Agapito I, santo
Appartenne a illustre famiglia senatoria romana (che non era però, come si vuole da alcuno, della grande casata degli Anici): aveva il suo palazzo sul Celio, al clivo di Scauro, vicino a quello della famiglia di Gregorio Magno, alla quale quasi certamente era imparentato, ed in proprietà della quale passò il palazzo stesso con le dipendenze. Al tempo dello scisma laurenziano la sua famiglia parteggiò per Simmaco. Il padre di A., Gordiano, era stato uno dei presbiteri uccisi dai fautori di Lorenzo, quando nel settembre 502 avevano assalito, a mano armata, Simmaco ed il suo seguito per impedire al papa, uscito dal rifugio di S. Pietro, di raggiungere la basilica Sessoriana (S. Croce in Gerusalemme), dov'era raccolto il concilio che doveva giudicarlo per ordine di Teoderico. Roma ed il papato attraversavano un periodo difficile anche nel momento in cui A. fu assunto alla cattedra di s. Pietro.
Dieci anni prima l'elezione di Felice IV era stata imposta con un atto d'imperio da Teoderico ai sostenitori di un altro candidato, che era probabilmente l'arcidiacono della Chiesa di Alessandria, Dioscoro. Quest'ultimo, nel 530, spentosi Felice IV, era stato eletto e consacrato papa contro Bonifacio II, e solo la sua morte avvenuta il 14 ottobre dello stesso anno aveva aperto la via a comporre lo scisma. Ma era rimasto, come motivo di rinnovati dissensi, l'istituto della designazione del successore da parte del papa vivente, che Felice IV aveva cercato di stabilire in modo definitivo con un proprio "constitutum", designando a succedergli appunto Bonifacio II, e che Bonifacio II aveva riaffermato facendo colpire d'anatema come colpevole d'averlo violato Dioscoro, e designando con un altro "constitutum" a succedergli il diacono Vigilio. L'istituto, visto di buon occhio dalla corte di Ravenna in quanto mezzo utile ad assicurarsi una serie di papi favorevoli al regime goto, era però tenacemente avversato dal clero, mosso da ragioni prevalentemente spirituali, perché lesivo della tradizione canonica della libertà delle elezioni episcopali, e dal Senato, mosso anche da ragioni politiche, perché toglieva ai suoi membri la possibilità di far sentire il peso delle loro influenze personali alla morte di un papa. Bonifacio II si era visto costretto a compiere un atto solenne di rinuncia all'istituto, dichiarandosi colpevole per aver designato Vigilio, e bruciando di propria mano, davanti alla confessione di s. Pietro, il "constitutum" relativo. Ma due mesi e mezzo di aspri contrasti erano corsi dalla sua morte, nell'ottobre 532, alla consacrazione, 2 gennaio 533, dell'immediato predecessore di A., Giovanni II. Con quest'ultimo erano venuti a conflitto Cassiodoro ed i senatori suoi amici, sostenitori del regime goto. Gli rimproveravano di non averli tenuti al corrente del carteggio da lui scambiato con Giustiniano per la controversia dottrinale allora dibattuta a Costantinopoli sulla Trinità, la Passione, la Vergine; e vedevano con inquietudine i rapporti sempre più stretti che si andavano stabilendo fra il papa e l'imperatore.
