr. G. Miccoli, Chiesa cattolica e totalitarismi, in La Chiesa cattolica e il totalitarismo, Atti del Convegno (Torino 2001), a cura di V. Ferrone, Firenze 2004, p. 7.
146 Cfr. E. Santarelli, s.v. De Vecchi Cesare Maria, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, XXXIX, Roma 1991, pp. 522-531.
147 C.M. De Vecchi, Don Bosco santo italiano. Commemorazione tenuta in Campidoglio il 2 aprile 1934-XII alla presenza di S.E. Benito Mussolini [...], Torino 1934, p. 10. Cit. in P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, III, La canonizzazione (1888-1934), Roma 1988, p. 266.
148 P. Misciattelli, Fascisti e cattolici, Milano, 1924, p. 13.
149 Ibidem, p. 14. Cfr. E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari 20054, pp. 96-98; R. Moro, Il mito dell’impero in Italia fra universalismo cristiano e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004, pp. 334-335.
150 P. Misciattelli, Fascisti e cattolici, cit., p. 73.
151 Sul s. Francesco di D’Annunzio cfr. E. Irace, Itale glorie, cit., pp. 215-222.
152 Su Misciattelli biografo di mistici senesi [P. Misciattelli, Prefazione a Pensieri di S. Caterina da Siena, Siena 1913 e Id., Mistici senesi, Siena 1911, 19132] cfr. A. Scattigno, Decoro della Patria: Caterina da Siena patrona d’Italia, in San Francesco d’Italia, Atti del Convegno Internazionale del Centro europeo di studi agiografici (Rieti 2009), a cura di T. Caliò, R. Rusconi, in corso di stampa.
153 L’Italia francescana nel settimo centenario della morte di S. Francesco, S. Maria degli Angeli 1927, p. 382.
154 F. Prudenzano, Francesco d’Assisi e il suo secolo considerato in relazione con la politica, cogli svolgimenti del pensiero e colla civiltà, Napoli, Tipografia di Federico Vitale, 1857, p. 222. Su Prudenzano cfr. Narratori salentini dell’Ottocento. Forleo, Castiglione, Prudenzano, a cura di A. Mangione, Lecce 1981, in partic. pp. 343-360.
155 Sull’opera di A. Capecelatro, La storia di Santa Caterina da Siena e del papato del suo tempo, Siena 1856, cfr. A. Scattigno, Per il papa, per la Chiesa cattolica, cit.
156 T. Friedmann Coduri, Santi ed eroi. San Francesco. Santa Caterina da Siena, Santa Teresa, Siegfried (Sigurd), Florian Geyer, Garibaldi. Strenna a beneficio del Pio Istituto dei Rachitici, Milano, Tip. Pietro Agnelli, 1900, pp. 229-231, cit. in F. De Giorgi, Il Medioevo dei modernisti, cit., p. 69.
157 Cfr. M. Bonomo, Autoritratto rurale del fascismo italiano. Cinema, radio e mondo contadino, Ragusa 2007, p. 104, e N. Mazzocchi Alemanni, La conquista agricola dell’Agro Pontino, in P. Bevilacqua, M. Rossi Doria, Le bonifiche in Italia dal 700 ad oggi, Roma-Bari 1984, p. 318.
158 Sulla rivisitazione della figura del cappuccino missionario nel periodo fascista cfr. L. Ceci, Abuna Messias (1939): il cardinale che doveva preparare l’impero, in San Francesco d’Italia, cit.; Id., Letture politiche di una vicenda missionaria: Guglielmo Massaja nella propaganda colonalista, in Guglielmo Massaja 1809-2009. All’Africa attraverso l’Africa, Atti del Convegno di apertura delle iniziative di celebrazione (Roma 2008), a cura di P. Magistri, Roma 2010, pp. 131-144.
159 Cfr. Violi, Religiosità e identità collettive. I santuari del Sud tra fascismo, guerra e democrazia, Roma 1996; Id., Religione e identità civili nei santuari dall’Unità al secondo dopoguerra, in Lo spazio del santuario. Un osservatorio per la storia di Roma e del Lazio, a cura di S. Boesch Gajano, F. Scorza Barcellona, Roma-Viella 2008, pp. 393-402.
160 Cfr. Il volto religioso della guerra. Santini e immaginette per soldati, a cura di M. Franzinelli, Faenza 2003, p. 97.