Quando, alla morte di Giovanni II (8 maggio 535) A. fu eletto, e il 13 maggio consacrato, da poco si era consumata la tragedia di Amalasunta, la tensione fra Ravenna e Bisanzio entrava nella sua fase acuta, e gli eserciti imperiali invadevano la Dalmazia e la Sicilia. Su quali basi, non certo favorevoli ai disegni di Teodato, fosse stato possibile raggiungere così presto l'unanime consenso del clero e del laicato di Roma sulla persona di A., risulta evidente dall'atto che il nuovo papa compì non appena consacrato: diede alle fiamme in chiesa il testo dell'anatema con cui era stato colpito Dioscoro per essersi lasciato eleggere e consacrare nonostante la designazione di Felice IV in favore di Bonifacio II. A. dichiarò che Bonifacio II aveva estorto "contra canones" quell'anatema. Veniva così sancita in forma solenne l'illiceità dell'istituto della designazione. Un colpo alla cordialità dei rapporti fra Roma e Giustiniano recò bruscamente l'atteggiamento favorevole alle correnti monofisite, che Teodora incoraggiava, di Antimo, nel giugno 535 assunto al patriarcato di Costantinopoli. Ma le conseguenze che ne potevano derivare a vantaggio di Teodato furono neutralizzate dall'inconsulta decisione del re d'intimare al papa ed al Senato che s'interponessero per ottenere da Giustiniano il richiamo delle sue truppe dalla Dalmazia e dalla Sicilia, minacciando, se non lo avessero fatto, di passare a fil di spada tutti i senatori e le loro famiglie.
A., sulla fine del 535, acconsentì ad accollarsi l'incarico impostogli da Teodato di recarsi a Bisanzio per trattare in suo nome con Giustiniano. Ma lo fece senza dubbio soprattutto perché l'occasione che gli si offriva d'incontrarsi personalmente con l'imperatore poteva risultare assai giovevole per esercitare sul posto una energica azione d'arresto allo slittamento della corte imperiale verso l'eresia monofisita. Teodato avrebbe voluto lasciare le spese della missione, pur dandole il carattere di una "legatio principis" intrapresa per ordine sovrano, a totale carico del tesoro della Chiesa di Roma. Ma questo, certo per effetto di tante successioni papali duramente contrastate, era allora esausto. A. aveva già dovuto rifiutare a Cesario di Arles le sovvenzioni che il primate delle Chiese franche gli chiedeva per venire in soccorso dei poveri, perché l'amministrazione pontificia mancava di fondi liquidi, e sarebbe stato inevitabile, per procurarli, alienare beni di proprietà ecclesiastica, cosa rigorosamente vietata dai canoni. Teodato non poté quindi fare a meno che l'erario regio anticipasse l'oro necessario al papa, al quale tuttavia impose di garantirne il rimborso consegnando vasi sacri come pegno ai cassieri della Prefettura del pretorio d'Italia. È però vero che costoro ebbero poi dal prefetto del pretorio del tempo, che era Cassiodoro, buon amico di A., resosi conto dell'odiosità del fatto, l'ordine di restituirli, considerando ugualmente estinto ogni debito.
Soddisfazioni di profonda sostanza ottenne Agapito. Poco dopo il suo arrivo, sostenuto da molti vescovi e monaci orientali, poté vincere l'influenza esercitata su Giustiniano dai filomonofisiti e dalla sua consorte, loro protettrice. Col pieno consenso dell'imperatore, il 13 marzo 536, nella basilica di S. Maria, consacrò patriarca di Costantinopoli Mena, in luogo di Antimo, da lui sospeso come eretico dalla comunione dei fedeli. Ad A., perché lo approvasse, presentarono professioni di fede difisite così il nuovo patriarca come l'imperatore.
Una analoga professione Giustiniano, con lettera dell'8 giugno 533, aveva inviato a Giovanni II. Ma la professione del 536 era ben più rispettosa del principio fondamentale tanto del supremo magistero dottrinale della Chiesa di Roma, quanto della distinzione del potere secolare dallo spirituale così vigorosamente enunciata da Gelasio. Più rispettosa e per il contenuto dogmatico e per la forma, perché redatta sulla base della professione di fede del papa Ormisda del 519, e perché non metteva, come nel 533, un papa di fronte al fatto compiuto di una definizione di fede imposta da un imperatore con atti di volontà sovrana già espressa in termini di legge (le leggi d'apertura del Codex, del 527 e del 15 marzo 533). Con lettera in data 14 marzo Giustiniano inviò bensì ad A. copia della sua precedente lettera a Giovanni II dell'8 giugno 533, e gli chiese di rinnovarne l'approvazione.
Ma A., nella risposta in data 18 marzo, con fine arte di sfumature stilistiche, inserì nelle formule di lode e di conferma una precisazione ben significativa, perché in piena coerenza con la dottrina gelasiana dei due poteri: il papa elogiava ed accoglieva non perché ammettesse l'"auctoritas praedicationis" nei laici, ma perché intendeva convalidare lo zelo dell'imperatore nell'attestare la sua fede in conformità con le regole dei santi Padri - "laudamus, amplectimur, non quia laicis auctoritatem praedicationis admittimus, sed quia studium fidei vestrae patrum nostrorum regulis confirmamus atque roboramus". Nella lettera a Giovanni II, Giustiniano aveva esplicitamente riconosciuto l'unità di tutte le Chiese nella Chiesa di Roma, ed il primato di questa su tutte le altre Chiese. È vero che dei suoi diritti giurisdizionali sull'Illirico e del vicariato romano di Tessalonica l'imperatore non aveva avuto alcun riguardo due anni dopo, quando, il 14 aprile 535, con un atto di volontà sovrana (la Novella XI), aveva creato egli stesso una nuova vasta provincia ecclesiastica nella penisola balcanica, indipendente da superiori autorità religiose, con sede a Tauresium (presso l'odierna Skoplje in Macedonia), sua città natale. Ma A. non aveva lasciato cadere la questione. In una lettera a Giustiniano del 15 ottobre 535 aveva tutelato i diritti del "principatus S. Petri" avocando alla propria autorità la decisione finale. E la questione rimase in sospeso anche quando A. soggiornò a Costantinopoli. Fu decisa nove anni più tardi, nel senso voluto da Giustiniano, ed anche allora con una sua Novella (la CXXXI, del 18 marzo 545), ma d'intesa con un papa, Vigilio. A., nella stessa lettera, aveva preso posizione anche per un altro caso che toccava i diritti giurisdizionali della Santa Sede per il vicariato di Tessalonica. A Roma si era appellato il vescovo di Larissa, Stefano, contro il patriarca di Costantinopoli Eufemio (il predecessore di Antimo), che lo aveva deposto e in suo luogo aveva consacrato, per ordine dell'imperatore, un altro vescovo, Achille. Il papa, deplorando che il patriarca nulla avesse osato obbiettare, anche a costo di rendersi inopportuno, ad un sovrano pio, benigno e difensore anche dei privilegi di S. Pietro qual era Giustiniano, aveva rivendicato la propria competenza a decidere in merito, quando della questione avesse acquisito piena e diretta conoscenza sulla base degli elementi fornitigli da suoi legati. Gli atti compiuti da A. a Costantinopoli nel 536 attestavano pubblicamente che Giustiniano, cedendo al fermo atteggiamento mantenuto dal papa in quella fase così delicata dei rapporti fra la Chiesa di Roma e Bisanzio, ne aveva accettato il concreto esercizio del primato giurisdizionale della sede di S. Pietro nella capitale stessa dell'Impero.
Di tale primato avrebbe senza dubbio costituito una nuova solenne affermazione la presidenza del concilio convocato a Costantinopoli per pronunciare la condanna di Antimo, se ad impedire ad A. di cogliere quest'altro frutto positivo della sua opera spirituale non fosse sopraggiunta la morte, che lo colse il 22 aprile 536. S'ignora quale età egli avesse, e di quale precisa natura fosse il male cui soggiacque e che, a quanto si disse, insorse e si localizzò nella lingua; non possiamo quindi accertare la fondatezza delle voci allora corse, che imputavano la sua scomparsa ad occulte mene di Teodora, la potente protettrice del patriarca deposto. Le esequie furono particolarmente solenni. La salma, chiusa in una cassa di piombo, venne inviata a Roma, e qui sepolta in S. Pietro il 20 settembre dello stesso anno.