161 Documenti che attestano i velati malumori della dirigenza dell’Unitalsi per l’obbligo di sostituire il pellegrinaggio a Lourdes con quello al santuario di Loreto si trovano nell’Archivio dell’Unitalsi. Si veda anche quanto scrive De Vecchi nella sua autobiografia a proposito della diffidenza di Mussolini nei confronti dei pellegrinaggi al santuario francese che potevano essere occasione di espatri clandestini: «Ancora non avevo letto la lettera di Mussolini che provocò una nuova libecciata. Diceva: «Caro de Vecchi, ti mando un mucchietto di carte dalle quali risulta: 1. Che i pellegrinaggi di Lourdes sono il pretesto di numerosi espatri. [...]. Quanto ai pellegrinaggi di Lourdes c’era, nel “mucchietto di carte”, una documentazione inconfutabile e tutto riguardava l’Azione Cattolica che operava da agenzia per gli espatri clandestini» (C.M. de Vecchi, Il quadrumviro scomodo, Milano 1983, p. 161).
162 A. Fortini, Il ritorno di San Francesco, Milano 1937.
163 Cfr. F. Torchiani, 4 Ottobre 1926. San Francesco, il regime e il centenario, in Francesco d’Italia, cit.
164 Cfr. per esempio l’articolo del gesuita G. Martegani, La radio e l’apostolato religioso, «La Civiltà cattolica», 84, IV, 1933, pp. 166-168.
165 Cfr. V. Facchinetti, La Radio e l’Apostolato religioso (corrispondenza d’anime), Milano, 1930, p. 3.
166 Id., La radiotelefonia e il Centenario francescano, «Frate Francesco. Rivista di cultura francescana», III, 8, 1926, pp. 98-100. Cfr. G. Isola, Abbassa la tua radio per favore... Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Scandicci 1990, pp. 143-202, e su Facchinetti anche Id., L’immagine del suono. I primi vent’anni della radio italiana, Firenze 1991, pp. 36-40.
167 Cfr. A. Giovagnoli, Nazionalità e universalità nella Chiesa di Pio XI, in Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 2003, pp. 16-19.
168 Ibidem, p. 16.
169 D. Mondrone, Le tre canonizzazioni nell’Alleluia di Pasqua, «La Civiltà cattolica», 89, II, 1938, pp. 97-112.
170 «La Civiltà cattolica», 4 ottobre 1926, p. 85.
171 Cfr. D. Menozzi, Liturgia e politica: l’introduzione della festa di Cristo Re, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, M. Toschi, et al., Bologna 1996, pp. 605-656; Id., La dottrina del regno sociale di Cristo tra autoritarismo e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo, cit., pp. 17-55.
172 E. Grasselli, Frate Francesco d’Assisi e il suo monumento a Milano (IV ottobre MCCXXVI – MCMXXVI). Conferenza tenuta a Milano nel Salone dell’Istituto dei Ciechi il 26 maggio 1923, Milano, 1923, p. 12.
173 E. Vallega, L’araldo del Gran Re ossia l’Apostolo della “pace di Cristo nel Regno di Cristo”, Città di Castello, 1925, p. 12.
174 Cfr. M. Franzinelli, Il clero fascista, in Il regime fascista. Storia e storiografia, a cura di A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi, Roma-Bari 1995, p. 193.
175 E. Vallega, L’araldo del Gran Re, cit., p. 12.
176 Fra Ginepro da Pompeiana [Antonio Conio], Francesco d’Assisi il più italiano dei santi, Sanremo, 1926.
177 P. Ardali, Mussolini e Pio XI, Mantova, 1926 (“Mussolinia”. Biblioteca di cultura fascista, pubblicazioni periodiche mensili dirette da Franco Paladino).
178 P. Ardali, San Francesco e Mussolini, cit., p. 5.
179 Ibidem, p. 21.
180 L’espressione in A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino 2005, p. 247.
181 Ibidem.
182 L’esempio più grottesco è la Madonna del Manganello, venerata in una chiesa di Monteleone Calabro (oggi Vibo Valentia), su cui M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Milano 2003.
183 E. Sturani, Il fascismo in cartolina, in Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, Roma-Bari 2008, p. 125.
184 La cappella votiva del beato Lorenzino, Marostica 1947, p. 5. Cfr. T. Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino, cit., pp. 196-197.
185 Santi italiani, a cura di J. De Blasi, Firenze 1947.