Casi di esercizio concreto da parte di A. del primato giurisdizionale della sede di S. Pietro ci sono attestati nei riguardi anche delle Chiese dei Regni franchi e dell'Africa già vandalica divenuta dominio bizantino. A lui si appellò il vescovo di Riez, Contumelioso, che sotto il peso di gravi accuse era stato, da un concilio tenutosi a Marsiglia nel maggio 535, sospeso e sottoposto a penitenza da compiere in un monastero; e che il predecessore di A., Giovanni II, informato della questione da relazioni di Cesario di Arles e dell'episcopato franco, aveva a sua volta colpito con la sospensione e con la penitenza a vita in un ritiro monastico. A. riservò la sentenza definitiva a giudici da lui delegati, e ordinò che nel frattempo Contumelioso riavesse i beni di sua proprietà privata, ma rimanesse escluso dall'amministrazione di quelli della sua Chiesa e dalla celebrazione della messa. Chiedere all'autorità della Santa Sede il giudizio sulle misure riguardanti gli ariani convertiti e gli ecclesiastici cattolici fuggiti oltre mare, abbandonando il loro gregge, al tempo delle persecuzioni dei re vandali ariani, fu il primo atto compiuto dai duecentoventi vescovi dell'Africa da Belisario allora ritolta a quei re e restituita all'Impero, non appena ebbero deliberato in merito riuniti, per la prima volta dopo la liberazione, sullo scorcio del 534 in concilio generale a Cartagine, sotto la presidenza di quel vescovo, Reparato. Viveva ancora Giovanni II, ed a lui era indirizzata la lettera conciliare; ma l'inclemenza della stagione invernale ritardò l'imbarco della missione incaricata di portarla a Roma, in modo che la lettera poté essere spedita da Cartagine solo quando già vi si sapeva dell'avvento al papato di A., al quale perciò fu presentata, insieme con la lettera di rallegramenti scrittagli per la circostanza da Reparato. Il giudizio di A., espresso con lettera del 9 settembre 535, fu di conferma delle deliberazioni del concilio di Cartagine, che negavano la riammissione ad uffici ecclesiastici di ariani convertiti (nello stesso senso un mese dopo il papa si pronunciò nella lettera a Giustiniano del 15 ottobre, rispondendo all'analogo quesito propostogli, certo pensando al problema del riassetto, anche spirituale, delle regioni africane riconquistate dall'imperatore). A. confermò inoltre le deliberazioni conciliari che stabilivano l'obbligo a vescovi e chierici delle Chiese africane di non lasciare le proprie sedi, fosse pure per recarsi dal pontefice a Roma, se prima non ne avessero ottenuto il permesso dai rispettivi superiori ecclesiastici. Con altra lettera in pari data il papa ridiede a Reparato il rango di metropolita, e come tale lo incaricò di portare a conoscenza di tutto l'episcopato africano quanto la "Sedis Apostolicae principalitas", e cioè la Chiesa di Roma come suprema autorità religiosa, aveva prescritto.
Un posto di notevole rilievo va riconosciuto ad A. in ambito culturale. Prima ancora d'essere assunto al papato aveva creato in Roma una ricca biblioteca di opere dei santi Padri.
Presso la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo al Celio, lungo il lato meridionale del clivo di Scauro, sono visibili i resti di un edificio, identificato come la "bibliotheca sancti Gregorii", menzionata dall'Itinerarium Einsiedlense, nella quale si conservava una raccolta di testi sacri voluta da Agapito. La notizia della fondazione di una prima biblioteca cristiana a Roma da parte di A. è riportata anche da Cassiodoro (cfr. P.L., LXX, coll. 1105 ss.). Dall'analisi delle strutture murarie la costruzione sembra in realtà databile al pieno IV secolo e riferibile verosimilmente ad una ricca "domus urbana"; è possibile d'altra parte che A. abbia riutilizzato questi ambienti, preesistenti, come sede della biblioteca da lui fondata, inserita successivamente da Gregorio Magno nel monastero di S. Andrea. In una silloge epigrafica, l'Einsiedlense, del tempo di Carlomagno, ci è conservata l'iscrizione dedicatoria di grande interesse (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di G.B. de Rossi, II, Romae 1888, p. 28, nr. 55; Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 1898). Attesta infatti non soltanto che nella biblioteca era raffigurata "Sanctorum veneranda cohors", ma che in essa A. aveva raccolto opere le quali esprimevano la stessa unica fede in lingue diverse ("dissona verba quidem, sed tamen una fides"), le opere, cioè, dei Padri così latini come greci. È evidente quindi in A. la consapevolezza dell'importanza che la patristica greca aveva per l'approfondimento del pensiero religioso, e della necessità che essa fosse ben nota anche a Roma. Già i criteri cui si era informato nel creare la sua biblioteca palesavano in lui un proposito che, non appena divenuto papa, avrebbe voluto tradurre in atto: fare della città sede del vicario di s. Pietro un centro di cultura religiosa capace di gareggiare con quelli dell'Oriente, in modo di potere più efficacemente combattere sul terreno speculativo le deviazioni dottrinali così spesso patrocinate da Bisanzio. L'insegnamento superiore a Roma s'atteneva ancora agli studi tradizionali della cultura profana classica d'impronta pagana. Non molti anni prima il padre del monachesimo occidentale, Benedetto di Norcia, era stato così dolorosamente colpito dal modo come vi si conducevano gli studi, che aveva subito abbandonato la città perché temeva, come scrisse di lui Gregorio Magno, di finire in un immane precipizio se appena avesse toccato di quella scienza. A. era stato assunto al papato, e Cassiodoro, allora, come s'è detto, prefetto del pretorio d'Italia, avvertiva il contrasto fra la conoscenza diffusa in Roma degli autori profani e la generale ignoranza dei testi sacri per la mancanza di scuole pubbliche che ne facessero oggetto d'insegnamento. Il primo ministro del re goto Teodato ebbe col papa vicario di s. Pietro scambi d'idee e consenso di piani per istituire a Roma una scuola superiore di studi religiosi quali fiorivano allora in Egitto ad Alessandria ed in Siria a Nisibi, e sui mezzi con cui provvederla di professori adatti. Il viaggio, che segnò la morte di A., e la guerra gotica, che travolse le fortune politiche di Cassiodoro, impedirono al bel disegno di divenire realtà operante.
Sotto più di un aspetto il pontificato di A., pur brevissimo, ebbe grande importanza. L'ebbe soprattutto per la lotta energicamente combattuta contro le persistenti correnti monofisite orientali, nella dignitosa difesa delle prerogative spirituali della cattedra di s. Pietro dalle ingerenze del potere imperiale e per l'efficace tutela del primato giurisdizionale della Chiesa di Roma.
Il Baronio vide nei felici successi e nell'altissima fama in così breve spazio di tempo raccolti da A. in Occidente ed in Oriente, e nelle sue affermazioni del potere papale, meriti per i quali, sotto questi aspetti, nessun altro pontefice gli può essere paragonato. Un insigne studioso tedesco moderno, protestante, E. Caspar, nella sua storia del papato, chiude le pagine dedicate ad A. richiamando il giudizio del Baronio per contrapporgli il proprio, che è sostanzialmente piuttosto negativo. Caspar obbietta che i felici successi rapidamente ottenuti nelle poche settimane del soggiorno a Costantinopoli furono effimeri, perché se ne perdette subito ogni traccia "nell'atmosfera della Chiesa imperiale retta da Giustiniano", e non ebbero uguale capacità di risonanza nel futuro come gli atteggiamenti di Leone I e di Gelasio I, che "un'eco sonante avevano destato nella patria aria occidentale"; non si dovrebbe dunque mettere A. alla pari dei più grandi papi. È vero che il fatto, da A. a buon diritto esaltato, scrivendone al patriarca di Gerusalemme, quale senza precedenti dai tempi di s. Pietro, di un vescovo orientale consacrato per mano di un vescovo di Roma, rimase, per quanto riguardava la sede costantinopolitana, un "unicum". È vero che ben diversa sorte toccò, quasi al compiersi di un anno preciso dalla morte di A., al suo immediato successore, Silverio; e che un ben diverso Giustiniano risulta dal trattamento usato intorno alla metà del secolo per la controversia sulle dottrine dei Tre Capitoli, al successore di Silverio, Vigilio. Questi fatti provano che l'imperatore nel 536 aveva ceduto soprattutto perché stava sotto la pressione concomitante delle urgenti necessità connesse con la guerra imminente agli Ostrogoti in Italia, e della forte personalità di quell'A., al quale un folto gruppo degli stessi monaci orientali s'affidava perché inducesse il sovrano a procedere energicamente contro i promotori dell'eresia, in quanto quei monaci salutavano nel papa l'inviato tempestivamente da Dio a Costantinopoli contro i capi dei monofisiti ed i loro seguaci, come tempestivamente l'apostolo Pietro era stato inviato da Dio a Roma contro le stregonerie di Simon Mago. Giustiniano, cessato, con la scomparsa di A., il dominio esercitato sul suo animo dal papa nel brevissimo tempo in cui era stato in diretto contatto con lui, insistette, sul piano teorico, non più sulla dottrina della distinzione dei due poteri definita a Roma da Gelasio I, ma sull'idea orientale politico-religiosa del "rex et sacerdos".
Giustamente Caspar rileva che "il romano Agapito fu una tragica figura". Ma la tragedia di questo papa sta appunto nel fatto che una morte improvvisa troncò bruscamente un'opera personale appena iniziata; vengono meno così quegli ulteriori elementi di giudizio, che soli potrebbero offrire congrui termini di confronto con i papi Leone e Gelasio, sempre tenendo nel debito conto la fondamentale differenza determinatasi nei rapporti politici tra Roma e Bisanzio, a cominciare dal quarto decennio del sec. VI, per effetto della guerra gotica, rispetto a quelli in precedenza esistenti. Né l'opera di A. rimase senza echi. Li si trova in Occidente. Uno dei più accesi polemisti cattolici del tempo, il diacono Liberato di Cartagine, scrivendone circa venti o trent'anni più tardi, disse che A. a Costantinopoli agì come legato di Cristo: "Christi legatione fungebatur". Significativo, appunto perché colorito di particolari drammatici già propri della leggenda, è il racconto che dei colloqui di A. con Giustiniano e con Antimo ha lasciato il suo biografo nel Liber pontificalis, raffigurando il papa che respinge ogni imposizione, e sfida la prospettiva d'esser deportato in esilio presentatagli dall'imperatore con la fiera risposta: "Io desideravo venire da un Giustiniano imperatore cristiano; trovo invece un Diocleziano, ma io non temo le tue minacce". Sono particolari che ancora dopo oltre quasi otto secoli si riflettono, come bene osservò Caspar, nelle parole che Dante pone in bocca al suo Giustiniano in Paradiso: "una natura in Cristo esser non piue,/credea, e di tal fede era contento;/ma 'l benedetto Agapito, che fue/sommo pastore, a la fede sincera/mi dirizzò con le parole sue" (Paradiso VI, 14-18).
In Oriente gli avversari giurarono ad A. un odio tenace. Videro nel localizzarsi alla lingua del male che così repentinamente lo aveva spento l'effetto di una punizione divina. Ancora nella seconda metà del sec. XII il patriarca giacobita di Antiochia, Michele Siro, imprecava: "Sia maledetta la sua memoria!". Ma anche questo stesso odio tanto profondo e duraturo è attestazione del perpetuarsi del ricordo di un uomo di singolare rilievo. E, sempre per l'Oriente, lo attestano l'esaltazione fattane nel Synaxarium della Chiesa di Costantinopoli, redatto non prima del sec. X, e il culto che la liturgia greca dedica al suo nome nelle funzioni religiose del 17 aprile. Nel Calendarium Romanum la memoria liturgica ricorre il 22 aprile.
fonti e bibliografia
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